L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Ricordava com’era stato, vedere per la prima volta la prigione. Fu attraverso la reticella metallica che copriva i finestrini del cellulare che l’aveva portata lì dalle Four Courts, quel giorno di tanti anni prima. Era inverno. Tardo pomeriggio, inizio serata. L’ora di punta a Dublino. Era buio, o almeno avrebbe dovuto esserlo. In realtà era tutto vivacemente illuminato. Brillanti luci bianche rischiaravano il macadam al catrame quando il furgone si era fermato davanti al cancello, tanto che lei era riuscita a vedere fuori e a distinguere l’alta croce e le lapidi disseminate nell’erba dall’altezza disomogenea.»
«Oggi la mamma è morta. O forse ieri, non so. Ho ricevuto un telegramma dall’ospizio: “Madre deceduta. Funerali domani. Distinti saluti.” Questo non dice nulla: è stato forse ieri.
L’ospizio dei vecchi è a Marengo, a ottanta chilometri da Algeri. Prenderò l’autobus delle due e arriverò ancora nel pomeriggio. Così potrò vegliarla e essere di ritorno domani sera. Ho chiesto due giorni di libertà al principale e con una scusa simile non poteva dirmi di no. Ma non aveva l’aria contenta. Gli ho persino detto: “Non è colpa mia.” Lui non mi ha risposto. Allora ho pensato che non avrei dovuto dirglielo. Insomma, non avevo da scusarmi di nulla. Stava a lui, piuttosto, di farmi le condoglianze. Ma certo lo farà dopodomani, quando mi vedrà in lutto. Per adesso è un po’ come se la mamma non fosse morta; dopo il funerale, invece, sarà una faccenda esaurita e tutto avrà preso un andamento più ufficiale.»
«Scrivo un libro sulla guerra...
Io che non ho mai amato leggere libri di guerra benchè per tutta la mia infanzia e adolescenza fossero le letture preferite di tutti. Di tutti i miei coetanei, maschi e femmine. E non c'era niente di strano: non eravamo forse i figli della Vittoria? I figli dei vincitori? La prima cosa che ricordo della guerra? La mia angoscia di bambina in mezzo a parole paurose e incomprensibili. La guerra veniva continuamente evocata, a scuola e a casa, ai matrimoni e ai battesimi, alle feste e alle commemorazioni funebri. Un giorno il bambino dei vicini mi ha domandato: "ma cosa fa la gente sotto terra? come vive in quel mondo?" Anche noi volevamo penetrare il mistero della guerra.
È stato allora che ho cominciato a riflettere sulla morte... E non ho mai smesso, anzi essa è divenuta per me il più importante mistero del nostro vivere.
Ogni cosa prende avvio da quel mondo terribile e arcano. Nella nostra famiglia il nonno ucraino, padre di mia madre, era morto al fronte ed è sepolto da qualche parte in terra magiara, mentre la nonna bielorussa, madre di mio padre, se l'era portata via il tifo, in una formazione partigiana, e dei suoi tre figli, due erano scomparsi senza lasciare traccia nei primi mesi della guerra e uno solo ne era ritornato, mio padre..»
«Kweku muore scalzo, una domenica all'alba, le pantofole all'uscio della camera, come cani. In questo istante è fermo, tra la veranda e il giardino, indeciso se tornare a prenderle. Non lo farà. In quella camera dorme Ama, la sua seconda moglie: le labbra dischiuse, la fronte leggermente aggrottata, la guancia che cerca calda uno scampolo di fresco sul cuscino, e Kweku non vuole svegliarla.»
«Il maestro è innamorato di mia madre! Può andare peggio di così? NO! Vabbè, i miei sono divorziati da tempo, quindi PUO’ succedere. Mia madre è tanto buona e il maestro tanto carino. Ma insieme? Mi sembra impossibile! Ed è anche colpa mia, credo.
Ed è successo qualche mese fa.
Era il giorno in cui iniziava il “progetto sui mestieri”. Noi sapevamo che il prossimo progetto sarebbe stato quello, ma il maestro non sapeva che lo sapevamo. Quindi ha iniziato così: “Ragazzi” ha detto “ da grandi farete un mestiere. Io ad esempio faccio il maestro. E qualcun altro il generale, per dire qualcosa di importante. Adesso mi direte cosa vorreste fare voi”. A qual punto si è scatenata un’incredibile confusione. Tutti urlavano contemporaneamente. Il maestro ha sbattuto la bacchetta sulla lavagna ed è tornato il silenzio. Poi ci ha interrogati uno alla volta.
“Mehmet?”
“Generale , maestro”
“Murad?”
“Generale, maestro”
“Fatima?”
“Generale, maestro”
“Ehi, ehi” ha detto il maestro “Forse non avete capito. Dovete dire qualcosa di voi, non ripetere quello che ho detto io. Dovete dire sinceramente cosa volete fare da grandi”
“Mehmet?”
Mehmet ha guardato il maestro e ha fatto un gran sospiro. “Quindi niente generale, maestro?” Anche il maestro ha fatto un gran sospiro. “Certo che puoi diventare generale, ma puoi fare anche qualcos’altro”.»
«All’inizio degli anni Cinquanta, storia e politica ordirono una congiura di circostanze che mi impedì di esercitare il mestiere che avevo scelto, vale a dire quello di scrittore. Poiché nel 1937 per un breve periodo ero stato comunista, gli studi cinematografici che mi davano da vivere ormai non osavano più ingaggiarmi, e gli editori americani dei miei primi romanzi, una volta esaurite le copie, non li mandavano in ristampa. Così decisi di approfittare della situazione per scrivere proprio il libro che non avrei mai potuto pubblicare finché fossi stato in vita. In fondo, un’occasione del genere non si sarebbe ripresentata tanto facilmente. Si trattava, guarda caso, della storia del motivo che mi aveva spinto a diventare comunista nel 1937. Motivo che, in una parola, era l’amore.
Non ho sempre fatto lo sceneggiatore, né, del resto, sono sempre stato americano. In effetti, in un tempo che mi sembra lontanissimo ero un inglese e un romanziere di discreto successo, anche se probabilmente nelle cronache dell’epoca sarò ricordato più per gli amici che mi feci che per ciò che scrissi. Poi, un pomeriggio di primavera, poco dopo il Giorno della Vittoria, seguii un giovanotto nelle latrine della stazione del metrò di Tottenham Court Road.»
«Passenger crossing the wheat-yellow plain to Dungatar would first notice a dark blot shimmering at the end of the flatness. Farther down the asphalt, the shape would emerge as a hill. On the top of the hill sat ashabby brown weatherboard, leaning provocatively on the grassy curve. It looked as if it was about to careen down, but was roped to a solid chimbey by thick-limbed wisteria. When the passenger apporaching Dungatar by train felt the carriage warp around the slow southward curve, they glanced up through the window and saw the tumbling down house. At night, light from the house could be seen from the surrounding planes- a shaky beacon in a vast, black sea, winking from the home of Mad Molly. As the sun set the hill cast a shadow over the town, that stretched as far as the silos.»
«Studio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di scoprire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch'io faccia: la certezza che capiscano ciò che fanno.
In prima, sì, mi sembra che molti l'abbiano, dal modo come tra loro si guardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ai loro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po' addentro negli occhi con questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s'aombrano.
Taluni anzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io seguitassi a scrutarli, m'ingiurierebbero o m'aggredirebbero. »
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