L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Nessuno mi mise mai in guardia dagli specchi, così per molti anni li ho amati e ho creduto che meritassero davvero la mia fiducia. Mi ci nascondevo dentro, ne piazzavo due uno di fronte all’altro in modo che, infilandomi lì in mezzo, venissi riflessa all’infinito in entrambe le direzioni. Molte, moltissime me. Mi mettevo in punta dei piedi ed ecco subito tutte noi in punta dei piedi a capire chi fosse la prima di noi, chi l’ultima. L’effetto era vertiginoso: una vasta pulsazione che aveva poco o nulla di vitale e ricordava più il funzionamento di un automa. Avvertivo il riflesso alle mie spalle quasi come un tocco, e lo trattavo con la massima confidenza, come qualsiasi altra sciocca che al terzo anno di superiori è troppo sola per essere selettiva nelle sue amicizie. Gli specchi mi mostravano che ero una ragazza con una treccia biondo ghiaccio che le penzolava su una spalla; ciglia e sopracciglia dello stesso colore, ma occhi quasi neri,e uno di quei visi che, per alcuni sono “spigolosi”, per altri sono il segno di “un’ossatura delicata”. Spesso mi avvolgevo un foulard intorno alla testa e passavo il pomeriggio fingendo di essere una suora di un altro secolo; avevo la fronte piuttosto alta. E il mio colorito è sempre stato imprevedibile, potendo passare all’improvviso, e senza il mio permesso da un tono semiesangue all’incandescenza e viceversa. Ancora oggi ci sono giornate in cui per capire se ho la luna di traverso è sufficiente che mi guardi in faccia..»
«Scrivo questa storia perché le persone che ho amato sono morte. Scrivo questa storia perché quando ero giovane avevo una grande capacità di amare, e ora questa capacità di amare sta morendo. Ma io non voglio morire.
Ho trent’anni e sono sposata. Mio marito è il dottor Michael Gonen, un geologo, un uomo con un carattere d’oro. L’ho amato. Ci siamo conosciuti al collegio Terra Sancta, dieci anni fa. Io frequentavo il primo anno all’Università ebraica al tempo in cui si tenevano ancora lezioni al collegio Terra Sancta.»
«Sotto morfina
Circa due mesi e mezzo dopo che il 25 giugno 1950 le ben addestrate divisioni della Corea del Nord, armate dai comunisti sovietici e cinesi, avevano attraversato il 38° parallelo invadendo la Corea del Sud, e le sciagure della Guerra di Corea avevano avuto inizio, io avevo cominciato a frequentare il Robert Treat, un piccolo college nel centro di Newark che prendeva nome da colui che nel XVII secolo aveva fondato la città. Ero il primo esponente della mia famiglia ad ambire a un ’istruzione universitaria. Nessuno dei miei cugini era andato oltre le superiori, e né mio padre né i suoi tre fratelli avevano finito le elementari.
— È da quando avevo dieci anni che lavoro per guadagnarmi da vivere, — mi diceva sempre mio padre. Era un macellaio di quartiere, e io per tutto il periodo delle superiori avevo fatto le consegne in bicicletta per lui, eccetto durante la stagione del baseball e nei pomeriggi in cui dovevo partecipare con la mia squadra agli incontri del campionato interscolastico di dibattito. Quasi dal giorno stesso in cui lasciai il negozio — dove avevo lavorato per lui sessanta ore alla settimana da quando mi ero diplomato in gennaio fino all ’inizio del college a settembre — , quasi dal giorno stesso in cui andai alla mia prima lezione al Robert Treat, mio padre cominciò a temere per la mia vita. »
«ll 24 febbraio 1815 la vedetta della Madonna della Guardia dette il segnale della nave a tre alberi il Pharaon,che veniva da Smirne, Trieste e Napoli.
Com'è d'uso, un pilota costiere partì subito dal porto, passò vicino al Castello d'If e salì a bordo del navigliofra il capo di Morgiou e l'isola di Rion.
Contemporaneamente com'è ugualmente d'uso, la piattaforma del forte San Giovanni si ricoprì di curiosi;poiché è sempre un avvenimento di grande interesse a Marsiglia l'arrivo di qualche bastimento, in particolare poi quando questo legno, come il Pharaon, si sapeva costruito, arredato e stivato nei cantieri della vecchia Phocée e appartenente ad un armatore della città.
Frattanto il naviglio avanzava ed aveva felicemente superato lo stretto, formatosi da qualche scossa vulcanica fra l'isola di Casareigne e quella di Jaros.
Aveva oltrepassato Pomègue, avanzando il suo gran corpo sotto le sue tre gabbie ma tanto lentamente, e con andamento così mesto, che i curiosi con quell'istinto che presagisce le disgrazie, si domandavano quale infortunio fosse accaduto a bordo. Tuttavia gli esperti alla navigazione riconoscevano che se un qualche accidente era avvenuto, questo non era al materiale del bastimento, poiché se procedeva lentamente, lo faceva nelle condizioni di un naviglio eccellentemente governato. La sua àncora era gettata, i pennoni di bompresso abbassati, e vicino al pilota che s'apprestava a dirigere il Pharaon nella stretta entrata del porto di Marsiglia c'era uno svelto giovane, che con occhio attivo sorvegliava ciascun movimento del naviglio, e ripeteva ciascun ordine del pilota.
La vaga inquietudine che commoveva la folla aveva particolarmente agitato uno degli accorsi alla spianata di San Giovanni, che non volle attendere l'entrata del bastimento nel porto, ma saltò in una barchetta e ordinò di vogare verso il Pharaon, che raggiunse dirimpetto all'ansa di riserva. Il giovane marinaio, vedendo giungere quest'uomo, lasciò il suo posto a lato del pilota, e venne col cappello in mano ad appoggiarsi al parapetto del bastimento. Era un giovane di vent'anni circa, alto, snello, con occhi neri, e capelli color dell'ebano. Si scorgeva in tutta la persona quell'aspetto di calma e di risoluzione che sono proprie degli uomini avvezzi fin dalla loro infanzia a lottare coi pericoli. "Ah siete voi Dantès?" esclamò l'uomo della barca.»
«'Fu il caso a portarmi al Karnak Café. Un giorno mi ero recato nella strada al-Mahdi per farmi riparare l'orologio; ci sarebbero volute diverse ore e così dovetti aspettare. Per ammazzare il tempo, decisi di guardare tutti gli orologi, i gioielli e i ninnoli in mostra nelle vetrine su entrambi i lati della via. Ed ecco come mi imbattei in quel locale.
è molto piccolo e si trova nei pressi della strada principale. Da quel giorno, è il posto che preferisco per sedermi a far passare il tempo. A dire la verità, dapprima esitai per un momento davanti all'ingresso, ma poi individuai una donna seduta su uno sgabello accanto al registratore di cassa, la postazione consueta della proprietaria. Si capiva che stava invecchiando e tuttavia mostrava ancora le tracce di una passata bellezza. Quei lineamenti eleganti e nobili mi ridestarono un ricordo sepolto nel profondo della memoria. Tutto a un tratto le immagini tornarono a me impetuosamente. Riuscivo a sentire di nuovo la musica e le percussioni. Ero seduto a guardare un corpo stupendo che ondeggiava; l'aria era impregnata dell'aroma dell'incenso. Una ballerina, ecco cos'era. Sì, la diva di Imad al-Din, niente meno che Qurunfula in persona! Ed eccola seduta lì, sullo sgabello, Qurunfula in carne e ossa, il roseo sogno degli anni Quaranta.
Fu così che mi capitò di entrare nel Karnak Café.' »
«Gli occhi nella stanza sono lumini accesi a lutto, davanti alla faccia mia. Questa gente, che ci sta davanti ai piedi per farci vedere che è presente, dà solo fastidio al mio ritegno e consuma quel poco di aria che c’è in agosto. «Per piacere, andate fuori». Le scarpe fanno rumore sul parquet. Le gambe si mettono in fila davanti alla porta della nostra camera da letto. Escono tutti. Quello dietro appoggia le mani sulle spalle di quello davanti e lo spinge fuori: vuole farmi capire che sta rispettando l’ordine più presto che può. Antonio, di fianco a me, sta per mettersi a piangere. Zitto a mamma, dice la mia mano nella sua. Non ti dare penziero, Giovanni, nostro figlio lo sa. Tiene sette anni però glielo hai già imparato che non si deve piangere davanti alla gente. Sta’ zitto a mamma, resisti e ricordati chi sei, ribadisco con gli occhi a nostro figlio. «Vai con la nonna». Mamma dà la mano ad Antonio e se ne va sulla punta dei piedi come se stesse camminando sopra alle uova. È colpa delle scarpe. Deve buttarle, le fanno le vesciche. L’ospedale ti ha mandato nella bara. Volevo che ti stendessi nel nostro letto un’ultima volta e ci sono riuscita a portarti un momento a casa.»
«La stanza era chiusa da una settimana. La finestra esposta a sud, sul giardino, era coperta da una tenda avvolgibile di calicò. Una luce tenue color pergamena illuminava l’aria fredda e viziata. Si avvicinò alla finestra e tirò il cordino; la tenda si avvolse di scatto. La stanza si riempì di una gelida luce grigia, più chiara del cielo nuvoloso e inquieto. Restò un attimo alla finestra. Sotto l’araucaria, grappoli di giunchiglie dall’aria incredibilmente allegra crescevano in attesa di essere infradiciati o spazzati via dalle bizze di marzo. Si avvicinò alla porta e chiuse a chiave.
Un’interruzione, una qualunque, sarebbe stata intollerabile. Ora doveva prendere una valigia dal guardaroba e svuotare l’armadio e i cassetti del comò di palissandro vicino al tavolo da toeletta. Scelse la valigia più grande che trovò e la posò sul letto. Le avevano insegnato a non farlo, ma il materasso nudo, con sopra solo il copriletto, trasmetteva un tale senso di desolazione che non le parve così importante.»
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