L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«Rosa fresca aulentissima
Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del popolo minuto, uno dei testi primi del teatro parodistico-grottesco satirico, è Rosa fresca aulentissima di Ciullo – o Cielo – d’Alcamo.
Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo?
Perché è il testo più mistificato che si conosca nella storia della nostra letteratura, in quanto mistificato è sempre stato il modo di presentarcelo.
Al liceo e al ginnasio, quando ci propongono quest’opera, di fatto ci propinano una vera e propria truffalderia. Prima di tutto ci fanno credere che si tratti di un testo scritto da un autore aristocratico, probabilmente un letterato-poeta alla corte dell’imperatore Federico II di Svevia, che, pur usando il volgare, si è dimostrato talmente dotato da riuscire a tramutare «il fango in oro». Egli ha trasformato un tema bassamente triviale, una situazione rasentante l’osceno, come il dialogo che prelude a un amplesso d’amore carnale, in una poesia sublime e «culta», propria della «classe dominante».»
«LUI voleva un attimo di silenzio invece dell'autoradio, e di conseguenza potrebbe essere stato per colpa sua. Lei voleva far entrare aria fresca al posto di quella condizionata, quindi potrebbe essere stata sua la colpa. Il fatto è che senza entrambe le cose non avrebbero mai sentito il bambino e quindi si trattò di una combinazione di cause, in perfetto stile Cal e Becky, visto che avevano passato le loro intere esistenze appiccicati insieme. Cal e Becky DeMuth, nati a diciannove mesi di distanza. I genitori li chiamavano i gemelli siamesi.»
«Ci sono cose che cominciano prima di altre.
Quel giorno cadeva un acquazzone estivo che però assomigliava più a una tempesta invernale.
Seduta al riparo di una siepe, Miss Perspicacia Tick analizzava l'universo. La pioggia la lasciava del tutto indifferente, poiché le streghe fanno in fretta ad asciugarsi.
Gli strumenti che le permettevano di indagare l'universo erano un paio di ramoscelli legati con uno spago, un sasso con un foro in mezzo, un uovo, una calza bucata, una spilla, un foglio di carta e un mozzicone di matita. A differenza dei maghi, le streghe sanno cavarsela con poco.
Gli strumenti erano stati legati e avvolti insieme al fine di farne un congegno che, se sollecitato, produceva uno strano movimento. Uno dei bastoncini, ad esempio, sembrava passare attraverso l'uovo e uscirne dalla parte opposta senza lasciare traccia.
- Sì - disse sottovoce Miss Perspicacia Tick mentre la pioggia scrosciava dalla tesa del suo cappello.
- Eccola lì! Un'inequivocabile increspatura sulle pareti del mondo. Assai allarmante. Potrebbe trattarsi di un mondo parallelo che tenta di stabilire un contatto con il nostro. La qual cosa non è mai un bene. Dovrei fare un salto a vedere, ma… stando al mio gomito sinistro, là una strega ce l'hanno già…
- Se ne occuperà lei, allora - replicò una vocina misteriosa che proveniva da un punto non ben localizzato ai suoi piedi.
- No, non può essere! Da quella parte c'è il paese di gesso - replicò Miss Tick. - Sul gesso, che è a malapena più solido dell'argilla, è impossibile allevare bene una strega. Per tirare su una strega con tutti i crismi ci vuole una bella roccia dura, dammi retta!
- Miss Tick scosse la testa, mandando schizzi di pioggia in tutte le direzioni. - Di solito, dei miei gomiti ci si può fidare a occhi chiusi.»
«Nei giorni di cielo coperto Robert Neville non era mai sicuro del tramonto del sole e capitava che loro uscissero in strada prima del suo rientro.
Se fosse stato più analitico, avrebbe saputo prevedere il loro arrivo con una certa approssimazione; ma si ostinava a mantenere l'abitudine di tutta una vita di calcolare il calar delle tenebre guardando il cielo, un metodo che nelle giornate nuvolose non funzionava. Ecco perché in quelle occasioni non si allontanava mai troppo.»
«Si dormiva in quella che un tempo era la palestra. L'impiantito era di legno verniciato, con strisce e cerchi dipinti, per i giochi che vi si effettuavano in passato; i cerchi di ferro per il basket erano ancora appesi al muro, ma le reticelle erano scomparse. Una balconata per gli spettatori correva tutt'attorno allo stanzone, e mi pareva di sentire, vago come l'aleggiare di un'immagine, l'odore acre di sudore misto alla traccia dolciastra della gomma da masticare e del profumo che veniva dalle ragazze che stavano a guardare, con le gonne di panno che avevo visto nelle fotografie, poi in minigonna, poi in pantaloni, con un orecchino solo e i capelli a ciocche rigide, puntute e striate di verde. C'erano state delle feste da ballo; la musica indugiava, in un sovrapporsi di suoni inauditi, stile su stile, un sottofondo di tamburi, un lamento sconsolato, ghirlande di fiori di carta velina, diavoli di cartone e un ballo ruotante di specchi, a spolverare i ballerini di una neve lucente. Sesso, solitudine, attesa di qualcosa senza forma né nome. Ricordo quello struggimento per qualcosa che stava sempre per succedere e non era mai la stessa cosa, come le mani che c'erano addosso lì per lì, nel piccolo spazio dietro la casa, o più in là nel parcheggio, o nella sala della televisione col sonoro abbassato e soltanto le immagini, guizzanti sulla carne tesa. Ci struggevamo al pensiero del futuro. Come l'avevamo appresa, quella disposizione all'insaziabilità? Era nell'aria; e restava ancora nell'aria, un pensiero persistente, mentre si cercava di dormire, nelle brande militari che erano state disposte in corsie, con molto spazio tra l'una e l'altra, così che non si potesse parlare.»
«È un banco di prova essenziale, per me. Lasciare ai ragazzi la libertà di scrivere quello che gli pare li mette di fronte ad uno specchio.
«Possiamo scrivere davvero quello che ci pare?» mi ha chiesto Paletta, l’aria perplessa di chi si sente preso per il culo. Aveva la bocca più grande che avessi mai visto, occhi furbi su faccia allungata.
«Quello che vi pare» ho confermato.
«Possiamo parlare della nostra vita?» ha domandato Rosemary. Occhi da cerbiatta, pelle abbronzata.
«È un tema libero.»
«E se non ci viene in mente niente?» ha obiettato Riboldi, dal fondo dell’aula. Dinoccolato, capelli rasati a zero. Faccia di chi si è appena alzato dal letto.
«Potete scrivere di qualunque cosa. E adesso basta con le domande: mettetevi al lavoro.»
Ventiquattro teste si sono abbassate sui banchi.
Il sole di settembre entrava dalla finestra aperta, insieme ai colpi di clacson. L’aula era simile a tutte le altre: muri scrostati, un armadietto di metallo nell’angolo, gli attacchini per i cappotti.
Marco Carboni era un ragazzo anonimo, infilato dentro una t-shirt blu. Un robino magro, né alto né basso. Riccioli scuri, naso schiacciato, occhi che sembravano altrove. Gli avevo lanciato un paio di sguardi sonda, non ricambiati. Se ne stava abbarbicato al foglio, tutto sghembo. Pareva volesse indossarlo, quel foglio protocollo. Aveva un modo strano di impugnare la penna, come se stesse disegnando invece che scrivere. Calligrafia minuscola, ordinata. È stato l’ultimo a consegnare. Gli altri hanno prodotto dalle tre alle quattro facciate. Marco Carboni ha riempito quattro fogli protocollo, in meno di due ore.
Ho osservato quel mare di parole. Il tema più lungo che avessi mai visto. «Ne avevi di cose da dire.»
Lui non ha sorriso. Si è limitato a guardarmi, né ironico né strafottente.
È stato quello sguardo a farmi capire. Non era un’ombra grigia su fondo scuro. Non riuscivo a inquadrarla, la sua diversità; ma stava lì, spalmata su quella faccia asimmetrica.
È tornato al posto con passo lento, impacciato.
Quella sera, entrando in cucina, ho sorpreso Billo col muso nello stracchino.
Billo era il nostro gatto, un certosino di sei chili e mezzo. Si aggirava per casa con la grazia di un pachiderma, inciampando in qualunque cosa trovasse lungo il cammino. Mia moglie aveva lasciato per mezzo minuto quel panetto di formaggio sul tavolo; Billo si era arrampicato, ci aveva affondato il muso, più incuriosito che affamato. Quando aveva sentito il rumore dei miei passi era troppo tardi per saltare giù. Si è fatto beccare coi baffi e il naso impiastricciati, in flagranza di reato. Mi ha rivolto uno sguardo imbarazzato, da non è come sembra.Mi sono bloccato sulla soglia e ho cominciato a ridere. Marilena ha seguito le mie risate, si è affacciata dalla sala per venirmi a salutare. Ha visto il muso sporco di stracchino di Billo e aperto la bocca per lanciare un urlo dei suoi. Poi ha scosso la testa, fissando quell’enorme massa di pelo grigio con aria rassegnata.
«Ma tu guarda» ha detto.
Io non ho detto niente, continuavo a ridere.
Billo ci ha fissati risentito: non si aspettava di essere messo alla berlina. È sceso dal tavolo con grande fatica, trotterellando via con finta disinvoltura. Sul tavolo è rimasto il panetto di stracchino, mezzo devastato dall’incursione del gatto. Marilena lo ha appoggiato per terra, nell’angolo in cui mangiava Billo. È andata a lavarsi le mani, senza smettere di scuotere la testa. Sul fuoco stavano cuocendo i ravioli, c’era un buon profumo di zucca. Ho guardato la nostra piccola cucina, dentro la luce bianca del lampadario Ikea: il calendario di Frate Indovino, le calamite a forma di animali attaccate al frigo, l’orologio da parete quadrato col bordo laccato di rosso, la piccola televisione incassata ad angolo, sopra il mobiletto di canapa saturo di riviste. Mi piaceva quella casa, per quanto piccola e rumorosa. Mi piaceva la mia vita.»
«E' l'estate del 1938. La città, in questi giorni, è soffocante e polverosa. Basta! Finalmente si va al mare. Da quando il Duce ha comprato Villa Margherita, poi, tutto è cambiato. Riccione è un fiorire di feste e, in spiaggia, non si aspetta altro che Lui arrivi col suo idrovolante bianco. Mamma Matilde, poi, da quando Lui le baciò la mano fissandola dritto negli occhi, lo aspetta sognante. Villa Margherita, ora Mussolini, è a pochi passi da casa Matatia. Tutti i giorni è un brulicare di ospiti famosi, anche stranieri. E' facile, però, incontrare Romano e Vittorio, soprattutto in spiaggia. Hanno all'incirca la stessa età di Nino, Roberto e Camelia e talvolta ridono, scherzano e si divertono com'è giusto tra ragazzi della loro età. Villa Matatia non è grande, ha però un bel giardino che si prolunga sino alla spiaggia. Nissim la comprò nel 1930; era per tutti un punto d'arrivo importante"»
«E da presso e da lungi
io udiva il clamore,
io udiva gli ululi e i lagni
orribili della gran doglia
nella Città millenaria.
E il clamore era come
di femmina partoriente
che si torca in spasimo grande
e morda la verde sua bava
e dia del capo e dei pugni
nelle mura e invochi soccorso
alla doglia sua, vanamente,
negli orrori suoi solitaria.»
«Fu un'estate bizzarra e afosa quella in cui morirono sulla sedia elettrica i Rosenberg. Che cosa mai facessi, allora, a New York, non lo sapevo davvero: divento proprio una stupida quando si esegue una condanna. L'idea stessa dell'esecuzione sulla sedia elettrica mi fa venire la nausea e sui giornali non si leggeva altro; da ogni angolo di strada, da ogni sbocco di sottopassaggio maleodorante di noccioline e di muffa, i titoli dei quotidiani mi piantavano addosso i loro occhi sbarrati. Io non c'entravo per niente, ma non potevo fare a meno di chiedermi che cosa si provasse a morire bruciati, tutti i nervi bruciati. Secondo me era la cosa peggiore al mondo. A New York si stava abbastanza male già alle nove di mattina l'ingannevole frescura proveniente dall'umida campagna, che in certo qual modo riusciva a filtrare in città durante la notte, svaporava come l'estremo lembo di un dolce sogno. Simili a grigi miraggi in fondo a canyons di granito le strade ardenti ondeggiavano nel sole, le capotes delle automobili sfrigolavano e abbagliavano e una polvere secca, cinerea, mi volava dentro gli occhi e giù per la gola.»
«Da viaggiatrice clandestina appena fuggita dal paese natio né potevo né osavo respirare, schiacciata com'ero contro la parete del corridoio maleodorante di un vecchio treno freddo e stracolmo. La moltitudine babelica, che sapeva di miseria e fame, di vita salvata come la mia, si spintonava con brusca prepotenza per qualche centimetro di spazio per i piedi. Eli, cognato di mia Zia Monika, incaricato di condurmi da lei e di custodirmi fino all'arrivo, mi stava troppo addosso - per caso? - o premeva intenzionalmente contro il mio corpo di quindicenne a ogni scossa dello scompartimento e al passaggio quasi impossibile di qualcuno alla ricerca affannosa del bagno, che era sotto il mio sguardo vigile e rappresentava l'unico rifugio all'avvisaglia di un controllo.»
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