L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Sarebbero dovuti passare molti anni prima che Max potesse dimenticare l’estate in cui, quasi per caso, scoprì la magia. Correva l’anno 1943 e i venti di guerra trascinavano irrimediabilmente il mondo verso il baratro. A metà giugno, il giorno in cui Max compì tredici anni, suo padre, orologiaio e inventore a tempo perso, riunì la famiglia in salotto e annunciò che era l’ultimo giorno che avrebbero trascorso in quella che era stata la loro casa negli ultimi dieci anni. La famiglia si trasferiva sulla costa, lontano dalla città e dalla guerra, in una casa accanto alla spiaggia di un piccolo villaggio sulle rive dell’Adriatico.»
«A guardarlo non si sarebbe certo detto che fosse capace di causare un tale trambusto, ma quello che vedeva là sotto era in gran parte imputabile a lui. E andava bene così. Aveva novantun anni, era paralizzato, inchiodato su una sedia a rotelle e collegato a una bombola di ossigeno. Il secondo ictus, sette anni prima, aveva rischiato di ucciderlo, ma Abraham Rosenberg era ancora vivo, e perfino con i tubicini nel naso la sua autorevolezza in campo legale era superiore a quella degli altri otto giudici. Era l’unica leggenda che restava alla Corte, e il fatto che respirasse ancora esasperava gran parte della folla in tumulto. »
«Elisa saliva per il Largo affollato, facendosi strada tra le donne che chiacchieravano a voce alta e i garzoni che, incuranti dei rimproveri, si infilavano tra le loro gonne per sbrigare le proprie faccende. L’inverno scioglieva il suo gelo sotto il sole rinvigorito, e sulle giovani piante ai bordi della strada qualche gemma intimidita si affacciava a raccogliere quel piacevole tepore. Ormai la primavera era vicina e la lana avrebbe presto lasciato spazio alla leggerezza delle vesti estive.
Elisa teneva stretto il suo cesto, il cui contenuto era avvolto in un telo nero, e intanto pensava alle signore ricche che andavano a messa la domenica, ai loro vestiti, a quei bei cappelli. Pensava alle loro risate fuori nel sagrato, quando si fermavano a parlare con la sua padrona e le chiedevano della moda e dei suoi progetti futuri.
Lei stava sempre un passo indietro, in silenzio. Era la sua aiutante: un ruolo importante. Da quasi un anno faceva apprendistato nel laboratorio della signora Alba Mereu e la sua vita procedeva lenta e serena, dedicata a servire la padrona, a consegnarne i lavori e a sognare di sostituirla, da grande, proprio in quel mestiere.
Il Largo moriva nella grande piazza, dove coppie ben vestite prendevano il sole sedute sulle panchine. La luce del sole, catturata dai bicchieri di vetro poggiati sui tavolini dei caffè, si spandeva nell’aria in un arcobaleno tremolante.
Elisa si incamminò per la via Manno. Quando giunse alla piazza della Costituzione salì ancora per il viale Regina Elena e lì terminò il suo viaggio. Stava davanti a un imponente cancello di ferro battuto. Al di là di esso, una villa dalle pareti bianche, i cornicioni color ocra e gli infissi di legno lucidato, che al sole sembravano accendersi come fuochi. Elisa conosceva già quella casa.
Si servivano spesso dalla sua padrona, specialmente la figlia del giudice, che aveva poco più di vent’anni e, quando usciva a passeggiare, si guardava attorno con interesse, decisa a sposare un partito che le garantisse la stessa vita agiata nella quale era cresciuta. Una vita che Elisa non riusciva neppure a immaginare. Non solo perché, provenendo dal paese, non aveva conosciuto la vera ricchezza prima di arrivare in città, ma soprattutto perché la povertà era nel sangue e, “se nasci servo, non puoi alzare la testa e sognare un giorno di diventare padrone”, le diceva sempre sua madre. »
«Il piede rimaneva immobile, chiedendosi perché gli fosse stata levata la vita. L’aveva capito al primo tonfo: da quel momento dalla caviglia, suo naturale approdo al resto del corpo, il sangue sarebbe fluito.»
«'La cosa più stupida da dire a un malato è che lo si trova molto bene, che tutti stanno un po' giù ecc. La cosa più triste è quando non te lo dicono più, anzi non sanno bene che dire. Solo i dottori trovano le parole per ingannarti, è questo che imparano all'università, e tu esci dallo studio sollevato ma appena arrivi all'ascensore ti rendi conto che sono balle a pagamento e fai la faccia di Bob Hope quando scopre uno scheletro nell'armadio: lo richiude subito come se niente fosse ma dopo due minuti urla per lo spavento.
Bene, Z. è al secondo stadio, quello triste. Piange spesso, irrefrenabilmente, con grande vergogna sua e imbarazzo dei presenti, soprattutto dell'angelo incazzoso che vive con lei.
Perché mi è toccata questa umiliazione? Sono stata sempre bene e così orgogliosa della mia salute: non ho la febbre da decenni, l'influenza non mi si attacca, porto bene gli anni. Già, gli anni. Ne dimostravo dieci di meno e la malattia me ne ha regalati una dozzina in più di quelli giusti.
Sono in quell'età in cui la pubblicità ti si rivolge ancora offrendoti creme "per pelli mature" in attesa di propinarti polvere per dentiere e assorbenti invisibili. Tutto per continuare un gioco che non ti dice più niente con signori cui antiossidanti e pillole azzurre dovrebbero donare il turgore di un attimo, fuggente più del solito.
E poi fa caldo, troppo caldo, e l'Estate Romana sta per cominciare con il suo fracasso notturno così sgradito ai nevrastenici e agli invidiosi. Il quinto Vangelo, la televisione, dice che questa è l'estate più calda da cinquanta, cento, centocinquanta anni. Lo dice con un'ansia quasi gioiosa, come se ci fosse una gara tra le città e Roma, con i suoi trentotto gradi che "vengono percepiti" come quaranta, fosse in buona posizione per vincere il campionato.»
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