L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Una donna che si chiamava Adriana si alzò nella sua casa nuova. Nevicava. Quel giorno era il suo compleanno. Aveva quarantatré anni. La casa era in aperta campagna. In distanza si vedeva il paese, situato su una collinetta. Il paese era a due chilometri. La città era a quindici chilometri. Essa abitava da dieci giorni in quella casa. Infilò una vestaglia di velo color tabacco. Cacciò i piedi lunghi e magri in un paio di pantofole di color tabacco, slabbrate, con un bordo di pelo bianco molto frusto e sudicio. Scese in cucina e si fece una tazza di orzo Bimbo, e ci inzuppò diversi biscotti. Sul tavolo c’erano delle bucce di mela e le radunò in un giornale destinandole a dei conigli, che non aveva ancora ma aspettava perché glieli aveva promessi il lattaio. Poi andò nel soggiorno e spalancò le imposte. Nello specchio che era dietro il divano salutò e contemplò la sua alta persona, i suoi corti e ondulati capelli colore del rame, la testa piccola e il collo lungo e forte, gli occhi verdi, larghi e tristi. Poi sedette alla scrivania e scrisse una lettera al suo unico figlio maschio.
«Caro Michele» scrisse «Ti scrivo soprattutto per dirti che tuo padre sta male. Vai a trovarlo. Dice che non ti vede da molti giorni. Io ci sono andata ieri. Era il primo giovedì del mese. Lo aspettavo da Canova e lì mi ha telefonato il cameriere che lui stava male. Così sono salita su. Era a letto. Mi è sembrato molto sciupato. Ha le borse sotto gli occhi e un brutto colore. Ha dolori alla bocca dello stomaco. Non mangia più niente. Naturalmente continua a fumare.
Quando vai a trovarlo, non portare lì le tue solite venticinque paia di calzini sporchi. Quel cameriere che si chiama Enrico o Federico non mi ricordo, non èin grado di sopportare il peso della tua biancheria sporca in questo momento. È stranito e intontito. Non dorme la notte perché tuo padre lo chiama. In più, è la prima volta che fa il cameriere perché prima lavorava in un elettrauto. In più, è completamente cretino.
Se hai molta biancheria sporca, portala da me. Ho una donna di servizio che si chiama Cloti. È venuta cinque giorni fa. Non è simpatica. Siccome il muso ce l’ha sempre, e la situazione con lei è già pericolante, se tu arrivi qui con una valigia di roba da lavare e stirare non me ne importa molto e puoi farlo. Ti ricordo però che esistono buone lavanderie anche lì vicino allo scantinato dove tu vivi. E tu sei in età di occuparti di te stesso da solo. Fra poco avrai ventidue anni. A proposito, oggi è il mio compleanno. Le gemelle mi hanno regalato delle pantofole. Però io sono troppo affezionata alle mie pantofole. Volevo ancora dirti che se ti lavassi da te ogni sera fazzoletto e calze, invece di ammucchiarli sporchi sotto il tuo letto per settimane, sarebbe bello ma questo non mi è mai riuscito di fartelo capire. »
«'Prima di chiamarmi pelleossa mi chiamavano strillone, i bambini della scuola elementare di via dei Ginepri. Me li ricordo ancora tutti e trentaquattro, anche se la faccia che più mi è rimasta impressa è quella di Peppino, con quei capelli dritti da dita nella corrente. Insieme ci divertivamo a fottere la merenda di pane e mortadella a Ettore Ragusa, il figlio del macellaio.
Quando se ne accorgeva tirava uno strillo più acuto dei miei e frignava a fontana. Io e Peppino, allora, andavamo lì con la bocca ancora bisunta e facevamo i dispiaciuti, "ma no, Toruccio... ma che si piange per fatti così piccoli?", "morto un panino se ne fa un altro", queste frasi di consolazione gli dicevamo. Ogni tanto mi sentivo in colpa e chiedevo a Peppino se non stavamo esagerando.
"Ma quale esagerazione! Quel cornuto è più largo che lungo e a casa trova tutti i giorni la pastasciutta. Tu che trovi?"
"Acciughe" rispondevo io.
Fino a nove anni ho vissuto di acciughe. Anzi, di un'acciuga al giorno. Me la rifilava mamma mia al mattino prendendola da un barattolo col sale rancido attaccato al vetro. La stiracchiava su una fetta di pane che lei chiamava "pane in cassetta" e mi diceva di stare alla larga dalla cucina fino a sera.
"Smammare" ripeteva con un gesto da generale.'.»
«A THIRD OF the way through the half-mile walk from the landlord’s house to his hut, Nitai Das’s feet begin to sway. Or maybe it is the head-spin again. He sits down on the lifeless field he has to cross before he can reach his hut. There isn’t a thread of shade anywhere. The May sun is an unforgiving fire; it burns his blood dry. It also burns away any lingering grain of hope that the monsoons will arrive in time to end this third year of drought. The earth around him is beginning to fissure and crack. His eyelids are heavy. He closes them for a while, then, as sleep begins to take him, he pitches forward from his sitting position and jolts awake. Absently, he fingers his great enemy, the soil, not soil any more, but compacted dust. Even its memory of water has been erased for ever, as if it has never been. »
«Sono cieco. Ma non sordo. Poiché dunque la mia disgrazia non è completa, ieri mi è toccato ascoltare per quasi sei ore un sedicente storico, il quale ci ha offerto un resoconto così assurdo di quelle che gli ateniesi chiamano “guerre persiane”, che se solo fossi stato un po’ meno vecchio e un po’ più influente mi sarei alzato dal mio scranno all’Odeon e gli avrei risposto per le rime, scandalizzando tutta la città. Perché io so qual è l’origine delle guerre greche. Ma lui no. E come potrebbe, del resto? Nessun greco potrebbe. Io ho passato quasi tutta la vita alla corte di Persia e ancora oggi, a settantacinque anni, continuo a servire il Gran Re come feci con suo padre Serse – il mio amico adorato – e prima ancora col padre di lui, un vero eroe, noto anche tra i greci come Dario il Grande.»
«In quei giorni d'estate ero sempre al tuo fianco, sdraiato all'ombra di una betulla bianca mentre tu, assorta nella pittura, restavi in piedi al centro del prato ammantato di erba susuki. La sera, finito il lavoro, ti avvicinavi a me e insieme ci posavamo reciprocamente una mano sulla spalla per fissare in lontananza la linea dell'orizzonte, nascosta dai cumulonembi avvolti nel rosso crepuscolare. Allora, al calar del buio, ci sembrava che qualcosa proveniente dalla parte opposta iniziasse a prender vita... »
«Capitolo 1
Che tratta della condizione sociale e delle abitudini del famoso e valoroso cavaliere Don Chisciotte della Mancha
Non sappiamo nulla della nascita di Don Chisciotte, nulla della sua infanzia e della sua giovinezza, né di come si sia forgiato l'animo del Cavaliere della Fede, di colui che con la sua follia ci rende savi. Non sappiamo nulla dei suoi genitori, del suo lignaggio e dei suoi avi, né di come erano andate consolidandosi nel suo spirito le visioni della consolidata pianura della Mancha, nella quale era solito andare a caccia; non sappiamo nulla nemmeno del lavoro che fece sulla sua anima la contemplazione dei campi di grano tempestati di papaveri e violaciocche; non sappiamo nulla delle sue imprese adolescenziali.
Si è persa ogni memoria del suo lignaggio, della sua nascita, della sua infanzia e della sua adolescenza; non è stata conservata né dalla tradizione orale, né da qualche testimonianza scritta e se anche qualcuna ci fosse stata, si è perduta oppure giace sepolta sotto la polvere dei secoli. Non sappiamo se diede o meno mostra del suo spirito intrepido ed eroico sin da quando era solo un tenero fanciullino, come quei santi della nascita che già da neonati non poppano di venerdì o nei giorni di digiuno, per mortificarsi e dare il buon esempio.»
«Napoli, 1920
La felicità è poca cosa, pensò Cecilia. Due soldi di pummarola, una manciata di maccheroni, una spolverata di cacio. E la presenza di Eugenio a tavola.
Suo fratello era tornato da un ospedale militare del nord e lei aveva dato fondo alle sue risorse nel tentativo di restituirgli il sorriso che la guerra gli aveva tolto. I lunghi inverni passati da sola, a cercare di sbarcare il lunario con- servando la dignità, erano stati niente davanti al dolore di quella lettera arrivata tre anni prima. Non poteva dimenticare le scarne parole con cui il Ministero della Guerra le aveva annunciato che Eugenio risultava disperso dopo il massacro di Caporetto.
Un brivido la percorse a quel ricordo, mentre rimestava la pasta nella pentola. Lei era l'unica che sapesse leggere in tutti e sette i vicoli della Duchesca. A lei era toccato dare voce ai bollettini dei morti e dei feriti. E tanti, tantissimi erano napoletani.
Eugenio sorrise alla vista della tavola apparecchiata.
«Fai presto» lo accolse baciandolo sulla guancia ruvida. «E lavati le mani.» »
«C’è un ritardo del decollo da San Francisco – immagino sia dovuto al sovraffollamento dell’aeroporto, ma nessuno ce lo dirà mai per certo. In momenti come questo, seduto in attesa forzata sulla pista, è facile avere pensieri apocalittici – aeroporti sull’orlo del tracollo, autostrade intasate di SUV guidati da cittadini impazziti, allarmi smog, centri di pronto soccorso paralizzati, corridoi affollati di feriti sanguinanti. Quando sei in California, questo tipo di visione esplode nella sua grandiosità e immagini la terra che si squarcia, rovesciando fragorosamente in mare tutto questo sovraconsumo, tutti i telefoni cellulari, le ville sulla costa e le giovani star di belle speranze. Sembra quasi una benedizione.
O forse sono soltanto io. Per quanto ne sappiamo, il ritardo è dovuto a un problema tecnico. Un annuncio diffuso dagli altoparlanti ci ringrazia per la nostra pazienza, scusandosi per il contrattempo e procurandoci le attenzioni occasionali delle già esauste hostess SkyWest, che rispondono stringendosi nelle spalle e spargendo «sorry» a profusione, come se fosse una parola generica, priva di significato. La donna seduta accanto a me si sventaglia con un dépliant di Presidio Park, sequoie e una fitta coltre di foglie scintillanti, mandando uno sbuffo d’aria stantia nella mia direzione.
«Un altro giorno, un altro ritardo» dice.
«Non me lo dica!»
«C’è qualcuno in giro con un cattivo karma.»
Le faccio un sorriso, non mi fido tanto a risponderle a parole» »
«Vorrei raccontare di come L. sia entrata nella mia vita, vorrei descrivere con precisione il momento particolare che stavo attraversando e le circostanze che le hanno permesso di insinuarsi nella mia sfera privata prendendone lentamente possesso. Non è così semplice. E mentre scrivo questa frase, come L. sia entrata nella mia vita, mi rendo conto di quanto l’espressione suoni pomposa, quasi antiquata. Sembra alludere a una sceneggiatura che non esiste ancora, sembra anticipare una svolta o uno sviluppo. Ebbene sì, L. è entrata nella mia vita e l’ha profondamente sconvolta, con meticolosità, con sicurezza, con l’inganno. L. è entrata nella mia vita come su un palcoscenico nel bel mezzo della rappresentazione, come se un regista si fosse preoccupato di mettere tutto in secondo piano per farla emergere, come se l’ingresso di L. fosse stato allestito per sottolinearne l’importanza, perché in quel preciso istante gli spettatori e gli altri attori presenti in scena ( in quel caso, io) guardassero solo lei, perché tutto attorno a noi si fermasse e la sua voce potesse udirsi fino in fondo alla sala. In poche parole, perché potesse fare un certo effetto. Ma sto correndo troppo.»
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