L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«'Inizierò a narrare la mia storia dal primo gennaio dell'anno 1950. Fino a quel momento, nel regno delle tenebre, avevo patito per più di due anni sofferenze di un'atrocità tale che, nel mondo dei vivi, sarebbe difficile persino immaginare. Ogni udienza era un'occasione per lamentarmi dell'ingiustizia subita. Le mie grida disperate si spandevano per ogni angolo del palazzo del re degli inferi, producendo echi infiniti. Il rifiuto di pentirmi a dispetto delle torture subite mi aveva conquistato la fama di duro. Sapevo che numerosi demoni guardiani mi ammiravano in segreto, ma che il vecchio re Yama era arcistufo di me. Per costringermi a confessare e dichiararmi vinto adottarono il più crudele tra i supplizi infernali: mi gettarono in un calderone di olio bollente in cui mi girai e rigirai friggendo per sei ore come un pollo - non esistono parole per descrivere l'intensità di quella sofferenza. Infilzandomi poi con un forcone, i demoni mi tirarono fuori e, tenendomi bene in alto, salirono uno dopo'altro gli scalini che portavano alla sala delle udienze. Schierati sui due lati, i demoni soldato fischiavano al mio passaggio, sibilando come uno sciame di pipistrelli vampiro. L'olio che gocciolava dal mio corpo cadeva friggendo sui gradini e produceva volute di fumo giallastro... I demoni soldati depositandomi delicatamente sulle lastre di basalto nero, innanzi a re Yama, si inginocchiarono per fare rapporto:
- Sire, è cotto. »
«Sabato
In piedi, accanto alla scrivania, il nuovo presidente ci stringe la mano, ripetendo i nostri cognomi; poi si trattiene a parlare con Gironi, il più anziano di noi, col tono di un abate al confratello che forse gli succederà nella carica.
In disparte, scommettiamo quanto tempo egli resterà a C.; questo tribunale situato a metà strada tra due grandi città è una sede di ripiego per chi non può andare nell’una o nell’altra. Uno sussurra che pare un brav’uomo; Zaipo assicura di no, ne ha già sentite raccontare sul suo conto. Ma detto ciò, Zaipo si avvicina al presidente e gli dichiara che è preceduto da una grande fama e che sarà felice di servire ai suoi ordini. Subito ci accostiamo pure noi e il movimento vale e significa consenso alle parole di Zaipo, consenso che taluni rafforzano con cenni del capo, altri tentando d’incrociarne lo sguardo o con vaghi sorrisi di devozione.
Ricordiamo la medesima scena all’arrivo dell’altro presidente. Del quale a turno, adesso, scopriamo i difetti, senza asprezza. Tale parsimonia nella critica non ci nasce da bontà o da ritegno, ma dalla persuasione che finiremo col rimpiangerlo. Così finora è accaduto a noi che esercitiamo in provincia; un cambiamento crea orgasmo, speranze che, però, più o meno rapidamente, muoiono nella delusione. Non saprei precisare cosa aspettiamo, ma certo che a ogni arrivo sembra si possa ricominciare daccapo, in una condizione di entusiasmo. »
« Ricordo ancora il mattino in cui mio padre mi fece conoscere il Cimitero dei Libri Dimenticati. Erano le prime giornate dell’estate del 1945 e noi passeggiavamo per le strade di una Barcellona prigioniera di un ciclo grigiastro e di un sole color rame che inondava di un calore umido la rambla de Santa Monica.
«Daniel, quello che vedrai oggi non devi raccontarlo a nessuno» disse mio padre. «Neppure al tuo amico Tomás. A nessuno.»
«Neanche alla mamma?» domandai sottovoce.
Mio padre sospirò, offrendomi il sorriso dolente che lo seguiva sempre come un’ombra.
«Ma certo» rispose mesto. «Per lei non abbiamo segreti.»
Subito dopo la guerra civile, il colera si era portato via mia madre. »
«S’abbabbò, infine, dinanzi al mare color vinaccia che pareva pittato col sangue di mille ommini e di mille martiri e si faceva gonfio delle vicende umane che lassotta al Tacco da sempre succedevano -storie troppo antiche e troppo grandi perché Masello le comprendesse, ma che pure gli stavano appresso dacchè era nato e, dacchè era nato, erano diventate, esse pure, casa sua. Per esempio l’Isola di Pazze: era uno scoglio di duecento metri ch’emergeva d’intra al mare come dorso di balena a guarda costa,da un momento all’altro avrebbe potuto sbuffare acqua, alzare la cosa intra a uno spasimo di grandezza e inabissarsi per sempre intra al mare sfondato, intra alla linea di mezzavia tra i due mari, lo Ionio e l’Adriatico. Ahi quante storie aveva sentito, per dire di quel nome, isole di pazze, che nessuno si ricordava che nome era e da dove veniva e perché e percome. Soprattutto erano tre vecchiarazza a pigliarsi a cuore la questione, Melo Memmi, Luigi Za e Fedo Sanapo, restavano ore e ore intra alla piazza a discutere su chi teneva la verità certissima e vera su quel nome, s’impuntavano ciascuno sulla propria idea, ci facevano punto e ricamo sopra a quella stuoia di parole che l’addobbavano a gradimento, di volta in volta.»
« Non può essere un caso che in nessuna lingua terrestre esista l’espressione “Bello come un aeroporto”. Gli aeroporti sono brutti. Alcuni sono molto brutti. Certi raggiungono un livello di bruttezza che può solo essere il risultato di uno sforzo consapevole. La bruttezza degli aeroporti dipende dal fatto che sono pieni di gente stanca e di pessimo umore che ha appena scoperto che i propri bagagli sono sbarcati a Murmansk (l’aeroporto di Murmansk è l’unico che fa eccezione a questa regola altrimenti infallibile), e gli architetti per lo più si sono sforzati di riflettere questo stato d’animo nelle loro creazioni.
Hanno cercato di dare rilievo al filo conduttore della stanchezza e del pessimo umore della gente ricorrendo a forme brutali e a colori snervanti; di agevolare al massimo la separazione perpetua del passeggero dai suoi bagagli o dai suoi cari; di confondere il viaggiatore con frecce che indicano finestre, lontani espositori carichi di cravatte, o la posizione dell’Orsa Minore nel cielo; di lasciare in vista il più possibile tubi e condutture sulla base del fatto che sono utili, e di nascondere la sala partenze, presumibilmente in base alla considerazione che non lo è.
Colta in mezzo a un mare di luce indefinita e a un mare di rumori ugualmente indefiniti, Kate Schechter si fermò e fu presa dal dubbio.»
« Lo ha promesso più volte: non andrà mai da sola giù al molo. Con le stampelle è un attimo slittare sull’untume di pesce e finire in mare :- E se l’onda ti prende…- dice Nina. Così ha deciso per la spiaggia, la sua spiaggia. Che proprio a lei possa venire in mente di avventurarsi da quelle parti non lo crederebbe nessun. L’impressione che dà, quando arranca tutta storta sulle stampelle, non è certamente quella di un’amante del brivido. E invece, mentre Nina sbuccia le patate senza l’ombra di un sospetto,lei non fa che giocare d’azzardo con la vita. Il sistema che ha inventato, e che le permette di ingaggiare un corpo a corpo molto personale con l’oceano, consiste nel procedere sui ciottoli rotondi della spiaggia con movimenti ondulatori, trascinandosi sulle mani, tipo gli acrobati dei circhi equestri quando si aggrappano alla criniera dei cavalli. Le gambe, intrecciate l’una all’altra, come i tentacoli di un celenterato, seguono a strascico segnando la sabbia con un unico solco. Nina non lo capisce che lei è la foca dei faraglioni e la sabbia nera della spiaggia il suo ambiente naturale.»
« Vienna, 1909. Un mattino, per caso.
È mattino. Una giovane luce filtra dalla finestra e accompagna il mio sguardo su Vienna, mentre sospiro di commozione davanti a questa che è ormai la città dove vivo. Giace morbida come la mia donna ancora addormentata; si stende tra la foschia fin quasi al borgo dove sono nato e da cui sono partito anni fa per entrare alla Scuola di arti e mestieri, e poi, dopo due anni, nella bottega del maestro Klimt. Pochi attimi in cui mi rivedo ragazzino di dodici anni, deciso a seguire il mio istinto, contravvenendo ai progetti di un padre contabile poco incline all’arte, arresosi all’evidenza di un tratto di matita senza esitazioni; suggestioni di volti cari abbandonati e poi il tormento, che non mi fa più dormire, torna a torturarmi. Cerco il corpo di Edith ancora nascosto dalle lenzuola, mio rifugio. Percorro con lo sguardo la stanza spoglia: un letto di ferro nero scrostato, una coperta ruvida che non ci scalda, una stufa piccola e storta, il fuoco spento, poco carbone in un cesto; un cavalletto e un tavolo di legno incrostato di colori, custode della mia anima sparpagliata in quelle macchie. Luce del Nord per le mie tele, foga e passione, stracci. Mi chiamo Thomas Shieller, ho pennelli a sorreggere e intrecciare i lunghi capelli biondi, mani sapienti e camicie sporche. Sono giovane eppure dipingo l’angoscia che sento dentro. Un animo contrastato, che non mi dà tregua; ruba i miei ventiquattro anni, distorce la passione per l’esistenza, mi tormenta e mi uccide.»
« Non sono passati che venti minuti da quando mi hai lasciato in questo caffè, da quando alla tua richiesta ho risposto «no», che non avrei mai scritto per te la storia della mia vita mortale, di come diventai un vampiro... di come m'imbattei in Marius solo pochi anni dopo che lui aveva perso la sua vita umana.
E ora eccomi qui, con il tuo quaderno aperto, a usare una di quelle penne appuntite, con l'inchiostro eterno, che tu mi hai lasciato, a fremere della sensuale pressione del liquido nero su questa carta bianca, perfetta e costosa.»
Grazie. Bello e incompreso Ritratto :)