L'autore
Vanni Santoni (1978), dopo l’esordio con Personaggi precari (RGB 2007, poi Voland 2013), ha pubblicato, tra gli altri, Gli interessi in comune (Feltrinelli 2008), Se fossi fuoco arderei Firenze (Laterza 2011), Terra ignota (Mondadori 2013), Terra ignota 2 - Le figlie del rito (Mondadori 2014), Muro di casse (Laterza 2015). È fondatore del progetto SIC – Scrittura Industriale Collettiva (In territorio nemico, minimum fax 2013); scrive sul Corriere della Sera e dirige la narrativa Tunué.
Il libro
Perché sognare un quarto d’ora di celebrità se potevi prenderti dieci o venti ore al centro dell’universo? E la bellezza. Potevamo creare ovunque la bellezza: in ogni angolaccio, sotto a ogni cavalcavia, poteva sgorgare una fonte di meraviglia. Ogni periferia, ogni cittadina di provincia senza più guizzi poteva tornare a splendere e ribollire per una notte. E non parlo solo dei posti dove andavamo: il fatto che andassimo in alcuni faceva sì che tutti, in potenza, custodissero la bellezza. Quindi, la speranza.
Cosa è stata questa ‘cosa’ sfuggente, multiforme ed entusiasmante avvenuta in Europa tra il 1989 e oggi – una cosa lunga dunque un quarto di secolo? Proprio dalla consapevolezza che nessun dato potrà mai avvicinarsi al significato profondo del rave, del trovarsi lì, a ballare davanti a un muro di casse fino al mattino (e sovente fino a quello ancora successivo) in quelle industrie abbandonate, in quei capannoni, in quei boschi, in quelle ex basi militari, fiere del tessile, ballatoi, vetrerie, depositi ferroviari, rifugi montani, bunker, uffici smessi, pratoni, centrali elettriche, campi, cave, rovine di cascinali, finanche strade di metropoli quando venne il momento della rivendicazione, è nato questo libro – perché, sia pure con una forte impronta documentale, in casi come questo il romanzo è il più potente strumento di analisi e rappresentazione della realtà.
L'intervista
Partiamo da una domanda semplice: come nasce Muro di casse?
È da quando ho cominciato a scrivere che coltivo l’ambizione di produrre qualcosa sul mondo dei free party, quelli che i giornali chiamano impropriamente ‘rave’. Le ragioni erano due: da un lato ho sempre trovavo grottesca la scollatura tra la complessità del fenomeno e la narrazione meschina che ne facevano i media; dall’altro perché si trattava di un mondo che trasudava storie. Anche incredibili, come quella dei Desert Storm, una tribe inglese che andò a organizzare feste per le popolazioni che vivevano sotto assedio in ex Jugoslavia, e che ritroviamo, romanzata ma aderente alla realtà, anche nel libro. Qualcosa di enorme aveva attraversato l’Europa per oltre vent’anni, e i media lo avevano liquidato come un fenomeno marginale, mentre si trattava di una importante avanguardia culturale: c’era insomma molto spazio narrativo. Molti hanno parlato di “romanzo ibrido” perché Muro di casse usa uno spettro ampio di strumenti: c’è il romanzo, c’è il reportage, c’è l’apparato documentale, c’è il pastiche, c’è l’intervista, ci sono pure i versi, ma io credo che ormai il romanzo sia un genere che riesce a includere tutti questi elementi senza perdere la propria natura. Come scriveva Gospodinov, ‘il romanzo non è ariano’. Anzi, è meticcio e propenso al sincretismo. Sincretica è anche la free tekno: si tratta di un fenomeno che ha radici ideologiche nel punk ma anche nella cultura hippie; che usa uno strumento – il soundsystem – inventato dai giamaicani per il reggae, ma ha radici musicali nella club culture; che si basa, in ultima istanza, su musica messa assieme da fonti diverse, spezzata, riamalgamata, mixata, trasformata in flusso.
Quanto c'è di autobiografico?
Non più di quanto non ci sia in un qualunque mio romanzo. Sono partito da esperienze dirette – eventi come il teknival in Pratomagno in cui si svolge una scena di rilievo del romanzo sono stati vissuti veramente – ma appena ho iniziato a delineare i personaggi, queste si sono adattate al loro modo d’essere, di pensare e di agire, diventando quindi fatti finzionali, ancorché basati su esperienze reali. Quando poi ho capito che c’era l’occasione per fare un libro sull’intera scena, o meglio di usare tale scena per raccontare l’Europa dalla caduta del Muro di Berlino a oggi, l’Europa postindustriale, la prima ‘società della crisi e del loisir’, da un punto d’osservazione atipico, ho cominciato anche a raccogliere testimonianze altrui, e da lì pure ho sviluppato nuove vicende, sovrapponendo e concentrando persone, vissuti, fatti. Insomma, fiction is fiction, come aveva a dire Nabokov.
Citi Nabokov. È tra i tuoi modelli letterari?
Nabokov è uno dei giganti che ha portato la letteratura al livello più sublime; si tratta di un modello inarrivabile, ma ovviamente sta nel mio pantheon, come credo in quello di chiunque prenda sul serio la letteratura. Se proprio si vuole giocare a trovare un ‘padre nobile’ a Muro di casse, allora direi che è piuttosto W.G. Sebald.
Lo consideri più un reportage o un romanzo?
Come detto, Muro di casse è senz’altro un romanzo. Si tratta, semplificando al massimo, della storia di un tizio che vuole scrivere un libro sui free party, e per farlo va a incontrare tre diversi personaggi. Al di là dei suoi obiettivi teorici, Muro di casse è infatti composto da tre storie collegate tra loro, tre vicende umane legate al mondo della cultura rave, che lo raccontano da tre diversi gradi di radicalità e approcci esistenziali – c’è Iacopo, il semplice frequentatore, che rappresenta la dimensione sensuale; Cleo, che arriva da un percorso prettamente politico, e rappresenta la dimensione intellettuale e teoretica; Viridiana, che ha fatto della free tekno uno stile di vita e rappresenta la dimensione spirituale. E poi c’è la storia della voce narrante, che va a cercare questi personaggi, li incontra, li interroga, si ibrida e sovrappone a loro stessi, facendo venir fuori un secondo livello di storie, sorta di piccola costellazione di microracconti nell’ambito di questa stagione selvaggia che per quasi un quarto di secolo ha attraversato l’Europa.
Com'è stato accolto dal pubblico?
Il libro ha avuto subito un ottimo riscontro di critica e di pubblico, sono uscite più di cento recensioni e dopo pochi mesi siamo andati in ristampa.
Dunque non è rimasto circoscritto a una nicchia di lettori familiari alla musica tekno ma è arrivato anche a chi considera i rave “un covo di drogati”?
Il libro ha immediatamente ‘rotto’ la sua nicchia. Lo compra e lo legge gente di ogni tipo. Ciò si deve, credo, al suo essere un romanzo. Un saggio, in fin dei conti, viene acquistato solo da chi è già interessato all’argomento che tratta. Un romanzo racconta storie, e a tutti interessano le storie. Se poi sono assurde, epiche e romantiche, come quelle che capitavano alla fine del secolo scorso all’ombra di quei muri di altoparlanti, negli interstizi abbandonati di un’Europa che finalmente cominciava a pensarsi senza confini interni, tanto meglio. Peraltro, presentando il libro in luoghi di ogni genere, anche per niente legati al mondo della free tekno e dei rave, ho potuto constatare che la gente non è ingenua quanto credono a volte i giornali e le TV.
Pochissimi, anche tra i profani, avevano una tale idea negativa dei rave. Magari non tutti si rendevano conto che si trattava della più importante avanguardia culturale degli anni ’90, ma praticamente nessuno si era bevuto le verità della TV, e anche per questo, forse, c’è stato così tanto interesse intorno al libro: se centinaia di migliaia, forse milioni, di europei, per venti e più anni, fanno una cosa, e la fanno col massimo entusiasmo e coinvolgimento, significa che evidentemente non è l’inferno che dipingono le TV, e neanche è possibile che sia vacua o priva di spessore. Anche senza saperne niente è facile intuire che si tratta di qualcosa che risponde a esigenze esistenziali e culturali profonde.
La tua carriera letteraria spazia tra vari generi, tra cui anche il fantasy: qual è quello in cui ti ritrovi maggiormente? Pensi che farai altri libri come la trilogia di Terra Ignota pubblicata con Mondadori?
Il fantasy è un percorso parallelo ma comunque secondario rispetto al cuore dei miei interessi letterari. Il genere mi interessa molto, anzitutto per il suo potenziale intertestuale e per le connessioni che ha con la fiaba e il mito, così come mi interessa molto la scrittura collettiva, solo per citare un altro filone della mia produzione, ma la mia linea principale è quella di fiction realistica che passa da Personaggi precari a Gli interessi in comune e Se fossi fuoco arderei Firenze fino, appunto, a Muro di casse.
Scrivere Terra ignota è stato divertente, e sicuramente in futuro tornerò sul tema – intanto c’è da scrivere il prequel alla storia narrata nei due romanzi...
A proposito, per cosa sta "HG”, la sigla che hai aggiunto alla tua firma quando hai pubblicato Terra Ignota?
Si tratta di un omaggio a Guido Morselli (viene dal suo Dissipatio H.G.), grande e sfortunato esponente del fantastico nostrano. Serviva qualcosa per differenziare il mio nome onde rimarcare il fatto che si trattava di un genere diverso da quello a cui erano abituati i lettori, e ci siamo inventati questa cosa, un po’ come lo scrittore inglese Iain Banks che quando faceva fantascienza diventava Iain M. Banks.
A proposito di Morselli, cosa ne pensi dell'attuale panorama di letteratura fantastica italiano? Quali volti nuovi consiglieresti?
Ci sono molte cose buone, mi sembra che finalmente il fantastico italiano stia superando tanto i derivativismi dalla tradizione anglosassone quanto il (pur giustificato) complesso nei confronti del fantastico colto e speculativo dei Calvino, dei Landolfi e dei Buzzati. Seguo e apprezzo il lavoro di Francesco Dimitri, Francesco Barbi, Matteo Strukul, solo per citarne alcuni.
Da scrittore, senza nulla togliere all’una o all’altra casa editrice, qual è stata la tua migliore esperienza di pubblicazione?
Ho avuto la fortuna di lavorare con bravissimi professionisti in questi anni, e ho imparato molto da tutti loro. Il successo che sta avendo Muro di casse è anche frutto della precisione del lavoro di Laterza e della visione della sua direttrice Anna Gialluca, quindi dovendo scegliere dico quest’ultimo, ma solo perché è il più recente: davvero non si può togliere niente al lavoro eccelso, pieno di pignoleria e amore per i libri, che ho riscontrato tanto in un editore enorme come Mondadori quanto in uno indipendente come minimum fax.
Com’è essere da entrambe le parti della barricata, cioè insieme scrittore ed editor?
È interessante e credo anche utile per lo scrittore il mettere le mani su testi altrui. Tunué è una piccola realtà che si sta facendo onore, e la collana di narrativa che curo sta andando benissimo, ad oggi possiamo dire di aver azzeccato tutti e sei i titoli pubblicati finora – anche l’ultimo nato, Dalle rovine di Luciano Funetta, è partito proprio forte.
Mi dispiace molto solo non poter rispondere a tutti quelli che mandano manoscritti, ma ho scoperto esser vero quello che già avevo sentito dire da altri amici che fanno questo lavoro da prima di me: il flusso, o meglio lo tsunami, di testi, è tale che è già molto se si riesce a rispondere a chi viene selezionato.
Come percepisci l’attuale crisi editoriale italiana? Ritieni sia più dovuta a un problema a monte (ad esempio la saturazione del mercato, cioè troppi libri) oppure a valle (la poca educazione alla lettura, cioè pochi lettori)?
Mi pare che entrambi i problemi siano rilevanti. Da un lato vedo continuamente molte, troppe ingenuità da parte degli editori. Al di là della saturazione del mercato, il marketing pare un concetto sconosciuto in editoria (per non parlare di quello mirato online, che sarebbe potentissimo per raggiungere le nicchie di lettori ma non viene quasi mai praticato), e molti si affidano ancora per lo più a strumenti come le recensioni sui giornali, il cui impatto, pur non azzerato (se ne escono molte e magari su un periodo breve aiutano comunque a ‘muovere’ un libro) è decisamente ridotto per il semplice fatto che il mercato dei quotidiani e delle riviste si è praticamente dimezzato. Dall’altro lato, è innegabile che in Italia si legga meno che in altri paesi a causa di deficit culturali diffusi. Anche le istituzioni preposte alla diffusione del libro agiscono in modo spesso confuso e inefficace. Il punto in cui investire e lavorare per formare lettori era, è, e sarà sempre, la scuola pubblica. Gli investimenti, e parlo di investimenti statali considerevoli, vanno fatti lì.
Che futuro hanno per te le case editrici indipendenti?
Penso che ci sia sempre spazio per chi fa buoni libri, specie in un momento storico in cui non sempre le major se la sentono di investire su testi più complessi. Tre dei più significativi libri del decennio, Fisica della malinconia di Georgi Gospodinov, Abbacinante di Mircea Cărtărescu, La giornata di un opričnik di Vladimir Sorokin, sono usciti per case editrici piccole come Voland (i primi due) o minuscole come Atmosphere (il terzo); la grande Annie Ernaux è stata portata in Italia dall’Orma; una nuova voce importante come Valeria Luiselli dalla Nuova Frontiera; Kent Haruf da NN... Anche la stessa linea editoriale che ho scelto per la collana "Romanzi" di Tunué, fortemente orientata sugli esordi, deriva dal fatto che, passata la ‘sbronza da esordienti’ delle major – per anni, alla ricerca di un nuovo Saviano o Giordano, hanno lanciato e bruciato decine di giovani scrittori – l’ecosistema letterario si è riassestato nella forma precedente, dove lo scouting è per lo più effettuato dalle piccole.
Insomma, lo spazio c’è eccome. I problemi sono più a un altro livello, quello distributivo, e infatti guardo con molto interesse al tipo di lavoro che sta facendo SUR, di ‘filiera corta’, ovvero di rapporto diretto con le librerie.
Grazie mille del tempo che ci hai dedicato, Vanni. In bocca al lupo per tutto!
Grazie a voi e crepino i lupi!
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