Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«La bambina ha dodici settimane, e il suo respiro ti culla con il ritmo calmo e regolare di un metronomo. Siete sedute su una sedia a dondolo al centro di una stanza completamente vuota. Alla tua destra, lungo la parete, gli scatoloni impilati dall’impresa di traslochi. Tre di questi, in cima alla pila, sono stati aperti per prendere lo stretto necessario, gli utensili da cucina, l’occorrente per lavarsi, qualche vestito e le cose della bambina che sono più numerose delle tue. La finestra non ha le tende. Sembra appesa al muro come una tela, un semplice schizzo prospettico in cui i binari ed i cavi elettrici, che si perdono sullo sfondo oltre la Gare de l’Est, fanno da linee di fuga. Non ne sei del tutto sicura, ma hai l’impressione di avere fatto, quattro o cinque ore fa, qualcosa che non avresti dovuto fare. Cerchi di rammentare la concatenazione dei tuoi atti, di ricostituirne la sequenza, ma ogni volta che riesci ad isolarne uno, questo, invece di far risorgere automaticamente il ricordo del successivo, ripiomba subito nel buco nero in cui si è trasformata la tua memoria.»
«Da molti anni desideravo scrivere dei Finzi-Contini – di Micòl e di Alberto, del professor Ermanno e della signora Olga – e di quanti altri abitavano o come me frequentavano la casa di corso Ercole I d'Este, a Ferrara, poco prima che scoppiasse l'ultima guerra. Ma l'impulso, la spinta a farlo veramente, li ebbi soltanto un anno fa, una domenica d'aprile del 1957.»
«I dodici uomini riuniti nella sala fumatori del Crown Hotel davano l'impressione di essersi incontrati accidentalmente.»
«Mi sono svegliato sospeso in una luce obliqua. Sognavo Laurentina. Parlava con il padre, che, chissà perché, aveva la faccia di Nelson Mandela. Era Nelson Mandela, ed era suo padre, e nel mio sogno tutto questo sembrava assolutamente naturale. Erano seduti intorno a un tavolo di legno scuro, in una cucina identica in tutto a quella del mio appartamento nella Lapa, a Lisbona. Ho sognato anche una frase. Mi succede spesso. Ecco la frase:
«Di quante verità è fatta una bugia?»»
«La campana dell'abbazia suonava da appena cinque minuti ma già nella chiesa dei Cappuccini c'era ressa.
Non illudetevi che tutta quella folla fosse riunita solo per devozione o sete di sapere. Pochissimi erano sollecitati da simili considerazioni; e in una città come Madrid, dove la superstizione domina con tanta prepotenza, cercare una devozione sincera sarebbe fatica sprecata.
La gente riunita nella chiesa dei Cappuccini vi era richiamata dalle ragioni più diverse, ma tutte estranee a quella ostentata.
Le donne venivano a mettersi in mostra, gli uomini ad ammirarle; certuni erano stati attratti dalla curiosità di sentire un predicatore tanto famoso; certi altri si trovavano lì perché non avevano modo migliore di ammazzare il tempo fino all'apertura dei teatri; altri ancora perché gli avevano assicurato che trovar da sedere in chiesa sarebbe stato impossibile; una metà di Madrid era stata richiamata dalla speranza di incontrare l'altra metà.»
«Quand'è stata la prima volta che ho incontrato un cinese?
Questa frase, così com'è, nasce per così dire da una preoccupazione archeologica. Etichettare i diversi reperti, dividerli per genere, analizzarli.
Ad ogni modo, quand'è che ho incontrato il mio primo cinese? Suppongo sia stato nel '59 o nel '60, ma un anno o l'altro non ha nessuna importanza. Anzi, direi che non fa la minima differenza. Ai miei occhi, il '59 e il '60 sono come due gemelli che indossano brutti vestiti uguali. Supponendo di poter salire su una macchina del tempo e tornare indietro a quegli anni, farei molta fatica a distinguere l'uno dall'altro.
Eppure continuo con perseveranza la mia opera. Allargo l'area degli scavi e trovo nuovi frammenti, a volte minuscoli, che incominciano a formare una figura»
«Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una certa qual massiccia corposità architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolo di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche più interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimità con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme fra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e là di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo. Di notte, i gufi ne facevano una gola sonante; di giorno, la sua ombra nera si allungava muta.»
«È ciò che pensa O, seduta tra Chon e Ben su una panchina di Main Beach, mentre sceglie per loro delle potenziali compagne.
- Quella? - chiede, indicando una classica BB (Basicamente Baywatch) che passeggia sul marciapiede. Chon scuote la testa.
Con una punta di sdegno, pensa O. Chon è piuttosto schizzinoso, per essere uno che passa la maggior parte del tempo in Afghanistan o in Iraq e non vede un granché a parte tute mimetiche o burqa.
O si rende conto che il burqa può essere molto erotico, se giocato nel modo giusto.
La faccenda dell'harem, insomma.
Be', no.
Il burqa non può funzionare per lei. Meglio non nascondere quei capelli biondi; e quegli occhi splendenti non devono sbirciare da dietro un niqab.
O è fatta per il sole.
È una ragazza californiana.
Chon non è piccolo, ma è magro. A dire il vero, O lo trova persino più magro del solito. Ha sempre avuto un profilo marcato, ma ora sembra quasi inciso con uno scalpello. Le piacciono quei capelli cortissimi, quasi rasati.
- Quella? - chiede O, accennando con il mento a una bruna con l'aria da turista, il naso all'insù e un grosso paio di tette.
Chon scuote la testa.
Ben è silenzioso come una sfinge, il che è un rovesciamento dei ruoli, perché di so-lito è lui il più loquace dei due. Non che ci voglia molto: Chon parla pochissimo, tranne quando si lancia nelle sue invettive. Allora è come togliere il tappo a una pompa antincendio.
Ben è il più loquace, riflette O, ma anche il meno promiscuo.
Ben è più il tipo «monogamo sequenziale», mentre Chon è della serie «le donne vanno servite simultaneamente». Ciò nonostante, O sa per certo che tutti e due (anche se Chon più di Ben) approfittano con liberalità delle turiste che li guardano giocare a pallavolo in questa spiaggia, comodamente situata a pochi passi dall'Hotel Laguna.
Lei definisce quegli incontri Srdf.
Scopata - Room Service - Doccia - Fuori.
«Effettivamente si tratta più o meno di questo», ha ammesso una volta Chon.
Benché a volte lui salti il Room Service.
Mai la doccia.
La regola d'oro della sopravvivenza, nel torneo a squadre Croci contro Mezzelune: Se c'è una doccia, usala.
E a casa non riesce a togliersi l'abitudine. »
«Mezzanotte e 7 minuti. Il cane era disteso sull’erba in mezzo al prato di fronte alla casa della signora Shears. Gli occhi erano chiusi. Sembrava stesse correndo su un fianco, come fanno i cani quando sognano di dare la caccia a un gatto. Il cane però non stava correndo, e non dormiva. Il cane era morto. Era stato trafitto con un forcone. Le punte del forcone dovevano averlo passato da parte a parte ed essersi conficcate nel terreno, perché l’attrezzo era ancora in piedi. Decisi che con ogni probabilità il cane era stato ucciso proprio con quello perché non riuscivo a scorgere nessun’altra ferita, e non credo che a qualcuno verrebbe mai in mente di infilzare un cane con un forcone nel caso in cui fosse già morto per qualche altra ragione, di cancro per esempio, o per un incidente stradale. Ma non potevo esserne certo.
Aprii il cancelletto di casa della signora Shears, richiudendolo dietro di me. Attraversai il prato e mi inginocchiai vicino al cane. Gli appoggiai la mano sul muso. Era ancora caldo.
Il cane si chiamava Wellington. Apparteneva alla signora Shears, che era nostra amica. Abitava dall’altro lato della strada, due case piú in là, sulla sinistra.
Wellington era un cane barbone. Non uno di quei barboncini tutti bei pettinati, no, uno di quelli grossi. Aveva il pelo riccio e nero, ma quando lo si guardava da vicino ci si rendeva conto che sotto quella cosa arruffata la pelle era di un colore giallo pallido, come quella di i pollo.
Accarezzai Wellington e mi domandai chi l’avesse ucciso, e perché.»
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