L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Vivo, ormai sono anni, in un vecchio appartamento nel cuore della città, con un fratello ammalato.
Nessun altro abita con noi, e le visite si fanno rare. Ultimi rimasti di una famiglia che fu numerosa al tempo della mia giovinezza, ci muoviamo, ora, in una complicata gerarchia di silenzi. L’altezza dell’appartamento sulla città, che si estende invisibile ai nostri piedi, la vastità delle terrazze adiacenti (alle quali non abbiamo accesso, ma che scorgiamo da ogni parte, al nostro livello, guardando dalle finestre) ci assicurano una quiete raccolta e un po’ falsa. Percepiamo, a distanza, un debole impasto sonoro: leggeri tonfi nei cortili e di strade, tramestii di appartamenti vicini che rimbalzano fino a noi. Ma sono voci sfuocate: più che turbare i nostri silenzi, giocano a renderli più compatti, insinuandovi dentro confuse vibrazioni vitali, lembi di esistenza che rimangono, però, senza storia.
L’interno della casa è di un’ampiezza afona, assorta, nobilmente inadeguata ai suoi scopi. Da quando, morto mio padre, i miei fratelli maggiori sono partiti uno alla volta lasciando inutili tracce della loro esistenza, le misure dei luoghi e le necessità della vita non combaciano più. Circola, attorno a noi, un’aria di trasloco imminente: le poltrone sono ricoperte di teli, le finestre spoglie dei loro tendaggi, i netti numerosi, astrattamente allineati e ridotti all’umiltà di brande. Non succede nulla, però, che rassomigli a un moto verso l’esterno. I viaggi, i trasferimenti, persino i contatti con la città si presentano ai nostri occhi come avventure laboriose ed incerte. Anche il ricovero in ospedale di mio fratello, che pure ho predisposto da anni, sembra di là da venire: la lentezza elle pratiche necessarie non ci consente di fare previsioni al riguardo, né tanto meno preparativi in vista di un mutamento; ogni mese potrebbe essere l’ultimo: ma intanto continuiamo a vivere qui, costruendo giorno per giorno, da soli, abitudini che non sembrano sottostare ad alcuna scadenza. »
«Lettere
alla Signora Santissima della Corona delle Sette Spine
Immacolata Assunta e Semprevergine Maria
Signora mia Pregiatissima, Dolcissima e Valentissima, oggi, addì 16 di marzo 1640, comincio questo segreto quaderno di lettere all'età di anni undici a seguito di gravissima malattia, ovvero, come ripete la Madre, disgrazia irrimediabile e, come chiosa Immarella, la serva, "nu guaio troppo esagerato".
Tu, che dalle Stelle vedi tutto, di certo conosci la mia casa ma, non volesse il Cielo Ti confondessi con un'altra Belisaria Morales, detta Lisario, per sicurezza aggiungo: abito nel castello di Sua Maestà Cattolicissima di Spagna, Napoli, Sicilia e Portogallo, Filippo IV, Dio lo conservi, locato a Baia, presso la Splendidissima Città di Napoli e, comunque, basta che chiedi e tutti Ti sapranno dire chi è la Figlia Sfortunata che Ti scrive.»
«Sono nato un giorno di inizio estate del 1973, a nove anni.
Fino a quel momento la mia vita, e tutti i fatti che accadevano nel mondo, erano due entità separate, che non potevano incontrarsi in nessun modo. Me ne stavo nella mia casa, nel mio cortile , nella mia città; con i miei genitori, i miei fratelli, i compagni di scuola, i parenti e gli amici - e in un altro pianeta accadevano i fatti che guardavo in televisione. ogni tanto i grandi ne parlavano, del mondo e dell'Italia in particolare; qundi c'era interesse verso quello che accadeva al di fuori della nostra vita. Ma noi tutti, in ogni caso, non c'entravamo niente. E io, ancora meno.»
«L’ascensore saliva con estrema lentezza. Presumo che salisse, cioè. Ma non ne sono affatto sicuro. Era tanto lento da farmi perdere il senso della direzione. Chissà, forse scendeva, o non si muoveva neanche. Nelle circostanze in cui mi trovavo era logico immaginare che stesse salendo. Era solo una supposizione, però. Del tutto priva di fondamento. Magari ero salito di tredici piani e poi sceso di tre, o avevo fatto il giro del mondo ed ero tornato al punto di partenza. Chi poteva dirlo?
Quell’ascensore non aveva nulla in comune col rudimentale arnese installato nel mio condominio, una semplice variante di un secchio da pozzo. I due congegni erano talmente diversi che mi era difficile pensare che fossero stati concepiti per lo stesso fine, che avessero la stessa funzione e venissero chiamati con lo stesso nome. Nella loro categoria, erano praticamente agli antipodi.
Prima di tutto per la grandezza. L’ascensore in cui mi trovavo avrebbe potuto fungere da ufficio, tanto era ampio. C’era posto per una scrivania, degli schedari, un armadio, magari un angolo cottura, e sarebbe ancora avanzato dello spazio. Volendo ci si potevano far entrare pure tre cammelli e una palma di media grandezza. Per non parlare della pulizia! Era lustro come una cassa da morto nuova. Sulle pareti e sul soffitto, in lucente acciaio inossidabile, non una macchia, non un’ombra, e il pavimento era coperto da una folta moquette verde muschio. Inoltre era incredibilmente silenzioso. Quando vi ero entrato le porte si erano richiuse adagio senza far rumore – alla lettera, senza il minimo fruscio – dopodiché non avevo udito piú nulla. Al punto che non capivo nemmeno se la cabina si stesse muovendo o no. I fiumi profondi sono lenti e placidi.
Altra cosa, mancava la maggior parte dei dispositivi di cui normalmente sono provvisti gli ascensori. Tanto per cominciare, non vedevo il pannello dei comandi. Introvabili i pulsanti per scegliere il piano, aprire e chiudere le porte, azionare l’arresto d’emergenza. Insomma non c’era niente. Il che mi metteva estremamente a disagio. Perché oltre ai pulsanti mancavano anche gli indicatori di posizione, la targa con il limite di carico, le norme di sicurezza e il nome del fabbricante. L’uscita d’emergenza non si capiva dove fosse. Un vero e proprio sarcofago. Assurdo che un ascensore del genere avesse ottenuto il certificato di conformità dai vigili del fuoco. Anche gli ascensori, come ogni cosa, devono sottostare a dei precisi criteri.
Osservando quelle mute pareti in acciaio inossidabile, mi tornarono in mente le leggendarie imprese del mago Houdini, che avevo visto da bambino in un film. Legato con parecchi giri di corda, si faceva mettere in un grosso baule stretto da altri giri di robusta catena e buttare giú dalle cascate del Niagara. Oppure calare con tutto l’armamentario nei ghiacci del Mare Artico. Feci un profondo sospiro, e paragonai con calma la situazione in cui mi trovavo a quella di Houdini. Non ero legato, e questo era un punto a mio favore, però ero svantaggiato dal fatto di non conoscere il trucco.
E poi altro che trucco, non sapevo nemmeno se l’ascensore si muovesse o no! Provai a schiarirmi la gola. Ne venne fuori uno strano rumore, molto diverso da quello solito. Un suono attutito, come quando si tira una zolla di terra contro un muro di cemento. Non riuscivo a credere di averlo prodotto io. Per scrupolo riprovai: stesso risultato. Rinunciai a fare altri tentativi.
Rimasi per parecchio tempo in attesa, fermo nella posizione in cui mi trovavo. Niente, le porte non si aprivano. Silenzio e immobilità, la scena sembrava una natura morta dal titolo L’uomo e l’ascensore. Cominciavo ad avere paura.»
«Nella notte di giovedì, una pattuglia della polizia di Grampian, perlustrando il tratto isolato dalla neve sulla A93, tra Braemar e Spittal of Glenshee, ha rinvenuto un’automobile apparentemente abbandonata sul ciglio della strada sotto il Glenshee Ski Centre.
A un esame più attento, è risultato che il conducente privo di sensi era ancora all’interno del veicolo. Gli abiti appartenenti all’uomo di mezza età, che era pressoché nudo, erano sparpagliati all’interno della vettura. Sul sedile del passeggero, accanto a lui, c’erano due bottiglie di whisky vuote.
Il mistero si è infittito quando i poliziotti hanno ispezionato il bagagliaio e hanno trovato due scatoloni contenenti più di 400 spazzolini da denti, e un grosso sacco della spazzatura pieno di cartoline dall’Estremo Oriente.»
«Ingresso
Guarda, dice lei, mostrandomi sul foglio la pianta dell’appartamento. Segue il contorno delle pareti con l’in-dice per qualche secondo, percorre in questo modo il perimetro della sala da pranzo, della cucina, della camera da letto.
Dice che le piace vederla così, la casa. Ancora vuota. Senza i mobili, i letti, gli armadi. Troverà un posto anche per quelli e li aggiungerà al disegno, nei prossimi giorni. Ma intanto, dice, le piace vedere gli spazi sgombri. Dice che in questo modo ci si rende conto di cosa sia davvero una stanza: una porzione di vuoto che cerchiamo di costringere dentro quattro mura. Pezzi di vuoto sistemati in sequenza.
A volte penso che anche le persone siano così, dice. Vicine una all’altra, ma separate da mura invisibili. Rimane in silenzio per un po’, con gli occhi fissi sul di-segno. Forse si aspetta che risponda qualcosa.
Alzo lo sguardo. Le pareti sono così bianche da dare quasi fastidio agli occhi. Solo ora penso che questo deve es-sere uno di quei nuovi uffici che hanno costruito in questa zona della città. Sembrano cresciuti dal nulla, spuntati come strane piante di cemento dalla terra.
Lei mi guarda.
Dovrei dire qualcosa, invece mi limito a fare qualche passo indietro. Il parquet scricchiola sotto le suole. Sembra l’unico rumore, qui dentro.»
«Adesso sarebbe bello dormire finché i sogni non diventano cielo, un cielo sereno e senza vento, qualche piuma d’angelo che scende volteggiando a terra, per il resto nient’altro che la beatitudine di chi vive ignorando se stesso. Ma il sonno fugge i defunti. Quando chiudiamo i nostri occhi fissi, sono i ricordi ad aggredirci, non il sonno. Prima arrivano isolati, e perfino piacevoli e argentei, poi però non tardano a mutarsi in una nevicata scura e soffocante, e così è da oltre settant’anni. Il tempo passa, la gente muore, il corpo sprofonda nella terra e altro non sappiamo. Del resto qui c’è poco cielo, le montagne ce lo rubano, e le tempeste, amplificate da quelle stesse cime, sono nere come la fine del mondo. Ma a volte quando il cielo si schiarisce dopo una tormenta, ci sembra di vedere la bianca scia degli angeli, lontano, al di sopra delle nubi e dei monti, sopra gli errori e i baci degli uomini, una scia bianca come la promessa di un’immensa beatitudine. »
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