Recensione
Chi ha letto i romanzi di Elizabeth Strout sa quanto la famiglia sia centrale nelle sue opere. In Amy e Isabelle le due protagoniste, madre e figlia, sono legate da un rapporto di reciproca incomunicabilità che finisce per trasformarsi in aperta ostilità; in Resta con me il reverendo Caskey, prostrato dal lutto per la perdita della moglie, non riesce a occuparsi delle due figlie; in Olive Kitteridge il mosaico di storie e personaggi che si compone attorno alla figura dell’energica Olive rivela un campionario di problematiche familiari; I ragazzi Burgess, infine, è incentrato sui rapporti reciproci tra i fratelli Jim, Bob e Susan, ormai adulti.
Mi chiamo Lucy Barton, pubblicato da Einaudi (e non da Fazi Editore, storica casa editrice italiana di Elizabeth Strout), non fa differenza: con frequenti incursioni in momenti precedenti e successivi della sua vita, una scrittrice in là con gli anni torna su un episodio cardine: quando, costretta a una lunga degenza in ospedale dai postumi di un'appendicectomia, lontana dal marito e dalle figlie, si vede comparire al capezzale, senza alcun preavviso, la madre che non vede da anni.
Le due donne si rifugiano in pettegolezzi di poco conto, che nella loro trivialità consentono di scansare le zone d'ombra legate al loro vissuto familiare: l'infanzia di estrema deprivazione, economica e affettiva, a cui il padre, incline al bere e alla violenza, spalleggiato da una moglie avara di affetti che non ha mai saputo o voluto proteggere i figli, ha costretto la famiglia. Ma a Lucy basta sentire quel nomignolo con cui talvolta la madre la chiamava, "Bestiolina", per lasciarsi andare alla gioia di riaverla con sé, a millecinquecento miglia di distanza dall'Illinois, dov'è cresciuta nell'ignoranza, nella sporcizia e nell'esclusione sociale. Parlano di Kathy, che è scappata con un insegnante che l'ha poi abbandonata dopo essersi scoperto gay, parlano della cugina Harriet e del suo matrimonio sfortunato, parlano di Marilyn e di Mississippi Mary. Ma non parlano della "Cosa" - gli attacchi di cui era talvolta preda il padre, reduce di guerra. Non parlano degli scatti di violenza fisica, improvvisa e immotivata, da cui i tre fratelli dovevano guardarsi, anche dalla madre. Non parlano delle volte in cui il padre chiudeva Lucy nel furgone, al buio, o di quando aveva fatto sfilare il figlio in abiti femminili per le vie del paese, per punirlo della sua infantile effeminatezza.
Cullata dalla voce della madre - nonostante tutto amata - nell'antro protetto del suo letto d'ospedale, Lucy può riannodare lei i fili della memoria, seppure senza mai perdere il freno e pronta a fermarsi con ritrosia sul crinale del non detto ogni qualvolta si facciano troppo dolorosi o traumatici.
Un breve romanzo squisito e di grande potenza narrativa che, nella migliore tradizione dell'autrice, rivela i grigi nascosti tra il bianco e il nero delle relazioni umane. Con il suo raffinato talento nel nascondere l'essenziale della storia tra le pieghe del non scritto, Elizabeth Strout si riconferma una delle più grandi scrittrici viventi.
Giudizio:
+4stelle+Dettagli del libro
- Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
- Titolo originale: My Name Is Lucy Barton
- Autore: Elizabeth Strout
- Traduttore: S. Basso
- Editore: Einaudi
- Data di Pubblicazione: 2016
- Collana: Supercoralli
- ISBN-13: 9788806229689
- Pagine: 158
- Formato - Prezzo: Rilegato, sovraccoperta - 17.50 Euro
Concordo assolutamente con te. Ho molto apprezzato la recensione.
un saluto da Lea
Ho amato Amy e Isabelle in maniera viscerale e ora ho intenzione di leggere gli altri libri di questa straordinaria autrice.Bella recensione