L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«L’uomo del terzo millennio pensa di sapere quasi tutto. Ha esplorato prima il pianeta camminando, navigando o volando, poi ha cominciato a occuparsi del cosmo. Infine si è guardato dentro, studiando la psiche, il cervello, la società e ogni causa utile per ricercare le motivazioni più profonde dei nostri comportamenti.
Non ha capito molto della Terra, poco del cielo e meno ancora dell’uomo. Ma l’indagine è stata fatta. Dove rivolgere dunque l’attenzione della ricerca oggi?
Consultando i giornali si scopre, ad esempio, che alcuni scienziati stanno cercando di sparare molecole in una galleria in Svizzera per dimostrare se ha più accelerazione un neutrino ticinese o la Skoda Felicia della polizia cantonale. Altri si sono messi a pesare il corpo dell’uomo post mortem per capire se siamo composti da un’anima o siamo solo grosse bombole di gas inesploso che camminano. C’è chi ricostruisce gli escrementi fossili dei dinosauri per capire se gli erbivori del Siluriano soffrivano di colite spastica, e altri che si affannano a decrittare le incisioni rupestri per sapere se anche gli etruschi soffrivano di forfora.
L’homo sapiens sapiens crede di conoscere tutto di sé e di quello che lo circonda, tanto che le attuali ricerche scientifiche si rivolgono verso il futile, ossia quelle rare zone inesplorate del sapere umano. Ma se prendiamo la nostra giornata tipo (sveglia, tragitto casa-lavoro, lavoro, tempo libero, cena, tempo libero), ci rendiamo conto che c’è almeno una zona buia nella quotidianità di ognuno di noi, un momento dove il cosiddetto metodo scientifico, unitamente al buon senso, viene gettato in fondo a un oceano. Pensateci bene: sapete esattamente le calorie di ciò che.»
«"Adorata Kerry, sarò immensamente felice di avervi al mio fianco. La vostra sola presenza renderà questo forte dimenticato da Dio il più adorabile dei luoghi. Siete una donna molto coraggiosa e ancora non so capacitarmi di come Voi, abituata agli agi della vita cittadina nella nostra splendida Richmond, abbiate accettato di unire la Vostra vita alla mia e di raggiungermi in questo territorio selvaggio… "
Il foglio sul quale quelle parole erano state vergate era gualcito, così come il ritratto che il tenente di cavalleria Reginald H. Lowie aveva allegato a quella lettera, più di quattro mesi prima. Kerry distolse lo sguardo dal dagherrotipo della faccia cosparsa di efelidi che non riusciva ad apparire marziale, e lo lasciò vagare sul panorama. Si era messa in viaggio da più di un mese e la meta era vicina. La diligenza che sobbalzava sul tracciato del Santa Fe Trail era diretta a Fort Union e i due postiglioni avevano assicurato che vi sarebbero giunti in un paio di giorni. Kerry chiuse gli occhi su quella distesa di colline verdi di salvia selvatica e azzurre per i fiori dell’indigo bush e si lasciò andare contro il rigido schienale»
« Era il figlio del portiere. Suo padre aveva le chiavi di casa nostra, quando partivamo innaffiava le piante di mio padre. Per un periodo ci furono due nastri azzurri sullo stesso portone, il suo più scolorito del mio perché era più vecchio di qualche mese. C’incontrammo durante tutta l’infanzia, lui scendeva io salivo. C’era il divieto di giocare in un cortile dove una grande palma spazzolava la quiete dei vecchi inquilini. Un casamento d’epoca fascista accanto al Tevere. Lo vedevo dalla finestra,mentre scivolava con il pallone nel canneto lungo il fiume. Sua madre faceva pulizie negli uffici al mattino presto. Era organizzato, metteva la sveglia, apriva il frigorifero e si riempiva la tazza di latte.
Calzava bene il berretto, si chiudeva il cappotto. Ci trovavamo più o meno allo stesso punto tutti i giorni. Io ero sempre molto più assonnato di lui. Mia madre mi teneva la mano, lui era sempre per conto suo. Ciao. Si portava dietro un odore di cantina, di sottosuolo urbano. Faceva tre passi e un saltello. Tre passi e un saltello. »
«Prima di partire per uno dei suoi viaggi inerpicandosi su sentieri rocciosi, navigando per mare, cavalcando per impervi territori asiatici; prima di imbattersi nei diffidenti sciti, scoprire le meraviglie di Babilonia e studiare i segreti del Nilo; prima di conoscere cento altri luoghi diversi e vedere mille cose incomprensibili, Erodoto appare brevemente nelle lezioni di storia greca tenute due volte alla settimana dalla professoressa Biezuńska-Małowist per gli studenti del primo anno dell'Università di Varsavia.
Appare e subito sparisce. Sparisce di colpo e in modo così radicale che, sfogliando dopo tanti anni gli appunti presi a lezione, non vi trovo il suo nome. Ci sono Eschilo e Pericle, Saffo e Socrate, Eraclito e Platone, ma non Erodoto. Eppure quegli appunti, nostra unica fonte di sapere, venivano redatti con la massima cura: la guerra era finita da appena cinque anni, la città giaceva in rovina, le biblioteche erano state incendiate e noi mancavamo completamente di libri e di manuali.
La professoressa parla con voce calma e uniforme. Dietro le grosse lenti i suoi attenti occhi scuri ci fissano con evidente curiosità. Seduta in cattedra sulla pedana soprelevata, ha davanti a sé un centinaio di giovani, la maggior parte dei quali ignora che Solone fu un grand'uomo, quale fosse il motivo della disperazione di Antigone e in che modo Temistocle avesse chiuso in trappola i persiani.
A dire la verità non sapevamo con esattezza neanche dove si trovasse la Grecia né che il paese così chiamato vantasse un passato talmente insolito ed eccezionale da meritare di studiarlo all'università. Eravamo figli della guerra: negli anni del conflitto le scuole erano chiuse e se anche qualcuna delle città principali aveva organizzato dei licei clandestini, gli studenti di quell'aula, quasi tutti provenienti da villaggi e da piccole città di campagna, erano digiuni di letture e di studi scolastici. Correva il 1951 e all'università si veniva ammessi senza esami. Bastava provenire dalla famiglia giusta: i figli di operai e contadini erano quasi certi di ottenere il libretto»
«Tre donne vivevano in un paesino.
La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza egoista.
Il paese aveva un grazioso nome da giardino: Giverny.
La prima abitava in un grande mulino in riva a un ruscello, sul chemin du Roy; la seconda in una mansarda sopra la scuola, in rue Blanche-Hoschede-Monet; la terza con la madre in una casetta di rue du Chateu-d’Eau dai muri scrostati.
Neanche avevano la stessa età. Proprio per niente. La prima aveva più di ottant’anni ed era vedova. O quasi. La seconda ne aveva trentasei e non aveva mai tradito il marito. Per il momento. La terza stava per compierne undici e tutti i ragazzi della scuola erano innamorati di lei. La prima si vestiva sempre di nero, la seconda si truccava per l’amante, la terza si faceva le trecce perché svolazzassero al vento.
Insomma, avete capito. Erano tre persone molto diverse. Eppure avevano qualcosa in comune, una specie di segreto: tutte e tre sognavano di andarsene. Sì, di lasciare la famosa Giverny, paese il cui solo nome faceva venire voglia a una quantità di gente di attraversare il mondo solo per farci due passi.
Sapete naturalmente perché: per via dei pittori impressionisti.
La prima, la più anziana, possedeva un grazioso quadro. La seconda era molto interessata agli artisti. La terza, la più giovane, sapeva dipingere bene. Anzi, benissimo.
Strano che volessero lasciare Giverny, vero? Tutte e tre pensavano che quel paesino fosse una prigione, un gran bel giardino, ma con le inferriate. Come il parco di un manicomio. Un trompe-l’oeil. Un quadro da cui è impossibile uscire. In realtà la terza, la più giovane, cercava un padre altrove. La seconda cercava l’amore. La prima, la più vecchia, sapeva cose sulle altre due. »
«La sua era una famiglia fondata sui forse. Forse il padre falegname avrebbe consegnato la credenza al suo committente in tempo per il ricevimento; forse Rachele, la madre, avrebbe preferito mettere al mondo due femmine piuttosto che quei due delinquenti che avevano preceduto l’arrivo di Francesco; forse avrebbero presto avuto qualcosa da parte se i “torinesi”, i ricchi, avessero continuato a servirsi da loro; forse il tetto della loro catapecchia avrebbe retto ancora per alcuni inverni prima di cadere sulle loro teste. Forse. Sin da piccolo Francesco invece aveva avuto in testa solo i mai oppure i sempre. Non riusciva a farsi andare a genio l’incertezza che lo circondava. Voleva scoprire il funzionamento delle cose. Di tutte le cose. E non bastava una risposta sbadata a tenerlo buono. Scoprire il come, il quando e il perché delle cose lo faceva stare bene. Perché da quel momento in poi le avrebbe sottratte al dominio dei forse per consegnarle al rassicurante perimetro dei sempre e dei mai. »
«Ho fatto la parte pratica del concorso per il Capes in un liceo di Lione, sulla collina della Croix-Rousse. Una scuola nuova, con piante verdi nella sala riservata agli amministrativi e al corpo docente, una biblioteca dalla moquette color sabbia. Ho aspettato lì che mi venissero a chiamare. La prova consisteva in una lezione da tenere in presenza della commissione d'esame, un ispettore e altri due professori di lettere, tutti veterani dell'insegnamento. Una donna correggeva altezzosa gli scritti, senza esitazioni. Mi sarebbe bastato superare indenne l'ora successiva per essere autorizzata a fare come lei per il resto della vita. Davanti e una quarta dello scientifico ho spiegato venticinque righe - bisognava numerarle - di Papà Goriot di Balzac.
Dopo la lezione io e i commissari ci siamo spostati nell'ufficio del preside. «Ha fatto fatica a farsi seguire dagli studenti» mi ha rimproverato l'ispettore. Era seduto tra gli altri due docenti, un uomo e una donna miope con le scarpe rosa. E io di fronte a loro. Per un quarto d'ora ha alternato critiche, elogi, consigli, io ascoltavo appena, chiedendomi soltanto se tutto ciò che mi stava dicendo significava che avevo passato la prova. D'un tratto, con aria grave, si sono alzati tutti e tre all'unisono. Mi sono alzata anch'io, precipitosamente. L'ispettore mi ha teso la mano. Poi, guardandomi bene in faccia: «Congratulazioni». Gli altri hanno ripetuto «congratulazioni» e mi hanno stretto la mano, la donna aggiungendo un sorriso.
Non ho smesso di pensare a questo cerimoniale fino alla fermata del bus, con rabbia e una sorta di vergogna. La sera stessa ho scritto ai miei genitori che sarei presto diventata professoressa “di ruolo”. Mia madre mi ha risposto che erano molto contenti per me.
Mio padre è morto esattamente due mesi dopo. Aveva sessantasette anni e con mia madre gestiva un bar-alimentari in un quartiere tranquillo, non lontano dalla stazione, a Y* (nella Senna Marittima). Aveva intenzione di continuare a lavorare ancora per un solo anno. Mi capita spesso, per qualche istante, di non sapere più se la scena al liceo di Lione ha avuto luogo prima o dopo, se quell'aprile ventoso in cui mi vedo aspettare un autobus alla Croix-Rousse sia precedente o successivo al giorno soffocante della sua morte.
Era una domenica, nel primo pomeriggio.»
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