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1 febbraio 2018

La vetrina degli incipit - Gennaio 2018

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...




« Un mattino d’estate, più di trenta e meno di quarant’anni fa, due ragazze piangevano disperatamente nella cabina di una nave passeggeri in partenza da Gravesend per Bombay, nelle Indie Orientali. Avevano entrambe la stessa età, diciott’anni. Entrambe, fin da bambine, avevano frequentato la stessa scuola diventando amiche carissime. E ora si separavano per la prima volta – forse per sempre. Il nome dell’una era Blanche. Il nome dell’altra era Anne. »
Uomo e donna, di Wilkie Collins - Valetta


«A tredici anni non conoscevo più l’altra mia madre. Salivo a fatica le scale di casa sua con una valigia scomoda e una borsa piena di scarpe confuse. Sul pianerottolo mi ha accolto l’odore di fritto recente e un’attesa. La porta non voleva aprirsi, qualcuno dall'interno la scuoteva senza parole e armeggiava con la serratura. Ho guardato un ragno dimenarsi nel vuoto, appeso all'estremità del suo filo. Dopo lo scatto metallico é comparsa una bambina con le trecce allentate, vecchie di qualche giorno. Era mia sorella, ma non l'avevo mai vista. Ha scostato l'anta per farmi entrare, te tenendomi addosso gli occhi pungenti. Ci somigliavamo allora, più che da adulte.»
L'Arminuta, di Donatella di Pietrantonio - Chiara A.


«La cosa più stupida da dire a un malato è che lo si trova molto bene, che è una fissazione, che tutti stanno un po' giù ecc. La cosa più triste, invece, è quando non te lo dicono più, anzi, non sanno bene che dire. Solo i dottori trovano le parole per ingannarti, è questo che imparano all'università, e tu esci dallo studio sollevato ma appena arrivi all'ascensore ti rendo conto che sono balle a pagamento e fai la faccia di Bob Hope quando scopre uno scheletro nell'armadio: lo richiude subito come se niente fosse ma dopo due minuti urla per lo spavento. Bene, Z. è al secondo stadio, quello triste. Piange spesso, irrefrenabilmente, con grande vergogna sua e imbarazzo dei presenti, soprattutto dell'angelo incazzoso che vive con lei.

Perché mi è toccata questa umiliazione? Sono stata sempre bene e così orgogliosa della mia salute: non ho la febbre da decenni, l'influenza non mi si attacca, porto bene gli anni. Già, gli anni. Ne dimostravo dieci di meno e la malattia me ne ha regalati una dozzina più di quelli giusti. Sono in quell'età in cui la pubblicità ti si rivolge ancora offrendoti creme 'per pelli mature' in attesa di propinarti polvere per dentiere e assorbenti invisibili. Tutto per continuare un gioco che non ti dice più niente con signori cui antiossidanti e pillole azzurre dovrebbero donare il turgore di un attimo, fuggente più del solito.

E poi fa caldo, troppo caldo, e l'Estate Romana sta per cominciare col suo fracasso notturno così sgradito ai nevrastenici e agli invidiosi. Il quinto Vangelo, la televisione, dice che questa è l'estate più calda da cinquanta, cento, centocinquanta anni. Lo dice con un'ansia quasi gioiosa, come se ci fosse una gara tra le città e Roma, coi suoi trentotto gradi che 'vengono percepiti' come quaranta, fosse in buona posizione per vincere il campionato.
»
L'ultima estate e altri scritti, di Cesarina Vighy - Polyfilo

«L'inizio. Il problema è l'inizio. Ho tante cose da raccontarle, Manola.Sono così piena. E' una pienitudine piuttosto dolorosa, mi creda. Lo so, basterebbe buttare lì il primo sassolino, a caso. Temo che verrebbe giù una irrefrenabile slavina. Non ho nulla di personale contro di lei, anzi quel turbante di stoffa intignata che ha sul capo mi piace molto. Però ho bisogno di calma. Si rende conto di quanti equivoci possono nascere da un inizio sommario? Partire col piede sbagliato sarebbe catastrofico , l'errore iniziale si ripeterebbe milioni e milioni di volte, come l'errore cromosomico in un embrione. Non possiamo permettercelo. Almeno io, nella condizione in cui mi trovo, non posso permettermi un altro passo falso. Non è maniacalità lamia, è prevenzione. Eppure sento che devo fidarmi, devo lasciar ruzzolare nelle sue esoteriche mani la mia slavina vitae, d'altronde non ho alternative. Si sarà accorta di primo acchito che non sono una cliente abituale. E' stato il caso a condurmi qui, e lei sa bene che il caso non esiste, è unartiglio nel caos di qualche nostra misconosciuta volontà.»
Manola, di Margaret Mazzantini - Cattivissimaprof

«Si svegliò, e non ricordava più il proprio nome.
Era pieno di dolori. Fasci di fiamme gli roteavano nella testa e in gola, nel ventre e nel petto. Cercò di deglutire ma non andò oltre un tentativo. La lingua gli si era incollata al palato. Bruciava e doleva. Gli occhi pulsavano. Sembravano volersi espandere fuori delle orbite. Come per nascere, pensò. Io non sono nessuno. Solo un grande ammasso di sofferenza.
»
La rete a maglie larghe, di Håkan Nesser - Emerson

«Qualche ora prima dell’alba Henry Perowne, un neurochirurgo, si sveglia per ritrovarsi già in movimento, seduto nell’atto di scostare le coperte e quindi di alzarsi in piedi. Non sa esattamente da quanto è cosciente, né del resto la cosa risulta avere rilevanza. Non gli è mai successo nulla di simile ma non è allarmato e neppure vagamente sorpreso, perché si muove con assoluta disinvoltura, provando un piacere diffuso agli arti, e sentendosi schiena e gambe insolitamente vigorose. Eccolo in piedi, nudo accanto al letto – si corica sempre nudo – in tutta la sua statura, consapevole del placido respiro di sua moglie e dell’aria invernale della stanza sulla pelle. Anche quella è una sensazione gradevole. L’orologio sul comodino segna le tre e quaranta. Henry non ha idea di che cosa ci faccia alzato: non sente il bisogno di liberare la vescica, e neppure è turbato da un sogno o da qualche particolare del giorno precedente, o addirittura dalle condizioni in cui versa il mondo. È come se, li in piedi al buio, si fosse materializzato dal nulla, in piena forma e in completa libertà. Non si sente stanco, a dispetto dell’ora e delle fatiche degli ultimi giorni, e non è nemmeno preoccupato per un caso recente. Anzi, è sveglio, sereno e inspiegabilmente euforico. Senza averlo deciso e per nessuna ragione al mondo, si incammina verso la più vicina delle tre finestre della stanza con un passo di tale agilità e scioltezza da fargli sospettare che si tratti di un sogno o di un episodio di sonnambulismo. Se è cosí, rimarrà deluso. I sogni non gli interessano; trova piú promettente la possibilità che tutto questo sia vero. D’altronde è perfettamente lucido, ne è piú che certo, e sa bene di essersi lasciato il sonno alle spalle: riconoscere la differenza tra sonno e veglia, distinguerne i confini, sono questi i fondamenti della sanità mentale.»
Sabato, di Ian McEwan - Sakura
«Uno
La sala del terrazzo

Tre miglia a nord del Tamigi, nel centro di Oxford, a una certa distanza da dove il Jordan, il Gabriel, il Balliol e altre due dozzine di grandi college si contendevano la supremazia nelle gare di canottaggio, laggiù dove la città non era solo un mucchio lontano di torri e di guglie oltre le brumose piane di Port Meadow, si ergeva il convento di Godstow, dove monache gentili si occupavano delle loro sacre faccende; e, sulla sponda opposta, c’era una locanda chiamata The Trout.
La locanda era un edificio di pietra, tortuoso ma accogliente. C’era una terrazza sul fiume dove i pavoni (uno di nome Norman, e l’altro Barry) tampinavano gli avventori, servendosi senza la minima esitazione delle vivande e levando occasionalmente il capo per lanciare grida feroci e insensate. C’era una sala interna in cui i signori, se tali si possono considerare gli accademici, bevevano birra e fumavano la pipa; c’era una sala aperta a tutti, in cui i battellieri e i braccianti agricoli sedevano accanto al caminetto o giocavano a freccette, o stavano in piedi al banco a spettegolare, a discutere, o semplicemente a ubriacarsi con calma; c’era una cucina, dove la moglie dell’oste preparava ogni giorno un grande arrosto, tramite un complesso sistema di ingranaggi e catene che ruotavano lo spiedo su un falò; e c’era un garzone di nome Malcolm Polstead.
Malcolm era l’unico figlio dei locandieri. Aveva undici anni ed era di indole curiosa e gentile, corporatura robusta e chioma fulva. Frequentava la scuola elementare Ulvercote, a un miglio di distanza, e gli amici non gli mancavano, anche se era al colmo della felicità quando si divertiva da solo con Asta, il suo daimon, sulla loro canoa, su cui aveva dipinto il nome di La Belle Sauvage.
»
Il libro della polvere. Libro primo. La belle Sauvage, di Philip Pullman - Il gatto Zorba
«Baicolo si crogiolava beato sotto i raggi dorati di quel mattino di giugno, godendosi finalmente il tepore dell'estate dopo giorni di vento così forte da far venire i oeli ritti sulla schiena felina, quasi da poterci infilare tante perline colorate di Murano. Ora che al Bora, dopo aver scorazzato in laguna, se n'era finalmente ritornata dalla parti diTrieste,Venezia prometteva di regalare una splendida giornata, calda e serena.
"I gatti sono fatti per il sole" si ripetè facendo le fusa e stiracchiandosi le zampe anteriori.Lisciandosi il pelo fulvo con ritmico movimento della lingua ammise che il detto del suo amico Pastrocio, piccione per turisti in Piazza San Marco, non diceva proprio così." I gatti son fatti per l'ozio al sole" lo canzonava sempre il pennuto. Baicolo scosse la testa. Quello non era ozio, per tutti i gatti a nove code!Il suo era meritato riposonon aveva forse salvato Venezia dall'acqua alta? Sì, L'Anello del Patto con il mare l'vevano poi scovato la sua padroncina Mistica e il suo amico Giaki, ma non ce l'avrebbero mai fatta senza il suo aiuto. Chi li aveva abilmente condotti sulla pista giusta, fiutando i Siori del Tempo? Lui, si rispose con una certa sufficienza da divo, lisciandosi i baffi con la zampa.
»
Mistica Maeva e la Torre delle Stelle, di Laura Walter - Cattivissimaprof

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