L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«La scena è in Firenze. L'anno, il 1512.
Un esercito di cinquemila fanti ispanici, duecento cavalieri e due cannoni entra in città dalla Porta San Gallo. Un vago assetto da parata. Un fiorire di insegne e vessilli che pare una festa di contrade e invece sono le bandiere di mezza Europa. Papa, Venezia, il re cattolicissimo d'Aragona, quello vice di Napoli, i tedeschi d'Asburgo, l'Inghilterra. Fra le fila un poco disordinate si scorge una portantina, una lettiga d'onore, difesa da una scorta di equestri e coperta da tendine di seta. Un fastidioso vento di primo autunno le solleva e spazza le strade, lungo cui incede l'esercito della Lega Santa. Tutto deserto, non un'anima in giro. Solo lo schiocco degli zoccoli dei cavalli e il rumore dei carri di milizia. Hanno le facce torve di artigiani della guerra. Si sono appena ripuliti del sangue sparso nella carneficina della piccola e incolpevole Prato - quattro migliaia di morti su poco più di seimila abitanti, le vergini stuprate sin nelle cantine dei conventi - e ora trottano per Firenze con le loro facce semibarbare e infiate.»
«Udirono il miagolio delle sirene e videro la polvere alzarsi sotto le ruote dell’ambulanza che imboccava il vialetto d’accesso; poco dopo il giardino su cui cominciava a calare la sera fu inondato di luci lampeggianti blu. Sembrò tutto vero solo quando dissero ai soccorritori dove avrebbero trovato i corpi. Ce n’era uno di sopra, all’ultimo piano, spiegarono, e un altro nella sala dell’organo, e ancora un altro in fondo al giardino: l’ultimo respirava ancora, ma flebilmente. L’avevano abbandonato sul greto del fiume sopra un groviglio di giunchi appiattiti, l’acqua gelide che gli lambiva i piedi. Quando i soccorritori chiesero come si chiamasse, risposero: «Eden». Eden Bellwether.
L’ambulanza ci avevo messo troppo tempo ad arrivare. Per un po’, si erano riuniti sulla veranda dietro la canonica, a riflettere, a farsi prendere dal panico, a fissare gli stessi vecchi olmi e ciliegi che avevano fissato altre centinaia di volte, ascoltando il vento disturbare i rami. Si sentivano tutti responsabili dell’accaduto. Tutti in colpa. E così litigarono, su chi fosse più responsabile degli altri, su chi dovesse sentirsi più in colpa. L’unico a non parlare era Oscar. Se ne stava appoggiato al muro, a fumare, ascoltava gli altri bisticciare. Quando finalmente prese la parola, la calma nella sua voce azzittì tutti.
«Ormai è fatta», disse spegnendo la sigaretta sulla balaustra della veranda. «Non possiamo farci niente, non possiamo tornare indietro».»
«Rosalia. Rosa e lia. Rosa che ha inebriato, rosa che ha confuso, rosa che ha sventato, rosa che ha róso, il mio cervello s’è mangiato. Rosa che non è rosa, rosa che è datura, gelsomino, bàlico e viola; rosa che è pomelia, magnolia, zàgara e cardenia. Poi il tramonto, al vespero, quando nel cielo appare la sfera d’opalina, e l’aere sfervora, cala misericordia di frescura e la brezza del mare valica il cancello del giardino, scorre fra colonnette e palme del chiostro in clausura, coglie, coinvolge, spande odorosi fiati, olezzi distillati, balsami grommosi. Rosa che punto m’ha, ahi!, con la sua spina velenosa in su nel cuore.
Lia che m’ha liato la vita come il cedro o la lumia il dente, liana di tormento, catena di bagno sempiterno, libame oppioso, licore affatturato, letale pozione, lilio dell’inferno che credei divino, lima che sordamente mi corrose l’ossa, limaccia che m’invischiò nelle sue spire, lingua che m’attassò come angue che guizza dal pietrame, lioparda imperiosa, lippo dell’alma mia, liquame nero, pece dov’affogai, ahi!, per mia dannazione. Corona di delizia e di tormento, serpe che addenta la sua coda, serto senza inizio e senza fine, rosario d’estasi, replica viziosa, bujo precipizio, pozzo di sonnolenza, cieco vagolare, vacua notte senza lume, Rosalia, sangue mio, mia nimica, dove sei?.»
«Il funerale dovrebbe essere una cosa tranquilla, perché chi finisce nella bara non aveva amici. Ma le parole, ad Amsterdam, sono come l'acqua, intasano le orecchie e da lì comincia il marcio, e l'angolo orientale della chiesa è pieno. La donna osserva la scena al riparo degli stalli del coro, mentre membri delle corporazioni con le mogli si avvicinano alla tomba aperta come formiche al miele. Li raggiungono poco dopo impiegati della VOC e capitani di nave, reggenti, fabbricanti di dolci e infine lui, con il solito cappello a tesa larga in testa. La donna cerca di compatirlo. La pietà, a differenza dell'odio può essere chiusa in una cassa e messa da parte.»
« Era in prigione da tre anni, Shadow. E siccome era abbastanza grande e grosso e aveva sufficientemente l'aria di uno da cui è meglio stare alla larga, il suo problema era più che altro come ammazzare il tempo. Perciò faceva ginnastica per tenersi in forma, imparava i giochi di prestigio con le monete e pensava un sacco a sua moglie e a quanto la amava. L'aspetto più positivo del fatto di essere in prigione, secondo lui - forse l'unico aspetto positivo - era una certa sensazione di sollievo. Sollievo al-l'idea di aver toccato il fondo. Non si doveva più preoccupare di essere preso, perché era già stato preso. Non aveva più paura di ciò che avrebbe potuto riservargli il futuro, perché il passato vi aveva già provveduto.
Non era importante, se si era davvero colpevoli del reato per cui ti avevano messo dentro. Gli uomini che aveva incontrato in quei tre anni non si davano pace: c'era sempre un particolare che le autorità avevano frainteso, pensavano, qualcosa che secondo loro avevi fatto mentre tu non l'avevi fatto per niente, oppure non esattamente nel modo in cui dicevano. La sola cosa importante era che ti avevano beccato.
Se n'era accorto durante i primi giorni, quando tutto gli risultava nuovo, dal gergo al cibo, infimo. Sotto l'infelicità e l'orrore estremo della sua nuova condizione provava un senso di sollievo.
Shadow aveva sempre cercato di parlare il meno possibile. A metà del secondo anno aveva esposto la sua teoria al compagno di cella, Low Key Lyesmith.
Low Key, un truffatore del Minnesota con la bocca sfregiata, gli aveva sorriso. «Sì. È vero. Se sei stato condannato a morte è addirittura meglio, e ti ricordi perfino delle barzellette sui tizi che scalciano via gli stivali quando gli stringono il cappio intorno al collo, perché gli amici dicevano sempre che sarebbero morti con gli stivali addosso.»
«Sarebbe una barzelletta?» aveva chiesto Shadow.
«Cazzo se lo è. Umorismo patibolare. Il migliore sulla piazza.»
«Quand'è che hanno impiccato qualcuno l'ultima volta, in questo stato?»
«E io come faccio a saperlo?» Lyesmith portava i capelli color carota così corti che gli si vedevano le linee del cranio. «Però ti posso dire una cosa. Quando hanno smesso di impiccare la gente questo paese ha cominciato ad andare a rotoli.
Niente pendagli da forca. Niente buon esempio.»
Shadow si era limitato a scrollare le spalle. Lui non ci vedeva niente di romantico, in un'esecuzione capitale. Se non vieni condannato a morte, aveva deciso, e se tutto va bene, la galera non è altro che uno stato di momentanea sospensione, e questo per due ragioni. Primo, la vita riesce a filtrare dentro la prigione. Non c'è limite al peggio. La vita continua. Secondo, se tieni duro a un certo punto ti dovranno rilasciare.
I primi tempi il momento del rilascio era troppo lontano perché Shadow potesse immaginarlo. Poi era diventato una speranza remota e aveva imparato a dire a se stesso "passerà anche questo" quando la galera, come succede sempre, diventava insopportabile. Un giorno il magico portone si sarebbe aperto e lui ne avrebbe varcato la soglia. Perciò segnava i giorni sul calendario con gli uccelli del Nordamerica, l'unico in vendita nello spac-cio, e il sole tramontava e sorgeva senza che lui lo vedesse. Si esercitava con i giochi di prestigio illustrati in un manuale scovato in quella terra desolata che era la biblioteca del penitenziario, faceva ginnastica e mentalmente stilava la lista delle cose che avrebbe fatto appena fuori. Con il passare del tempo la lista era diventata sempre più corta. Dopo due anni era ridotta a tre punti.
Primo, un bagno. Un bel bagno come si deve in una vasca piena di schiuma. Immerso nell'acqua forse avrebbe letto il giornale. Forse, però. A volte pensava di sì, a volte di no.
Secondo, si sarebbe asciugato, e poi avrebbe infilato l'accappatoio. Forse anche un paio di pantofole. L'idea delle pantofole gli piaceva. Se fosse stato un fumatore a quel punto avrebbe acceso la pipa, ma non fumava. Presa in braccio la moglie ("Cucciolo" avrebbe strillato lei fingendo di essere ter-rorizzata e provando un autentico piacere, "che cosa fai?"), l'avrebbe portata in camera da letto chiudendo la porta. In caso di fame avrebbero ordinato una pizza a domicilio.
Terzo, usciti dalla camera da letto, un paio di giorni dopo, magari, lui si sarebbe comportato bene, tenendosi lontano dai guai per il resto dei suoi giorni.
«E saresti felice, così?» gli aveva chiesto Low Key Lyesmith. Erano nell'officina a montare i beccatoi per gli uccelli, attività appena più interessante della punzonatura delle targhe automobilistiche..»
««La gente è proprio cattiva.»
Don Anacleto fissava il pavimento.
«Non cattiva» replicò Fermín. «Idiota. È ben diverso. La malvagità presuppone un certo spessore morale, forza di volontà e intelligenza. L'idiota invece non si sofferma a ragionare, obbedisce all'istinto, come un animale nella stalla, convinto di agire in nome del bene e di avere sempre ragione. Si sente orgoglioso in quanto può rompere le palle, con licenza parlando, a tutti coloro che considera diversi, per il colore della pelle, perché hanno altre opinioni, perché parlano un'altra lingua, perché non sono nati nel suo paese o, come nel caso di don Federico, perché non approva il loro modo di divertirsi. Nel mondo c'è bisogno di più gente cattiva e di meno rimbambiti.»»
«Se ne stava sulla porta, appoggiato con indolenza allo stipite, come se fosse venuto per fare uno scherzo. “ Ha detto Franco che devi stare attenta” si strinse le labbra tra le dita, a mo’ di lucchetto, ridacchiando.
Non disse altro, restava lì senza andare né avanti né indietro, con l’insolenza di chi si trova dalla parte del più forte, sa di avere tempo e di non dovere temere nulla. Wanda fece per chiudere la porta ma l’uomo la fermò poggiando con decisione la mano sul battente.
“Sta’ ferma, che fai? Ha detto che vuole la risposta”
Lo fissò, incerta. Che voleva dire “ risposta” in quelle condizioni? Era lei ad essere indagata dalla procura, degli altri nessuno sapeva niente, nemmeno ciò di che era veramente successo quella notte davanti al poligono. »
«Arriviamo dalla Grande Città. Abbiamo viaggiato tutta la notte. Nostra Madre ha gli occhi arrossati. Porta una grossa scatola di cartone, e noi due una piccola valigia a testa con i nostri vestiti, più il grosso dizionario di nostro Padre, che ci passiamo quando abbiamo le braccia stanche. »
0 Commenti a “La vetrina degli incipit - Maggio 2015”
Posta un commento