L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Soffiava sul lago una breva fredda, infuriata di voler cacciar le nubi grigie, pesanti sui cocuzzoli scuri delle montagne. Infatti, quando i Pasotti, scendendo da Albogasio Superiore, arrivarono a Casarico, non pioveva ancora. Le onde stramazzavano tuonando sulla riva, sconquassavan le barche incatenate, mostravano qua e là, sino all'opposta sponda austera del Doi, un lingueggiar di spume bianche.
Ma giù a ponente, in fondo al lago, si vedeva un chiaro, un principio di calma, una stanchezza della breva; e dietro al cupo monte di Caprino usciva il primo fumo di pioggia.
Pasotti, in soprabito nero di cerimonia, col cappello a staio in testa e la grossa mazza di bambù in mano, camminava nervoso per la riva, guardava di qua, guardava di là, si fermava a picchiar forte la mazza a terra, chiamando quell'asino di barcaiuolo che non veniva.»
«Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell'estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un cielo grigiastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Mónica.
«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»
«Neanche alla mamma?» domandai sottovoce.
Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un'ombra.
«Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti.»
Subito dopo la guerra civile, il colera si era portato via mia madre. L'avevamo sepolta a Montjuïc, sotto una pioggia battente, il giorno in cui compivo quattro anni. Ricordo che quando chiesi a mio padre se il cielo piangeva gli mancò la voce. Sei anni dopo, l'assenza di mia madre era ancora un grido muto, un vuoto che nessuna parola poteva colmare. Mio padre e io abitavamo in un piccolo appartamento di calle Santa Ana, vicino alla piazza della chiesa, sopra la libreria specializzata in edizioni per collezionisti e libri usati che era stata del nonno, un magico bazar che un giorno sarebbe diventato mio, diceva mio padre. Sono cresciuto tra i libri, in compagnia di amici immaginari che popolavano pagine consunte, con un profumo tutto particolare. Da bambino, prima di addormentarmi raccontavo a mia madre come era andata la giornata e quello che avevo imparato a scuola. Non potevo udire la sua voce né essere sfiorato dalle sue carezze, ma la luce e il calore del suo ricordo riscaldavano ogni angolo della casa e io, con l'ingenuità di chi conta ancora gli anni sulle dita delle mani, credevo che se avessi chiuso gli occhi e le avessi parlato, lei mi avrebbe ascoltato, ovunque si trovasse. A volte mio padre mi sentiva dal soggiorno e piangeva di nascosto.
Ricordo che quella mattina di giugno mi ero svegliato gridando. Il cuore mi batteva come se volesse aprirsi un varco nel petto e fuggire via. Mio padre, allarmato, era accorso in camera mia e mi aveva preso tra le braccia per calmarmi.
«Non mi ricordo più il viso della mamma» dissi con un filo di voce.Mio padre mi strinse forte.
«Non preoccuparti, Daniel. Lo ricorderò io per tutti e due.»
Ci guardammo nella penombra, cercando parole che non esistevano. Per la prima volta notai che mio padre stava invecchiando e che i suoi occhi tristi erano rivolti al passato. Si alzò in piedi e aprì le tende per far entrare la pallida luce dell'alba.
«Su, Daniel, vestiti. Voglio mostrarti una cosa» disse.
«Adesso? Alle cinque del mattino?»
«Ci sono cose che si possono vedere solo al buio» rispose, sfoderando un sorriso enigmatico che doveva aver preso in prestito da un romanzo di Dumas.»
«Quella notte sognai di tornare nel Cimitero dei Libri Dimenticati. Avevo di nuovo dieci anni e mi svegliavo nella mia vecchia stanza avvertendo che la memoria del viso di mia madre mi aveva abbandonato. Nel modo in cui si sanno le cose nei sogni, sapevo che la colpa era mia e soltanto mia perché non meritavo di ricordarlo e perché non ero stato capace di renderle giustizia.»
«Quando lasciamo il kraal, una donna barcolla dalla sua capanna fino a un’apertura in mezzo al primitivo recinto. Il suo lamento, il singhiozzo intermittente del pianto ormai spento, mi lacerano. In questo istante, sono testimone di un dolore talmente profondo, così assoluto, che niente in tutti i miei diciannove anni di vita può avermi preparato ad affrontare.
Fa caldo, eppure tremo. Ogni cosa di questa scena è insopportabile: i suoni, la puzza dei gas di scarico, il metallo del Buffel. Mi pressano come un batticarne. Ogni volta che l’autista scala marcia, il rumore del cambio, di solito inavvertito, colpisce la mia parte più sensibile. Qui niente di delicato può sopravvivere.»
«“Chiudi la porta, Rose, entrano le zanzare”.
Era estate, il neon della cucina era acceso e la nonna lavava i piatti. Era l’ultimo giorno di vacanza, ed eravamo un po’ tristi. Avevamo passato tutto il pomeriggio sulla spiaggia. Era così lunga e larga che sembrava ci fosse sempre la bassa marea. Non c’erano molti turisti in quella piccola località nel dipartimento della Vandea, fra Notre–Dame–de-Monts e Noirmoutier, non era “come in Costa Azzurra, dove si sta stretti come sardine”. Quell’anno avevamo avuto fortuna, c’era sempre stato il sole, solo per i fuochi d’artificio del 14 luglio era piovuto a catinelle. L’ultimo giorno il tempo era stato magnifico. Per approfittarne fino alla fine, eravamo rimasti così tanto sotto il sole da bruciarci le spalle. Avevamo costruito un castello di sabbia. Non era venuto benissimo, ma i bastioni coperti di conchiglie avevano resistito all’acqua. Grazie al castello avevamo fatto amicizia con un bambino. Peccato non averlo conosciuto prima, il giorno dopo saremmo dovuti tornare a casa.»
«Era l'inizio della primavera dell'anno 1750 quando nacque il primo figlio a Omoro e Binta Kinte, nel villaggio di Juffure, a quattro giorni di viaggio dalla costa risalendo il fiume Gambia, nell'Africa Occidentale. Appena uscito scalciante dal giovane corpo robusto di Binta, nero-ebano come la madre e screziato del suo sangue, il neonato si mise a strillare a squarciagola. Sua nonna, Yaisa, e l'altra levatrice, la decrepita Nyo Boto, scoppiarono a ridere di gioia quando videro che era un maschio, perché ciò era di buon auspicio per tutto il parentado.»
«Botte da re
Botte da re. La promessa arriva da Flo. Adesso te le prendi, e saranno botte da re.
Indugiando sulla Bocca di Flo, l’espressione si caricava di decorative gualdrappe. Rose aveva un bisogno di immaginare le cose, di pedinare assurdità, che superava anche quello di tenersi lontano dai guai, perciò, invece di prendere la minaccia sul serio, si perdeva a rimuginare: ma come saranno le botte da re? Si inventò un viale alberato, una folla di spettatori eleganti, dei cavalli bianchi, degli schiavi neri. Qualcuno si inginocchiava e il sangue schizzava copioso come stendardi al vento. Una cerimonia selvaggia e stupenda. Nella vita vera neanche si avvicinavano a tanto splendore; c’era giusto Flo che tentava di conferire all’evento un’aria di rincresciuta ineluttabilità. Rose e suo padre invece varcavano subito la soglia del presentabile.»
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