L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Erano le cinque del mattino, pioveva, e Eric von Lhomond, ferito davanti a Saragozza, curato a bordo di una nave ospedale italiana, aspettava al bar della stazione di Pisa il treno che lo avrebbe riportato in Germania. Bello nonostante i suoi quarant'anni, pietrificato in una specie di dura giovinezza, Eric von Lhomond doveva ai suoi antenati francesi, al padre prussiano e alla madre baltica, la sua alta statura, il profilo stretto, i pallidi occhi azzurri, l'arroganza dei rari sorrisi e quello sbattere dei tacchi che gli era ormai vietato dalla frattura al piede e dalle bende. Si approssimava quell'ora del crepuscolo mattutino in cui le creature sensibili si aprono alle confidenze e i criminali confessano, quell'ora in cui persino i più silenziosi lottano contro il sonno a colpi di storielle e ricordi. Eric von Lhomond che si era sempre ostinatamente tenuto sul lato destro della barricata, apparteneva a quel tipo di uomini troppo giovani nel millenovecentoquattordici per aver fatto qualcosa di più che sfiorare il pericolo, e che i disordini dell'Europa del dopoguerra, l'inquietudine personale, l'incapacità di soddisfarsi e insieme di rassegnarsi, trasformava in guerrieri di ventura al servizio di ogni causa semipersa o semivinta.
Aveva preso parte ai diversi movimenti che nell'Europa centrale sfociarono nell'avvento di Hitler; lo si era visto al Chaco e in Manciuria, e un tempo, prima di militare agli ordini di Franco, aveva comandato un corpo di volontari che partecipavano alla lotta antibolscevica in Curlandia. Con il suo piede ferito, fasciato come un bambino, egli riposava di sbieco su una seggiola e sempre parlando tormentava distrattamente il bracciale fuori moda di un enorme orologio d'oro, di un cattivo gusto così assoluto da costringere ad ammirarlo, come una prova di coraggio, al polso di chi lo portava»
«E’ tutto bianco, fresco di pittura. Ci sono un letto, uno scaldaletto e un lavamano. C’e’ un crocifisso e, sotto, un inginocchiatoio. Un pavimento freddo,di marmi di mille colori a mosaico. Sulla parete di sinistra, spoglia, c’è una porticina, vicino a un enorme camino che un poco la nasconde. L’apertura si confonde nella parete, non ha chiavistello, né maniglia, bisogna spingere a fondo per fare scattare una serratura. Conduce in una stanzetta più piccola, di forma triangolare, rubata chissà come alla tromba delle scale. Credo che servisse per nascondere gli amanti, o i danari. Lì dentro ci sono due colonnine ricoperte da stucchi, foglie, ricci e angioletti gonfi che scendono dal soffitto sulle pareti, hanno tracce do oro scrostato nei capelli ormai bianchi. Quando ho scoperto quel nascondiglio, ho pensato fosse comodo metterlo lì, il tavolino con lo strigile e i belletti. Nella mia cella non volevo altro. La stanza è ampia, ha il soffitto molto alto. Doveva essere la camera nuziale, un tempo, prima che questo palazzo diventasse un convento. Chissà quanti amori sono passati per di qui. Con le pareti bianche, con questo profumo di nuovo, pare che non esistano più, che l’amore non esista più, che ogni amore se ne vada, presto o tardi. »
«In una città traboccante di rifugiati ma ancora perlopiù in pace, o almeno non del tutto in guerra, un giovane uomo incontrò una giovane donna in un'aula scolastica e non le parlò. Per molti giorni. Lui si chiamava Saeed e lei si chiamava Nadia, e lui aveva la barba, non una barba folta, una barba mantenuta deliberatamente corta, e lei era sempre avvolta dalla punta dei piedi alla fossa giugulare in una fluente tunica nera. All'epoca la gente poteva ancora permettersi, in fatto di abbigliamento e pettinature, il lusso di conciarsi più o meno come le pareva, entro certi limiti ovviamente, perciò quelle scelte avevano un significato.
Può sembrare strano che in una città sull'orlo del baratro i giovani vadano ancora a scuola - in questo caso un corso serale di product branding e corporate identity - ma così stanno le cose, nelle città come nella vita: un momento sbrighiamo le nostre incombenze come se nulla fosse e quello dopo moriamo, e il fatto che la fine incomba sempre su di noi non impedisce i nostri effimeri incipit e svolgimenti, fino all'istante in cui lo fa.»
«Tutti parlavano del libro. Non potevo più camminare in pace per le strade di New York; non potevo più fare jogging nei vialetti di Central Park senza che qualche passante mi riconoscesse ed esclamasse: “Ehi, è Goldman! Lo scrittore!”
Capitava perfino che alcuni si mettessero a correre per seguirmi e farmi le domande che li assillavano: “Le cose che ha scritto nel suo libro sono tutte vere? Harry Quebert ha davvero agito così?”
Nel bar del West Village che frequentavo abitualmente, alcuni avventori non si facevano scrupoli a sedersi al mio tavolino per volgermi la parola. “Signor Goldman, sto leggendo il suo libro: non riesco a staccarmene! Il primo era bello, ma questo… E’ vero che le hanno dato un milione di dollari per scriverlo? Quanti anni ha? Solo trenta? Trent’anni! E ha già guadagnato tutti questi soldi!”
Persino il portiere del mio palazzo, che vedevo procedere nella lettura tra un’apertura di portone e l’altra, una volta finito il libro mi aveva bloccato a lungo davanti all’ascensore, per confidarmi quello che gli pesava sul cuore: “Allora è questa la fine che ha fatto Nola Kellergan? Che orrore! Ma come si può fare una cosa simile? Eh, signor Goldman, com’è possibile?”
Tutta New York si appassiona al mio libro; era uscito da due settimane e già prometteva di diventare il libro più venduto dell’anno nel continente americano.
Tutti volevano sapere cosa fosse successo nella cittadina di Aurora nel 1975.
Se ne parlava dappertutto: alla televisione, alla radio, nei giornali.
Avevo appena trent’anni e con quel libro, che era soltanto il secondo della mia carriera, ero diventato lo scrittore più in vista del paese.»
«UN fagiano selvatico solitario volava lungo l’erta della collina, quasi rasente i lunghi steli dell’erba. Quando raggiunse la cresta, reclinò le ali e allungò le zampe, poi scomparve al coperto. Dalla valle lo seguivano due ragazzi e un cane. Davanti veniva il cane, con la lingua rosea che penzolava all’angolo della bocca, e i gemelli lo seguivano correndo spalla a spalla. Avevano entrambi scure chiazze di sudore sulla camicia color kaki, poiché il sole africano era ancora caldo, anche se ormai mezzo nascosto dalla linea dell’orizzonte. Il cane sentì l’odore del volatile e si arrestò fremendo: per un attimo rimase immobile quasi succhiandolo attraverso le narici, poi partì in caccia. Agiva rapidamente, avanti e indietro, in uno zigzag di giravolte, a testa bassa, e solo la coda nera in movimento appariva sopra la distesa di erba scura e secca. I gemelli lo seguivano. Ansimavano senza fiato: scalare la collina era stata una dura fatica. «Tirati da parte, mi vieni tra i piedi», disse Sean rivolto al fratello, e Garrick si affrettò a obbedire. Sean lo superava di dieci centimetri e dieci chili, e la cosa gli dava diritto al comando. Sean tornò a prestare attenzione al cane. «Stanalo, Tinker. Cercalo, dài!».»
«Alzai gli occhi per via delle risate, e continuai a guardare per via delle ragazze.
Notai prima di tutto i capelli, lunghi e spettinati. Poi i gioielli che brillavano al sole. Erano in tre, così lontane che vedevo solo la periferia dei loro lineamenti, ma non importava: capii subito che erano diverse da tutte le altre persone del parco. […] Le ragazze dai capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio.. »
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