L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«"Scusi?" ripete lei. "Quando vuole che sia recapitato?"
Mi passo due dita sul sopracciglio sinistro, premendo. Ho la testa che mi scoppia. "Fa lo stesso" rispondo.
La commessa prende il pacco. La scatola da scarpe che giaceva sulla veranda di casa mia meno di ventiquattr'ore fa; avvolta in un sacchetto di carta marrone, sigillata, con scotch trasparente, uguale identica a come l'avevo ricevuta. Ma indirizzata, ora, a un altro destinatario. Il prossimo sulla lista di Hannah Baker.
"Quant'é?"
La tizia posiziona la scatola su un tappetino di gomma, poi digita una serie di cifre sulla tastiera. Appoggio sul bancone il mio bicchierone di caffè da autogrill e controllo il display. Tito fuori dal portafoglio qualche biglietto da un dollaro, pesco nelle tasche qualche moneta, e piazzo i soldi davanti a lei.
"Temo che il caffè non abbia ancora fatto effetto" osserva. "Manca un dollaro".
Le do il dollaro e mi stropiccio gli occhi assonnati. Il caffè ora è quasi freddo, tanto che devo sforzarmi per trangugiarlo. Ma ho assolutamente bisogno di svegliarmi.
O forse no. Forse è meglio passare la giornata mezzo addormentato. Forse è l'unico modo per arrivare fino a sera.
"Dovrebbero recapitarlo domani" aggiunge lei. "O al massimo dopodomani" e lascia cadere il pacco in un carrello alle sue spalle.
Avrei dovuto spedirlo dopo la scuola. Avrei dovuto concedere a Jenny un giorno in più di pace.
Anche se non lo merita.
»
«Quel giorno piovevano diamanti, ma non importava a nessuno. Gli abitanti del pianeta Zanak si limitavano a reggere i loro ombrelli dorati e a continuare a vivere come sempre, il che, per la maggior parte del tempo, implicava lo strascinarsi lungo strade già ingombre di smeraldi e rubini. Nessuno sollevava lo sguardo. Nessuno era ansioso di ammirare la pioggia di pietre preziose, e men che meno di beccarne una nell'occhio. Non era questa, comunque, la vera ragione. Se gli abitanti della capitale di Zanak avessero guardato in alto non avrebbero potuto evitare di vedere la montagna. E nessuno voleva vederla. La gente di Zanak, perciò, tirava avanti a testa bassa, sotto gli ombrelli ricoperti d'oro ammaccati dalla pioggia di diamanti.»
«La distanza fra vicolo Bleher dove abita e il suo ufficio a Palazzo Yacoubian non supera i cento metri, ma ogni mattina Zaki bey al-Dusuqi impiega un'ora per salutare gli amici che incontra lungo la strada. Conosce per nome tutti i proprietari dei negozi di abbigliamento e di scarpe, i commessi e le commesse, gli inservienti e gli impiegati del cinema, i clienti del Caffè brasiliano, perfino i portieri, i lustrascarpe, i mendicanti e i vigili; Zaki bey li saluta e commenta con loro le ultime novità. Vi è arrivato verso la fine degli anni quaranta, dopo essersi laureato in Francia, e non l'ha più abbandonata. Gli abitanti del quartiere lo considerano un simpatico personaggio folcloristico. Sia d'estate sia d'inverno indossa un abito di due taglie più grande che copre il suo corpo magro ed emaciato; il fazzolettino, accuratamente stirato, dello stesso colore della cravatta, gli sporge sempre dal taschino della giacca; il prestigioso sigaro cubano dei bei tempi andati è stato sostituito da un dozzinale sigaro nazionale che ha un odore terribile e tira male.
Il volto anziano e raggrinzito, gli spessi occhiali da vista, la dentiera smagliante e i capelli tinti di nero con le poche ciocche pettinate da sinistra per coprire la diffusa calvizie: in poche parole, Zaki al-Dusuqi è una leggenda. La sua presenza emana un'aura interessante e surreale (sembra poter scomparire da un momento all'altro, come un attore che si toglie gli abiti di scena per indossare vestiti normali). E se a questo aggiungiamo lo spirito allegro, le barzellette sconce che racconta in continuazione, e la straordinaria capacità di attaccare discorso con chiunque, come se tutti fossero amici di vecchia data, risulta facile comprendere il segreto della calorosa accoglienza che tutti sulla strada gli riservano»
«Presto ho scoperto di essere morta. Siccome però mi toccava continuare a vivere, ho tirato avanti. Credo che capiti a molti, se non a tutti, e i più fanno come me: tirano avanti, senza cedere alla tentazione di voltarsi indietro. Tentazione che prima o poi arriva. Di recente mi è capitato di vedere un’intervista a John McEnroe in occasione dell’uscita della sua autobiografia. Campione di stile e tecnica nel tennis tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, il numero uno delle classifiche mondiali è diventato brizzolato e autentico dispensatore di battute in tipico stile dry humour. A un certo punto, mentre proiettavano sul fondo dello studio televisivo sequenza dell’incontro più importante della sua carriera, quello disputato con Bjorn Borg a Wimbledon nel 1980, McEnroe si alza dalla sedia e fa una cosa che mi pare incredibile; s’inchina col capo a se stesso, cioè all’immagine vittoriosa e giovanissima di sé che scorre nel filmato. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e non faccio nessuno sforzo per trattenermi. Mi abbandono a un pianto disperato e voluttuoso, cercando invano un fazzoletto. McEnroe stava salutando un se stesso passato, morto. Era come se dicesse: sei esistito, sei stato quel campione ammirato da tutti. Ora che non sono più te, ora che sono diventato un altro. Ti ammiro anche io, ti riconosco per quel che eri, ti rimpiango.»
«Sandra strabuzzò gli occhi e sorrise. Sembrava una bambina che avesse appena ricevuto il dono desiderato da sempre. Ed era così che si sentiva:una bambina alla soglia dell'estasi. Quando, senza nemmeno scendere dall'auto, Saverio le aveva mostrato le chiavi, per poco non era saltata in aria dalla gioia. Era uscita dallo studio grafico dove lavorava e gli era corsa incontro con il rapidograph in mano, pensando ai mesi passati lentissimi, i soldi spesi e al direttore dei lavori che aveva continuato a rimandare la consegna dell'immobile.
«Non ti azzardare a tornare senza!», aveva detto Sandra a Saverio quella mattina virgola quando lui era partito per andare in città. Saverio agiò il mazzo attaccato a un orsetto, mentre Sandra saliva a bordo e gli scoccava un bacio sulla bocca.
«Ce l'hai fatta. Hanno finito, finalmente» disse, senza riuscire a smettere di sorridere. Afferrò le chiavi e le guardò, una lacrima le luccicava all'angolo di un occhio.
«Che fai piangi?» le chiese Saverio. Lei fece spallucce, si avvicinò e lo baciò di nuovo.
«Ehi, avvocato» rispose, quasi senza staccare le labbra dalle sue «ora potrai lasciare quel lavoraccio e aprire uno studio privato.»
«Ma certo! magari apriamo anche uno studio grafico per te. Con tutte le spese che abbiamo avuto, manca solo che lasciamo i nostri impieghi» replicò avviando l'auto e immettendosi nel traffico, quasi senza nemmeno badare alle vetture che sopraggiungevano.
«Aspetta. Devo avvertire che...» iniziò la ragazza, guardando verso il palazzo dove lavorava.
«Non c'è tempo, dobbiamo andare» rispose Saverio sorridendo. Sandra alzo le spalle, chiuse il rapidograph e se lo infilò in tasca.»
«L’avevano chiamata Corinna perché era un nome di famiglia ma la chiamavano tutti Cori (con la o aperta).
Era stata la mamma ad imporre tanto il nome che il diminutivo. Il marito non metteva bocca nelle faccende di casa.
Quel pover’uomo era stato confinato in un angolo: mamma e figlia lo ignoravano. Cori era ancora una ragazzina e aveva già imparato a trattare altezzosamente gl’inferiori: cominciando dal padre.
Allora stavano alla Spezia. Cori non ci si poteva vedere. Aspettava con ansia l’estate, quando sarebbero andate in vacanza a Volterra.
In settembre prendeva le ferie anche il padre. Si vergognavano ad andarci fuori insieme. Erano uno spettacolo: lei che dava il braccio alla mamma e la trascinava via; il padre che durava fatica a star loro dietro.
Poi il padre aveva fatto l’ultima: era morto prima dei fatidici diciannove anni, sei mesi e un giorno di servizio che avrebbero assicurato una pensioncina alla vedova. »
«Un giorno Annabel vide in cielo il sole e la luna nello stesso istante. La scena la riempì di un terrore che la consumò totalmente e non l'abbandonò finché la notte non si concluse in catastrofe, essendo lei priva d'ogni istinto di conservazione di fronte alle ambiguità.
Era successo mentre tornava a casa, attraversando il parco a piedi. Nel sistema di corrispondenze con cui interpretava il mondo attorno a sé, il parco era investito d'un significato particolare, e ne percorreva i viali invasi dall'erba con un piacere nervoso, soprattutto in certe luci offuscate dell'inverno, quando gli alberi erano spogli e il sole, al tramonto, segnava i contorni dei rami con un freddo fuoco. »
« Fu sua moglie la prima a saperlo. «Mi faresti un piccolo favore?» chiese Greta dalla camera da letto quel pomeriggio. «Dovresti aiutarmi un attimo con una cosa. Non ci vorrà molto.» «Certo» disse Einar tenendo gli occhi fissi sulla tela. «Quello che vuoi.» Il vento del Baltico rinfrescava la giornata di primavera. Erano nel loro appartamento nella Casa delle Vedove, ed Einar, un uomo minuto e quasi trentacinquenne, stava dipingendo a memoria un paesaggio invernale del Kattegat. Sull’acqua nera e crudele, tomba di centinaia di pescatori che ritornavano a Copenaghen con le loro prede sotto sale, era stesa una cappa bianca. Il vicino del piano di sotto era un marinaio con la testa piccola e tonda che insultava la moglie. Quando Einar dipingeva l’increspatura grigia di ogni onda, immaginava il marinaio che annegava, con una mano sollevata a chiedere aiuto, e sentiva la sua voce che sapeva di vodka di patate dare ancora della puttana da porto alla moglie. In questo modo Einar capiva che sfumatura dare ai suoi colori: abbastanza grigia da inghiottire un uomo del genere e richiudersi come pastella sul suo ringhio che affondava. «Arrivo fra un attimo» disse Greta, più giovane del marito e bella, col viso largo e piatto. «Poi possiamo cominciare.» Anche in questo Einar era diverso da sua moglie. Lui dipingeva la terra e il mare: piccoli rettangoli illuminati dalla luce obliqua di giugno, o offuscati dal pallido sole di gennaio. Greta dipingeva ritratti, spesso a dimensioni naturali, di personaggi di una certa importanza, con le labbra rosa e i capelli luminosi. Il signor I. Glückstadt, il finanziere del porto franco di Copenaghen. Christian Dahlgaard, pellicciaio del re. Ivar Knudsen, socio dei cantieri navali Burmeister e Wain. Quel giorno doveva dipingere il ritratto di Anna Fonsmark, mezzosoprano dell’Opera reale danese. Direttori e magnati dell’industria commissionavano a Greta ritratti da appendere in ufficio, sopra uno schedario, o alla parete di un corridoio per nascondere i segni lasciati dal carrello di un operaio. Greta apparve sulla soglia della camera. Si era raccolta i capelli: «Sei sicuro che non ti dispiace interrompere per darmi una mano?» gli chiese. «Non te l’avrei chiesto se non fosse importante; il fatto è che Anna ha di nuovo rimandato la seduta di posa. Perciò… ti dispiacerebbe provarti le sue calze?» chiese Greta «… e le scarpe?»»
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