L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«- Aspetta qua, - disse il Bandi al D'Andrea. - Vado a prevenirla. Se s'ostina ancora entrerai per forza.
Miopi tutti e due, parlavano vicinissimi, in piedi, l'uno di fronte all'altro. Parevano fratelli, della stessa età, della stessa corporatura: alti, magri, rigidi, di quella rigidezza angustiosa di chi fa tutto a puntino, con meticolosità. Ed era raro il caso che, parlando così tra loro, l'uno non aggiustasse all'altro il sellino delle lenti sul naso, e il nodo della cravatta sotto il mento, oppure, non trovando nulla da aggiustare, non toccasse all'altro i bottoni della giacca. Parlavano, del resto, pochissimo. E la tristezza taciturna della loro indole si mostrava chiaramente nello squallore dei volti.
Cresciuti insieme, avevano studiato ajutandosi a vicenda fino all'Università, dove poi uno si era laureato in legge, l'altro in medicina. Divisi ora, durante il giorno, dalle diverse professioni, sul tramonto facevano ancora insieme quotidianamente la loro passeggiata lungo il viale all'uscita del paese.»
«Si faceva sempre alla luce del televisore.
Alcuni latinoamericani agitavano armi da fuoco. Il capo del gruppo si piluccava insetti dalla barba e fomentava i suoi. Immagini in bianco e nero: tecnici della Cbs in divisa mimetica. Cuba, brutta storia, disse un annunciatore. I ribelli di Fidel Castro contro l'esercito regolare di Fulgencio Batista.
Howard Hughes trovò la vena e si iniettò la codeina. Pete lo osservò di soppiatto: Hughes aveva lasciato la porta della camera socchiusa.»
«Di primule non ce n’erano più. Dalla parte del bosco –dove questo finiva, l’aperta campagna scendeva in pendio fino a un vecchio recinto, oltre al quale c’era un fossato rivestito di rovi- si vedevano ancora rare chiazze di giallo ormai sbiadito, fra l’euforbia e le radici delle querce. Di qua da quel recinto, la parte alta del campo era crivellata di buchi: tane di conigli. In alcuni punti l’erba era del tutto scomparsa e dovunque c’erano mucchietti d’escrementi secchi, intorno ai quali non cresceva altro che erba cardellina. Un centinaio di etri più sotto, in fondo alla pendice, scorreva un ruscello, non più largo di un metro, mezzo soffocato dai ranuncoli, nasturzi e ciuffi di vischio. Un tratturo, dopo aver attraversato quel corso d’acqua su un rudimentale ponticello, s’inerpicava su per l’opposto declivio fino ad un cancello a cinque sbarre e una siepe di spini. Oltre al cancello cominciava un viottolo.
Si era di maggio e il tramonto incendiava le nuvole. Mancava mezz’ora al crepuscolo. Il fianco della collina era punteggiato di conigli: alcuni brucavano l’erbetta risicata presso le loro tane, altri s’erano spinti più lontano, appié del poggio, alla ricerca di qualche radicchiella, o dente di leone, o magari qualche primaverina, sfuggita ai loro compagni. Qua e là qualcuno sedeva eretto sopra un formicaio e si guardava intorno, orecchie drizzate e naso al vento. Ma un merlo, che cantava indisturbato al limitare del bosco, dimostrava che non c’era nulla di allarmante, là, nell’altra direzione, lungo il ruscello, fin dove l’occhio giungeva, tutto era deserto e tranquillo. La pace regnava nella conigliera. »
«Sono laggiù.
Inservienti negri vestiti di bianco alzatisi prima di me per commettere atti sessuali nel corridoio e lavarlo senza che io possa sorprenderli.
Lo stanno lavando quando esco dal dormitorio, tutti e tre imbronciati e pieni d'odio contro ogni cosa: l'ora della giornata, il luogo in cui si trovano, la gente per la quale devono lavorare.Quando odiano in questo modo, è meglio che non mi vedano.
Striscio lungo la parete, silenzioso come la polvere, con le scarpe di tela, ma quelli hanno speciali apparati sensitivi, intercettano la mia fifa e alzano gli occhi tutti insieme, tutti e tre contemporaneamente, occhi splendenti nelle facce nere come lo sfavillio duro delle valvole nella parte posteriore di una vecchia radio.
"Ecco il Capo. Il suuu-per Capo, compari. Il vecchio Capo Ramazza. Dove te ne vai, Capo Ramazza...". Mi mettono uno straccio in mano, mi indicano il punto che vogliono farmi pulire oggi, e io vado. Uno di loro mi sferra un colpo con il manico della scopa sui polpacci affinché mi affretti a passare.
"Ehilà, lo vedi come scappa? È alto abbastanza per mangiarmi le mele sulla testa e ha paura di me come un bambino."
Ridono, poi li sento farfugliare alle mie spalle, accostando la testa gli uni agli altri. Ronzio di nere macchine, ronzanti odio e morte e altri segreti dell'ospedale. Non si danno la pena di non parlare a voce alta dei loro segreti saturi d'odio, quando io mi trovo nei pressi, perché mi credono sordo e muto. Lo credono tutti. Sono scaltro abbastanza per infinocchiarli fino a questo punto. Se mai l'essere un mezzo sangue pellerossa mi ha aiutato in qualche modo in questa sporca vita, mi ha aiutato con la scaltrezza, ecco come, in tutti questi anni»
«Nel cuore più profondo dell'Inghilterra c'è un posto dove ogni cosa è strana, perché la terra poggia su di una faglia. In questo posto antiche rocce erompono in superficie dalle profondità del mondo, violente come onde oceaniche che sa frangono o come mostri marini che emergono per respirare. Alcuni dicono che la terra debba ancora assestarsi, che continui a rimestarsi ed esalare vapori, e che da questi vapori sgorghino delle storie. Altri sono certi che gli antichi vulcani siano spenti da lungo tempo e che tutte le loro storie siano già state raccontate.
Naturalmente, tutto dipende da chi le racconta. E' sempre così. Io ce l'ho una storia da raccontare, e benchè abbia dovuto immaginarne delle parti significative, per come l'ho vista io, è andata così.»
««In verità… io… mi chiamo Michele Mari».
«Mi prendi per scemo? Affedidio che ti farò assaggiare il mio staffile, pendaglio da forca!»
«Ma davvero, io…»
«Silenzio, canaglia! Non è ancora nato il gaglioffo capace di menare per il naso il vecchio Salamoia, cosa ne dici Scummy?»
«Dico che è cosí, sacramento!», ringhiò l’uomo chiamato Scummy sputando un bolo di tabacco nel fosso.
«Allora moccioso, per l’ultima volta: qual è il tuo nome?»
«Ma ve l’ho detto, io…»
«Io, io! È meno di niente, io! Vedi lo sputo del mio compare? È un qualcosa più grande di te, capiscimi. E se adesso ci piscio sopra e lo spazzo via, bòn, anche il luccicume lasciato dal mio pisciazzo schifo è un qualcosa più grande di te, sei d’accordo?»
«D’a… d’accordo».
«D’accordo signore».
«D’accordo, signore».»
«I treni che entrano a Londra arrivano come navi che veleggiano fra i tetti. Passano fra torri protese verso il cielo come bestie marine dal collo lungo, e grandi bombole di gas che si rotolano nella sterpaglia come balene in mezzo all'oceano. In fondo agli abissi sottostanti ci sono file di piccoli negozi e filiali di catene sconosciute, bar con la vernice scrostata e attività inzeppate sotto gli archi sui quali passano i treni. I colori e le curve dei graffiti marchiano ogni muro. Le finestre ai piani alti sono così vicine al treno che i passeggeri si possono affacciare e dare un'occhiata a uffici piccoli e spogli e sgabuzzini di negozi. Possono distinguere i contorni dei calendari fotografici e delle donnine appese alle pareti.
Lì fuori risuonano i ritmi di Londra, nelle piatte distese fra la periferia e il centro. Le strade si fanno gradualmente più ampie e i nomi di bar e negozi diventano più familiari; le vie principali sono più rispettabili, il traffico più denso, e la città si innalza per andare incontro ai binari.
Alla fine di un giorno d'ottobre, un treno fece questo viaggio verso King's Cross. Fiancheggiato dall'aria, avanzò oltre le terre esterne di North London, sopra una città che si faceva via via più alta man mano che il treno si avvicinava a Holloway Road. La gente per strada ignorò il passaggio del treno. Solo i bambini alzarono lo sguardo verso lo sferragliare su in alto, e alcuni di quelli più piccoli puntarono il dito. Quando fu più vicino alla stazione, il treno si infilò sotto il livello dei tetti. C'erano poche persone nella carrozza a osservare i mattoni che salivano tutto intorno. Il cielo sparì sopra i finestrini. Una nube di piccioni si levò dal suo nascondiglio accanto ai binari e virò verso est.
Il frullio di ali e corpi distrasse un giovane tarchiato seduto in fondo allo scompartimento. Stava cercando di non fissare apertamente la donna di fronte a lui. Lucidi di lacca, i ricci di lei erano stati stirati e se ne stavano avvolti come serpenti sopra la testa. L'uomo interruppe il suo scrutinio furtivo quando svolazzarono i piccioni, e si passò le mani fra i capelli corti.»
«"Lije Baley era appena arrivato alla sua scrivania quando si accorse che R. Sammy lo fissava, come in attesa.
Le linee severe della sua faccia s'indurirono. "Che cosa vuoi?"
"Il capo ti cerca, Lije. Vuole che tu vada da lui immediatamente."
"D'accordo."
R. Sammy se ne rimase lì senza battere ciglio.
"Ho detto d'accordo!" scattò Baley. "Vattene, adesso!"
R. Sammy girò sui tacchi e tornò al solito lavoro. Baley si chiese, irritato, perché lo stesso lavoro non potesse farlo un uomo.»
Consiglio di fare una recensione letterarcinematografica per Qualcuno volò sul nido del cuculo. Merita davvero.