L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«In mezzo alle montagne c’è il lago d’Orta. In mezzo al lago d’Orta, ma non proprio a metà, c’è l’isola di San Giulio. Sull’isola di San Giulio c’è la villa del barone Lamberto, un ricco signore molto vecchio (ha novantatré anni), assai ricco (possiede ventiquattro banche in Italia, Svizzera, Hong Kong, Singapore, eccetera), sempre malato. Le sue malattie sono ventiquattro. Solo il maggiordomo Anselmo se le ricorda tutte. Le tiene elencate in ordine alfabetico in un piccolo taccuino: asma, arteriosclerosi, artrite, artrosi, bronchite cronica, e così avanti fino alla zeta di zoppia. Accanto ad ogni malattia Anselmo ha annotato le medicine da prendere, a che ora del giorno e della notte, i cibi permessi e quelli vietati, le raccomandazioni dei dottori: «Stare attenti al sale, che fa aumentare la pressione», «Limitare lo zucchero, che non va d’accordo con il diabete», «Evitare le emozioni, le scale, le correnti d’aria, la pioggia, il sole e la luna».
Certe volte il barone Lamberto sente un dolorino qui o lì, ma non riesce ad attribuirlo con precisione ad una delle sue malattie. Allora domanda al maggiordomo:
- Anselmo, una fitta qui e l’altra lì?
- Numero sette, signor barone: l’ulcera duodenale.»
«"Il suo romanzo - dice - è in assoluto uno dei cinque o sei libri della mia vita"
"Lei deve assicurare il Sr. Sisovsky - mi rivolgo alla sua accompagnatrice - che mi ha adulato a sufficienza"
"Lo hai adulato a sufficienza" lo rimbecca lei. Una donna di circa quarant'anni, dagli occhi slavati, gli zigomi ampi, capelli neri, severamente divisi in due, un viso distratto, che attira l'attenzione. Una vena blu si gonfia pericolosamente su una tempia, mentre lei si muove in bilico sul bordo del mio sofà, quasi immobile. In nero come il principe Amleto. Segni di usura sul retro della gonna di velluto nero del suo funereo completo. Il suo profumo è forte, le calze sono smagliate, i nervi scossi.
Lui è più giovane, forse di una decina d'anni: tarchiato, minuto, robusto, con un ampio viso dal naso piccolo che mostra la forza malvagia di un pugno chiuso in un guanto. Lo vedo bene nell'atto di abbassare la fronte e buttar giù porte caricandole. Eppure i capelli sul lungo sono quelli di una chioma da rubacuori, densa e setosa, con una lucentezza scura e quasi levantina. Indossa un abito grigio, dal tessuto impercettibilmente luminoso, con la giacca dal taglio alto sulle spalle, che stringe un po' sulle spalle. I calzoni sono attillati sulla parte bassa di un busto muscoloso in maniera sproporzionata - come di un calciatore in pantaloni lunghi. Le scarpe bianche con la punta hanno bisogno di riparazioni; la camicia bianca ha i bottoni in alto aperti.
Ha qualcosa del perditempo, qualcosa del gaglioffo, qualcosa anche del ragazzo viziato.»
«Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare. Mi si chiudono gli occhi di nostalgia al ricordo di quando fluttuavo libero nel mio sacco opalescente, a spasso dentro la bolla sognante dei miei pensieri, tra capriole al ralenti in un oceano privato, e delicate carambole contro i confini trasparenti della mia prigione, quella membrana sicura che, pur attutendole, vibrava insieme alle voci di cospiratori intenti a una macchinazione odiosa. Succedeva nella spensierata stagione della mia giovinezza. A questo punto, ormai completamente capovolto, con le ginocchia schiacciate al petto e senza alcun margine di movimento, non ho soltanto la testa impegnata ma anche tutti i pensieri. Non ho più scelta, un orecchio è premuto giorno e notte contro le pareti irrorate di sangue. Ascolto, prendo appunti mentali, e mi preoccupo. Tra le lenzuola sento discorsi efferati e mi agghiaccia il terrore di quel che mi aspetta, di quel che potrebbe compromettermi. »
«Quando James era piccolo, la stanza dei giochi era popolata di gufi. Sulla carta da parati, nascoste in un intrico di rami, se ne intravedevano numerose coppie identiche. Più giù, se ne stava apopollaiato un trio di gufetti verdi, i becchi puntuti socchiusi, stretti l'uno all'altro in mezzo a grandi fiori verdi spinosi dalle minuscole corolle binache che ricordavano a James i bottoncini di madreperla sul vestito della domenica di Charlotte. Quando era solo, James era convinto di sentirli parlottare tra loro a mezza voce come scimmie, graffiando con insitenza quei rami perennemente verdi con i loro artigli. Ma quando c'era Charlotte si zittivano, perché lei aveva detto che, se non si fossero comportati bene, avrebbe preso la sua scatola di acquerelli e oscurato gli occhi a tutti.
La notte, James sentiva i gufi veri, fuori, e se li immaginava volare nell'oscurità. A volte udiva il grido di una volpe, un verso inquietante, come un cane che ride. E altre volte un rumore della casa, un sussurro scricchiolante, come se le pareti esalassero un sospiro. »
«Una voce e un profumo a me cari, una luce e una temperatura che adoro. Sono abbracciata, stretta stretta, a una persona importante. Siamo legati in modo indissolubile. Non provo neanche un briciolo di incertezza o malinconia, come se fossi tornata neonata, attaccata con sicurezza al seno materno. Non ho ancora perso nulla, una dolcissima sensazione permea tutto il mio corpo.
D'un tratto, apro gli occhi.
Un soffitto.
Una camera, una mattina.
Sono sola.
Tokyo.
...capisco.
Stavo sognando. Mi alzo dal letto.
In appena due secondi, quel caldo senso di essere una cosa sola che mi avvolgeva fino a poco fa é svanito. Senza lasciare tracce, neppure una sensazione in cui indugiare. Quasi all'istante, comincia a sgorgarmi una lacrima per l'eccessiva repentinità della cosa. Ogni tanto, la mattins, appena sveglia mi capita di ritrovarmi a pian
gere senza sapere perché. »
«Potresti pensare che ormai si siano abituati a me. Voglio dire, non lo sanno che dopo millequattrocento anni le menate sui neri sono finite? Che noi neri, un tempo perennemente alla moda, sempre aggiornati come l’ora di Greenwich, oggi siamo storia di ieri, come gli utensili dell’età della pietra, il velocipede e le cannucce di carta? Ormai è ufficiale: i negri sono esseri umani. Lo dicono tutti, perfino gli inglesi. Non ha importanza se ci credono davvero; siamo mediocri e banali come il resto della specie. Le anime tormentate dei nostri morti ora sono libere di esprimere ciò che sono in realtà, oltre quella patina da primitivi moderni. Josephine Baker può togliersi l’osso dal naso, e il suo scheletro dalle gambe storte può tornare alla propria dotazione originaria di duecentosei. Il fantasma tormentato di Langston Hughes può posare la stilografica Montblanc (un regalo) e spalancare la bocca. Non per recitare i suoi versi populisti in rima, ma per leccare e succhiare il portentoso membro di un delinquente di Harlem e mettere in pratica quella che dopotutto è la vera tradizione orale. I nostri rivoluzionari possono deporre le armi. La guerra è finita. Non ha importanza chi ha vinto, prendete i vostri revolver, le pistole da quattro soldi, le calibro nove, quelle che da sbronzi agitavate in faccia ai bambini gridando spacchiamo il culo ai bianchi, prendetele e chiudetele nella vetrinetta, immobili e passive sopra il feltro rosso a far compagnia allo schioppo, all’archibugio portoghese e al moschetto da Minuteman. Anche per il più coraggioso di noi il grido di battaglia non è più «Ci vediamo all’inferno», ma «Ci vediamo in tribunale». Perciò, se la Storia non ha smesso di tormentarvi, telefonate a un avvocato e chiedete un risarcimento per la schiavitù. Essere neri è passato di moda, e da parte mia non potrei esserne più felice, perché adesso sono libero di andare al solarium, se ne ho voglia, e ne ho voglia. »
« Mi sento come rattrappito in questo piccolo ufficio. Non sono mai stato a mio agio negli spazi angusti, anche se in questo c’è qualcosa di particolare. È come se questa piccola area fosse ricoperta da uno strato confortante, come se i libri e i fogli e l’odore di sigari riuscissero a eliminare la ristrettezza dello spazio e il soffitto basso. «Dimmi di nuovo perché sei qui,» dice una voce, irrompendo nella mia distrazione. Il professor Matheson mi ha posto la stessa domanda per gli ultimi cinque anni. Non gli ho mai risposto ma, visto che sono vicino a ottenere il mio dottorato di ricerca, è il momento di pensarci. «A volte me lo chiedo anch’io.» Le sue sopracciglia si sollevano. In parte è professore, in parte consulente scolastico e in parte strizzacervelli dei reduci. Odio che rivesta più incarichi. Non che sia un vero strizzacervelli, ma da ciò che mi ha detto era un medico ufficiale della Marina. «Studiare non mi è mai venuto naturale,» continuo. «Alle scuole elementari passavo più tempo a studiare le persone che i libri.» Mi chiedo se Matheson sia sempre stato così sciatto, se era così anche quando prestava servizio. Io stesso sono ancora relativamente rigido quando si tratta di ordine e pulizia. «Penso che sarebbe stato stupido non prendere una laurea,» dico, «vista la possibilità con la Montgomery Bill.» «Hai deciso cosa farai una volta che avrai il dottorato?» «Tutto tranne che diventare un ingranaggio della macchina industriale. La vita di mio padre non fa per me.»»
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