30 novembre 2013

Speciale Premio Nobel: La festa del caprone - Mario Vargas Llosa

Nel 2010 il Premio Nobel per la letteratura viene assegnato allo scrittore peruviano, naturalizzato spagnolo, Mario Vargas Llosa, "per la sua cartografia delle strutture del potere e la sua tagliente immagine della rivolta, della resistenza e della sconfitta dell'individuo". Personaggio eclettico ed esuberante, inizialmente vicino alla sinistra dalla quale si distaccherà del tutto, alterna l'impegno letterario a quello civile, fino ad arrivare a candidarsi alle presidenziali peruviane del 1990, dalle quali esce sconfitto da Alberto Fujimori. Proprio questa sconfitta lo spingerà a prendere nel 1993 la nazionalità spagnola, in aperta polemica con la politica nazionale.


Jorge Mario Pedro Vargas Llosa nasce il 28 marzo del 1936 ad Arequipa, una città del Perù meridionale, in una famiglia creola del ceto medio. Vive fin da giovanissimo esperienze oltre i confini del suo Paese: cresce in Bolivia, studia Lettere e Giurisprudenza presso l'Universidad Nacional Mayor de San Marcos. Vargas Llosa oltre che scrittore, come numerosi altri autori latinoamericani è particolarmente attivo politicamente. Negli anni cinquanta si dichiara vicino a Fidel Castro e alle sue idee, per poi però distanziarsene e criticarle. Tale gesto gli causa forti attriti con l'amico-nemico Gabriel García Márquez, apertamente di sinistra, sul quale Vargas Llosa nel 1971 aveva scritto una tesi di dottorato. I due, in seguito a tali divergenze, recidono del tutto i propri rapporti di amicizia, in un clima di tensione mai successivamente sopito. Mario Vargas Llosa inizia la propria carriera letteraria nel 1959 con una raccolta di racconti, ma il successo giunge nel 1963 col romanzo La ciudad y los perros (La città e i cani, pubblicato in Italia nel 1967), ambientato nell'accademia militare di Lima, di cui l’autore era stato allievo dai 14 ai 16 anni. Il libro ottiene un grande successo soprattutto in Europa, ma in Perù viene inizialmente bruciato perché considerato dissacrante. In questo suo primo romanzo Vargas Llosa utilizza una tecnica quasi cinematografica in cui narrazione e sovrapposizioni di tempi e piani si alternano e che caratterizzerà buona parte della sua opera successiva. La medesima tecnica narrativa è riutilizzata anche nel secondo romanzo La casa verde (1966), in cui le vicende di una casa chiusa a Piura diventano l’occasione per dar visibilità alle molteplici voci che animano il Perù: la cultura europea delle città vicino alla costa e la civiltà primitiva degli Indios, ancora all'età della pietra ma in grado di seguire i ritmi imposti dalla natura. Grazie a questo romanzo Vargas Llosa è nel 1967 il primo vincitore del neo-istituito premio venezuelano per la narrativa di lingua spagnola, il prestigioso Premio Rómulo Gallegos. La casa verde rimane nel cuore e nella mente dello scrittore peruviano poiché gli ricorda il periodo della sua infanzia vissuta a Piura ma anche i suoi esordi da scrittore a Parigi (dove per la prima volta aveva iniziato a dare vita agli uomini e alle donne della Casa Verde), come egli stesso racconta nel corso della conferenza Historia secreta de una novela, tenuta nel dicembre del 1968 alla Washington State University.
La guerra del fin del mundo del 1981 è considerata una delle opere più importanti di Vargas Llosa, in cui lo scrittore amplia il proprio orizzonte a tutta l’America Latina e si serve del romanzo storico per porre l’accento sul contrasto tra l’anima occidentale e quella indigena del continente. In questo romanzo si ripercorrono le vicende del movimento millenarista del profeta brasiliano Antônio O Conselheiro (Antonio Il consigliere); la vicenda, poco nota al di fuori dei confini del Brasile, diventa l’occasione per condurre una lucida analisi dei contrasti fra la società costiera nello stato di Bahia, prevalentemente intellettuale e progressista, e la popolazione più arretrata e conservatrice dell'interno.
Vargas Llosa non si sottrae neanche al confronto con la realtà contemporanea del suo paese e in diversi romanzi (Historia de Mayta, 1984; Quién mató a Palomino Molero?, 1986; Lituma en los Andes, 1993) affronta il tema del terrorismo e della dittatura (la storia recente del Perù è stata caratterizzata dallo scontro tra lo stato e due gruppi armati di sinistra: i militanti maoisti di Sendero Luminoso e il Movimiento Revolucionario Túpac Amaru).
Nel 2000 pubblica l’altro grande romanzo a sfondo storico della sua produzione narrativa: La fiesta del chivo (La festa del caprone), incentrato sulla vicenda politica del feroce dittatore dominicano Rafael Leónidas Trujillo, che ha governato ininterrottamente la Repubblica Dominicana dal 1930 al 1961.
I romanzi degli ultimi anni (El Sueño del Celta, 2010; El héroe discreto, 2013) ritornano all'ambientazione peruviana dei romanzi giovanili. 


Nel 1961 un gruppo di dominicani decide di uccidere in un agguato il dittatore Rafael Leónidas Trujillo, il «Caprone», padrone assoluto di Santo Domingo, violentatore e paternalista, che da trent'anni controlla le coscienze, i pensieri, i sogni dei cittadini... Molti anni dopo, Urania Cabral, figlia dell'ex presidente del Senato Agustin Cabral, professionista di successo, torna nella Santo Domingo che ha lasciato quattordicenne. Per chiudere i conti con un passato impossibile da rimuovere? Per vendicare torti e sofferenze? Per amore della sua terra, delle sue radici?

Recensione

Il romanzo si snoda attraverso tre linee narrative. La prima, quella che apre il romanzo, ha la voce di Urania Cabral, affermata professionista che ha lasciato Santo Domingo all’età di quattordici anni e vi torna dopo 34 senza un motivo specifico. Forse, dopo tanti anni, è pronta a fare i conti con il proprio passato e i suoi passi, durante l’abituale corsa mattutina, la portano sulla soglia della vecchia casa di famiglia, dove vive ancora il padre Agustin Cabral, ex Presidente del Senato ai tempi di Trujillo, immobilizzato a causa di un ictus e con il quale aveva interrotto tutti i contatti dal giorno della partenza per gli Stati Uniti. Urania, nel corso della sua lunga giornata, si ritrova anche a parlare con nostalgici anziani e con giovani che hanno mitizzato il periodo della dittatura ricordando con nostalgia che tutti lavoravano e non c’era microcriminalità; l’orrore è diventato mito, si trova a pensare una stupefatta Urania che ricorda bene la mancanza di libertà, anche nella propria vita personale, imposta da regime di Trujillo.

La narrazione di Urania si alterna a capitoli i cui protagonisti sono il gruppo di dominicani che ha organizzato, e poi portato a termine, l’attentato a Trujillo. Li troviamo seduti in macchina, a fari spenti, con le pistole in mano, mentre aspettano l’auto del Chivo (in spagnolo “caprone”, il nomignolo con cui era indicato da amici e nemici Trujillo) che dovrebbe passare proprio da quel punto per recarsi nella sua casa di Caoba, fuori Santo Domingo (o meglio Ciudad Trujillo, come era stata ribattezzata), luogo destinato ai festini del Capo o all’incontro con i suoi fedelissimi per predisporre quelle azioni di violenza o di pubblico linciaggio che avevano permesso al dittatore di restare in carico per trent'anni. Il racconto non termina con la morte di Trujillo perché Vargas Llosa ci racconta cosa accadde dopo l’attentato sino a ricongiungersi idealmente alla passeggiata che trentaquattro anni dopo Urania farà per Santo Domingo, dove quegli uomini sono diventati eroi anonimi cui dedicare vie e piazze.

La terza linea narrativa segue Trujillo in quella che sarà la sua ultima giornata di vita, dalla sveglia alle quattro del mattino sino alla corsa in automobile verso la casa di Caoba ed è proprio nella figura del Chivo che, secondo me, Vargas Llosa mostra tutta la sua bravura nel delineare i personaggi nella loro sfera motivazionale. Trujillo è descritto dall'autore senza alcuna valutazione estrinseca alle sue azioni (era un mostro crudele o un salvatore della patria che non si poneva il problema dei mezzi con cui raggiungere il fine ultimo?), l’unico punto di vista riportato è quello dello stesso protagonista: tutte le azioni, anche le più riprovevoli, commesse da Trujillo sono descritte come inevitabili, perché a raccontarle è lo stesso protagonista. Questa soluzione stilistica, che aveva già trovato magistrale applicazione in La guerra della fine del mondo, non ha né risultati caricaturali né tanto meno l’effetto di coprire di un’aura di simpatia il Chivo, che era e rimane un dittatore. Il risultato è un racconto profondamente onesto (nel senso che Trujillo appare sincero nelle sue spiegazioni) come quello che potrebbe venir fuori da una lunga esperienza psicoanalitica. Nessun compiacimento nel narratore ma la convinzione che solo con l’omicidio era possibile fare uscire di scena quell'uomo così carismatico che, nonostante tutti gli orrori commessi, aveva saputo soggiogare e affascinare un intero popolo per trentuno anni.

Oltre all'assenza della voce diretta ed esplicita dell’autore (di cui non conosciamo l’opinione), altro elemento degno di nota del libro è la soluzione narrativa di annullare la distanza temporale: non c'è soluzione di continuità tra il presente e il ricordo di eventi passati. I protagonisti iniziano a raccontare, o ricordare, eventi passati e dopo qualche riga i verbi utilizzati scivolano dal tempo passato al presente, i ricordi prendono vita e i fatti accaduti si svolgono lì davanti agli occhi di chi narra e di chi ascolta. L’arresto di un fratello, la violenza perpetrata a una compagna di classe, l’eliminazione violenta di migliaia di haitiani  non sono ricordi alleggeriti dal tempo, ma fatti che conservano ancora tutta la loro forza e la loro carica emotiva, come se si stessero svolgendo dentro l’auto o in un angolo della sala del ricco banchetto dato da Trujillo in onore dei suoi amici.

La festa del caprone porta con sé altre considerazioni, quali il ruolo degli Stati Uniti nella politica dell’America Latina o quali siano i valori che la politica deve perseguire, ma si tratta di tematiche ampie che vanno bel al di là della discussione su questo libro con l'indubbio merito di far riflettere i lettori riguardo il proprio presente.

Giudizio:

+5stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: La festa del caprone
  • Titolo originale: La fiesta del Chivo
  • Autore: Mario Vargas Llosa
  • Traduttore: Glauco Felici
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 2011
  • Collana: Super ET
  • ISBN-13:9788806207793
  • Pagine: 467
  • Formato - Prezzo: Brossura – 14,00 Euro 

Speciale Premio Nobel: L'africano/Il ritornello della fame - Jean-Marie-Gustave LeClézio

Nel 2008 il premio Nobel per la letteratura viene assegnato allo scrittore di origini franco-mauriziane, nato da famiglia bretone, Jean-Marie Gustave LeClézio, in quanto "autore di nuove partenze, avventura poetica ed estasi sensuale, esploratore di un'umanità al di là e al di sotto della civiltà regnante".


Jean-Marie Gustave LeClézio proviene da una famiglia piuttosto girovaga, originaria della regione francese della Bretagna, che si trasferì nel 1798 nel dominio coloniale di Mauritius per fare poi ritorno in madrepatria. Qui lo scrittore è nato, a Nizza, nel 1940, mentre il padre prestava servizio come medico coloniale nei possedimenti britannici africani, in Nigeria, dove il resto della famiglia lo raggiunse nel 1948, dopo aver passato i primi anni dell'infanzia nel piccolo villaggio provenzale di Roquebilliere.

Dopo aver studiato nell'ateneo inglese di Bristol e nell'Università di Provenza iniziò una carriera di insegnante negli Stati Uniti, per poi prestare servizio militare in Thailandia nel 1967 e spostarsi ancora, dopo esserne stato espulso per l'impegno contro la prostituzione infantile, nel Centro-America, dedicandosi allo studio di linguaggi, tradizioni e cultura dei Maya e arrivando a vivere tra il 1970 e il 1974 con un tribù di indios panamensi.
Il suo percorso di studio si è diretto in modo particolare verso la valorizzazione di culture tribali originali, spaziando dalle civiltà mesoamericane a quelle dell'isola mauriziana, fino alle ricerche sullo sciamanesimo sud-coreano, e trasferendosi a insegnare anche presso l'università femminile coreana di Ewha.
Ha diviso la sua carriera tra la docenza universitaria in varie cattedre, tra Boston, Austin, Bangkok e Albuquerque, e la scrittura, che, a partire dall'età di sette anni non ha mai abbandonato, pubblicando il primo romanzo nel 1963, Il verbale, con il quale ha anche ottenuto il Prix Renaudot.
In effetti la sua produzione di saggista e romanziere è stata continua, complessa e stratificata, caratterizzata dall'intreccio indissolubile tra studi quasi etnografici, interessi per culture folkloriche periferiche e ricerca delle origini, anche in senso autobiografico e familiare.
Dopo un primo periodo, durato all'incirca fino al 1970,  nel quale aderisce alle ricerche formali della corrente del 'nouveau roman' di Alain Robbe-Grillet, la sua ispirazione trova la svolta e acquista una voce più completa e originale nell'esplorazione di mondi marginali anche come opposizione alle brutture della società moderna, più volte descritta e contestata in romanzi come La Guerra, Il cercatore d'oro (sul conflitto subsahariano nel Biafra), o il più recente Urania, ambientato in una sperduta vallata messicana.
Non è un caso che questa venatura girovaga, quasi picaresca, e sensibilissima ai miti delle origini si concretizzi anche con un matrimonio, nel 1975, con la seconda moglie Jemia Jean, marocchina del Sahara Occidentale, insieme alla quale ha scritto una raccolta di racconti mauriziani, e ha ricevuto nel 2010 l'onorificenza dell'Ordine dell'Aquila Azteca dal presidente messicano Felipe Calderon in riconoscimento dei suoi studi sulla civiltà precolombiana di Michoacan.
Nella sua opera, come nella sua vita, la protesta e il vagabondaggio inteso come fonte di incroci culturali sono sempre presenti e solo nell'ultima fase della produzione l'interesse si focalizza, virando verso sfumature anche amare e nostalgiche, sulla propria storia famigliare, anch'essa, come abbiamo visto, composita e sparpagliata nello scacchiere della globalizzazione.
Per questo motivo la scelta dei due brevi romanzi presentati di seguito - L'africano, del 2004, e Il ritornello della fame, uscito poco prima di ricevere il premio dell'Accademia di Svezia nel 2008 - racchiude bene il suo sforzo di trasfigurare anche nella propria storia le vicende della mondializzazione e la ricerca delle origini, visto che in essi l'autore racconta il suo vissuto personale nei confronti del padre e della madre.


Nel 1948, a otto anni, J.M.G. Le Clézio lascia Nizza, la sua città natale, e con la madre e il fratello parte per la Nigeria, dove il padre, che non ha mai conosciuto, è medico nell'esercito britannico. Inizia così uno straordinario viaggio che, più di cinquant'anni dopo, sarà oggetto di questo libro. Le Clézio racconta il continente nero attraverso gli occhi di un bambino che entra in contatto con un mondo dove tutto - natura, sole, temporali, insetti "esiste" con intensità e violenza, un mondo che gli regala una sensazione di libertà fisica e mentale per lui fino a quel momento sconosciuta. Fondamentale è l'incontro con il padre, uomo duro, abituato alla solitudine cui lo ha costretto la guerra. È dalla prospettiva del bambino che viene descritta la sua severità, il suo modo di vestire e i tentativi di ricuperare il tempo perduto con i figli. E sempre dalla stessa prospettiva emerge l'ammirazione verso quest'uomo misterioso, cui Le Clézio tenta di "avvicinarsi" per tutto il libro. Ad accompagnarlo nella sua indagine ci sono le foto scattate proprio dal padre, immagini piene di suggestione, non professionali e, forse per questo, assolutamente autentiche.

Recensione

L'africano è il breve diario dell'incontro di Le Clézio bambino con il padre, uomo severo, che ha vissuto per scelta in una condizione di isolamento e insieme di impegno in quelli che erano i margini dell'impero coloniale britannico, come medico di frontiera. Il motivo della scelta paterna è abbastanza significativo del suo carattere: appena laureato in Inghilterra prende servizio in una cittadina di mare e viene redarguito da un superiore per non avergli presentato il suo biglietto da visita appena arrivato in città. Come reazione Le Clèzio padre decide di prendere l'occasione, evidentemente non troppo ambita, di trasferirsi in servizio nel nulla ai confini tra Nigeria e Camerun.

Dopo un tentativo, fallito per via della II Guerra Mondiale, di ricongiungersi alla famiglia rimasta in Francia, il padre si fa raggiungere da moglie e figli nel 1948, quando lo scrittore ha già otto anni. In questo breve diario Le Clézio parte dall'immagine tarda del padre in pensione, tornato in Francia, che non sa, e non vuole neppure fino in fondo, rinunciare allo stile di vita 'africano', per tornare a ritroso a quei giorni della sua infanzia e ritrovare, nel cuore dell'Africa subsahariana, insieme il rapporto con la figura paterna e con le sue origini.

In questo senso dalla prospettiva del bambino le due immagini, il continente nero e il padre, sembrano quasi sovrapporsi e raggiungere una sorta di riconciliazione serena e leggermente venata di quella nostalgia che si può immaginare nel guardare indietro alla propria infanzia e avere nel contempo la visione di un proprio genitore ormai entrato nella vecchiaia.

Del padre viene descritta la severità, il suo modo di vestire e i tentativi di ricuperare il tempo perduto con i figli in una serie di aneddoti che portano la ricerca, tra presente e ricordo, sempre più verso l'interno della coscienza. E sempre più emerge un senso di serena e malinconica pacificazione verso quest'uomo misterioso, cui Le Clézio tenta di "avvicinarsi" per tutto il libro, fondata nella comprensione che in un altrove del tempo e dello spazio, l'Africa dei giorni in cui era bambino, affondano le radici di una ricerca che l'autore ha poi seguito per tutta la vita, da scrittore e da saggista, quella delle origini di popoli e tradizioni, del rispetto dignitoso e fermo, forse in apparenza anche scostante, per la diversità e la lontananza, fisica e spirituale.

Alcune foto scattate proprio dal padre, dall'archivio privato di Le Clézio, illustrano questo percorso della memoria e rendono ancora più efficaci gli aneddoti in cui si struttura, senza soluzione di continuità, la narrazione. Nel loro bianco e nero autentico si sentono i colori di questo mondo un po' dimenticato e un po' troppo lontano, fatto di piccoli villaggi di capanne di fango come Ogoja e Kano, di ospedali e ambulatori di emergenza, di privazioni vissute con la gioia semplice che solo un bambino o un idealista possono avere, di corse a piedi nudi nel fruscio dell'erba alta della savana, delle stoffe sgargianti dei vestiti delle donne e dei costumi tribali.

Il risultato è una ricostruzione biografica della vita del padre, commovente nello stile asciutto e distaccato, quasi fosse un saggio più che un diario personale, in cui emerge forte e sereno, pur nelle asprezze del carattere e del territorio, l'amore per le proprie radici.

Giudizio:

+4stelle+

Nella Parigi degli anni Trenta, Ethel Brun, “figlia unica di una famiglia in guerra, tra le mura di una casa in pericolo”, percorre l'età inquieta dell'adolescenza. Una famiglia di coloni, la sua, arrivata dall'isola di Mauritius per mescolarsi alla ricca borghesia della capitale, senza riuscire a dimenticare l'indolenza e gli eccessi, i profumi penetranti e i colori della terra a cui appartiene.
A tredici anni, Ethel incontra Xenia, figlia di esuli russi, e davanti al suo sguardo azzurro e fiero conosce per la prima volta la vertigine del desiderio e della diversità. A quindici, nel vacuo brusio delle chiacchiere da salotto, sente risuonare con insistenza il nome di Hitler – l'uomo che arginerà la minaccia bolscevica – e stringe una silenziosa alleanza di sguardi con il timido Laurent, senza sapere che di lì a pochi anni i loro destini si legheranno in modo indissolubile. Ma quando lo spettro dell'occupazione si allarga sulla Francia e i Brun sono costretti a sfollare a Nizza, Ethel sperimenta abissi ben più tormentosi della voracità della giovinezza: quelli della miseria e del bisogno, che le accenderanno in corpo una tenacia insospettata, la forza di sopravvivere in un mondo che va a fuoco sotto i suoi occhi.

Recensione

Il cantiere destinato a rimanere incompiuto in Rue de l'Armorique a Parigi, che lo zio Soliman mostra orgoglioso alla piccola Ethel, è quello della casa color malva che l'anziano rimpatriato di Mauritius decide di lasciare alla piccola nipote, come sostegno contro l'incapacità del padre di Ethel, Alexandre Brun, di gestire il patrimonio di famiglia.

Se in L'africano Le Clézio aveva indagato il lato paterno delle origini, quasi in forma di saggio biografico, in questo che è un vero e proprio romanzo, lo scrittore ne esplora l'altro ramo, quello materno, legato strettamente all'esotismo delle radici mauriziane, che lui stesso ha dichiarato di sentire come una seconda patria rispetto alla Francia.

La famiglia Brun è raccontata dal punto di vista, anche qui, di una bambina che cresce.
Il clan tornato da Mauritius con una posizione finanziariamente brillante frequenta i salotti buoni della capitale francese del periodo tra le due guerre e i due genitori, Alexandre e Justine, la cui vita coniugale è funestata da un rapporto adulterino del padre con una donna di spettacolo, Maude, mantengono uno stile di vita dispendioso, nonostante i continui rovesci economici paterni che ne assottigliano sempre più il patrimonio.
Nello sguardo di una bambina questo ambiente è rappresentato dai pranzi affollati della domenica, in cui ascolta i discorsi dei grandi che parlano di politica, e in cui si affaccia la figura dell'emergente cancelliere tedesco, visto con favore come argine contro il bolscevismo, e li riporta come se fossero una lista di luoghi comuni e banalità da conversazione perbenista del dopopranzo.
Quasi nell'ombra, un po' in disparte, Ethel cresce e trova un primo legame con una ragazza di origini russe, un'aristocratica fuggita dalla rivoluzione d'ottobre, Xenia, con cui impara a bere il the forte che l'amica, la cui famiglia vive in condizione di povertà lavorando per un laboratorio di sartoria, porta nei freddi giorni invernali in una bottiglia coperta di panni per mantenerlo caldo.
Quando questo legame viene meno perché, come capita nell'adolescenza, le amicizie spesso si perdono per strada spontaneamente, Ethel si trova da sola ad affrontare lo sfacelo finanziario della famiglia, dopo che la madre Justine ha evitato di contrastare le follie del padre per mantenerlo legato al talamo, e deve assistere anche alla perdita del terreno di Rue de l'Armorique, che viene perso in seguito al fallimento nella costruzione di un palazzo dal nome esotico di 'Tebaide'. A poco a poco mentre il mobilio della casa dei Brun viene portato via per pagare i creditori e molti parigini, tra cui la famiglia stessa di Ethel, vengono costretti a lasciare la città su cui incombe l'ombra della svastica nazista - ormai la II Guerra Mondiale ha già trovato nella Francia occupata la sua prima illustre vittima -, quella che è ormai una giovane donna scopre la forza della fame.

La sua forza e il desiderio di vivere si materializzano nell'immagine della fuga verso le coste provenzali in cerca di rifugio, a bordo di una vecchia macchina, la De Dion da tempo dismessa per risparmiare, nel mezzo di una fiumana di sfollati. Nella miseria umana Ethel diventa donna e si innamora di Laurent, un ragazzo della cerchia famigliare che viveva in Gran Bretagna e combatteva perciò dalla parte degli Alleati e decide di sfidare la storia vivendo questo rapporto cui la guerra impone la dimensione dell'attesa in una Nizza fredda e cupa.

Chiaramente viene adombrato in questo rapporto il mito delle origini, rivissuto nella storia d'amore tra i genitori dello scrittore e, anche se 'Il ritornello' esce nel 2008, in realtà Le Clézio riporta in vita fatti anteriori a quelli raccontati in 'L'africano', che è del 2004.

La scelta si pone in un'ottica di continuità quasi genetica della narrazione.
La scoperta della fame e della forza da parte di Ethel esplora l'altro lato delle origini, quello materno, legato con più forza all'orizzonte esotico dell'isola di Mauritius e insieme, pur rivolto al passato, funziona come stimolo a guardare oltre.

Come a Nizza Ethel ritrova Maude, l'amante del padre, che vive nell'indigenza della guerra e della solitudine e cerca di aiutarla come può, e supera anche la morte del genitore, così si distacca anche dal passato per ricongiungersi con Laurent e rivolgersi a una vita nuova, da costruire al di là dell'Atlantico, negli Stati Uniti.
Anche nello stile romanzesco e vivo del 'Ritornello' si sente ancora quell'urgenza, distaccata e insieme appassionata, di trovare nella lontananza delle origini la giusta dimensione del presente, che caratterizza così in profondità la storia e la ricerca di Le Clézio.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: L'africano
  • Titolo originale: L'Africain
  • Autore: Jean-Marie Gustave Le Clézio
  • Traduttore: Maurizia Balmelli
  • Editore: Instar Libri
  • Data di Pubblicazione: 2004
  • Collana: Le antenne
  • ISBN-13: 9788846100825
  • Pagine: 104
  • Formato - Prezzo: Brossura - Euro 10,00

  • Titolo: Il ritornello della fame
  • Titolo originale: Ritournelle de la faim
  • Autore: Jean-Marie Gustave Le Clézio
  • Traduttore: Maurizia Balmelli
  • Editore: Rizzoli
  • Data di Pubblicazione: 2008
  • Collana: Scala Stranieri
  • ISBN-13: 9788817032346
  • Pagine: 202
  • Formato - Prezzo: Brossura - Euro 17,50

29 novembre 2013

Speciale Premio Nobel: Il figlio dell'Imperatore - Kenzaburō Ōe

Nel 1994 il Premio Nobel per la Letteratura viene assegnato a Kenzaburō Ōe, «che con forza poetica crea un mondo immaginario in cui vita e mito si condensano per formare uno sconcertante ritratto dell'attuale condizione umana».


Kenzaburō Ōe nacque a Ōse, nella Prefettura di Ehime, il 31 gennaio 1935. Il padre morì nove anni dopo durante la Guerra del Pacifico. Dei primi anni di formazione, Ōe ricorda i suoi primissimi modelli letterari, Huckleberry Finn e Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson. Successivamente studiò letteratura francese a Tokyo con il professore Kazuo Watanabe, specialista e primo traduttore in giapponese di Rabelais. Influenzato dunque dalla letteratura francese, ma anche da quella nordamericana, nel 1957 iniziò a scrivere racconti, mentre del 1958 è il suo primo romanzo (Memushiri Kouchi, inedito in italiano). Dopo aver sposato Yukari Itami (rispettivamente figlia e sorella dei registi Mansaku Itami e Juzo Itami) viaggiò in Cina, dove conobbe Mao Zedong, in Russia e in Europa, dove conobbe Sartre. Le opere di questo periodo hanno in comune il tema dell'occupazione del Giappone da parte delle potenze straniere, veicolato da perturbanti metafore sessuali.
Nel 1961 pubblicò su rivista i due racconti Seventeen e Morte di un giovane militante (tradotti e raccolti in italiano da Marsilio ne Il figlio dell'Imperatore insieme al discorso tenuto in occasione della vittoria al Nobel), che gli valsero minacce dai gruppi fascisti, la censura dell'editore della rivista che li aveva pubblicati, e le critiche della sinistra per non aver reagito alla censura.

La vita personale e letteraria di Ōe fu scossa nel 1963 dalla nascita di Hikari, primo dei suoi tre figli, affetto da una grave sindrome di Down, tema della successiva opera Un'esperienza personale (Kojitenki na taiken), che nel 1964 si aggiudicò il premio Shinchosha. Hikari, grazie alle battaglie quotidiane dei genitori, riuscì poi a superare le difficoltà comunicative attraverso la musica: è oggi uno dei più noti compositori del Giappone.
Nel 1965, dopo aver incontrato alcuni sopravvissuti al disastro di Hiroshima, «coloro che non si suicidarono nonostante avessero tutte le ragioni per farlo; che hanno salvato la dignità umana in mezzo alle più orrende condizioni mai sofferte dall'umanità», Ōe, attivista antinucleare e pacifista, scrisse Note su Hiroshima (Hiroshima Notō), pubblicato in Italia da Alet Edizioni nel 2008. Tra le opere che seguirono, significativi furono Il grido silenzioso (Man'en gan'nen no futtōboru, lett. "football americano nel primo anno dell'era Man'nen"), insignito nel 1967 del premio Jun'ichirō Tanizaki, e il saggio del 1970 Okinawa Notō ("appunti di Okinawa"), in cui accusava l'esercito giapponese di aver istigato al suicidio i civili di Okinawa durante l'invasione dell'isola nel 1945. Per quest'opera Ōe fu querelato nel 2005 da due ufficiali in pensione, ma nel 2008 venne assolto con una sentenza che riconosceva le responsabilità dell'esercito.
Nel 1994 venne insignito del Premio Nobel per la Letteratura, occasione in cui pronunciò a Stoccolma il suo celebre discorso Aimai na Nihon no watashi ("Io e il mio ambiguo Giappone", ma anche "Il Giappone, l'ambiguità e io"), titolo che ricalca quello del discorso tenuto da Yasunari Kawabata, Premio Nobel per la Letteratura nel 1968 (Io e il mio bel Giappone). Lo stesso anno gli venne conferito anche il Bunkasho, riconoscimento letterario consegnato dall'Imperatore in persona, che l'autore, coerentemente alla sua ideologia, rifiutò affermando di non riconoscere alcuna autorità o valore più alto della democrazia. Il gesto gli valse nuovamente pesanti minacce dai gruppi nazionalistici.
Pochi mesi dopo l'autore dichiarò che la sua opera più recente, la trilogia Moeagaru midori no ki ("l'albero verdeggiante dalla chioma in fiamme"), sarebbe stata l'ultima a causa del suo desiderio di dedicarsi al pensiero filosofico. Due anni dopo, tuttavia, l'attentato al gas nervino nella metropolitana di Tokyo del 1995 lo spinse a riprendere in mano la penna e a pubblicare Il salto mortale (Chugaeri), tradotto in italiano nel 2006 da Garzanti e incentrato sulle sette religiose terroristiche.


Il libro del premio Nobel Kenzaburo Oe che esce in Italia col titolo "Il figlio dell'Imperatore" comprende due parti autonome: "Seventeen" e "Morte di un giovane militante", quest'ultimo mai pubblicato né in Giappone, né in nessuna parte del mondo dopo l'uscita (1961) in una rivista letteraria giapponese. La rivista fu immediatamente ritirata dopo le minacce di morte all'autore e all'editore. Il racconto letteralmente sparì, quasi non fosse mai stato scritto. L'estrema destra giapponese non sopportava gli attacchi irriverenti alla famiglia imperiale, il feroce sarcasmo contro ogni delirio di onnipotenza.

Recensione

Il figlio dell'Imperatore si compone di due parti autonome: Seventeen e Morte di un giovane militante, pubblicate per la prima volta in patria nel 1961 sulla rivista di letteratura "Bungakukai", a distanza di un mese l'una dall'altra. Colpevole di aver caricato all'inverosimile il reazionarismo del giovane fascista protagonista dei due racconti, Ōe ricevette pesanti minacce dai gruppi fascisti, così come pure l'editore di "Bungakukai", tanto che quest'ultimo fu costretto a bloccare la distribuzione della rivista e a pubblicare una lettera di scuse formali. Lo scrittore venne peraltro aspramente criticato anche dalla sinistra per non aver reagito alla censura: Morte di un giovane militante rimane tuttora mai ripubblicato in Giappone.
I due racconti si ispirano alla storia vera di Yamaguchi Otoya, il diciassettenne che il 12 ottobre 1960 accoltellò a morte in diretta televisiva Inejiro Asanuma, capo del Partito Socialista Giapponese, durante un pubblico dibattito in occasione delle elezioni parlamentari. Il giovane non viene mai chiamato per nome: Ōe omette appositamente qualsiasi riferimento a nomi, luoghi e date.

Il clima è quello teso degli anni '57-'60, momento di rinegoziazione dei delicati rapporti politici tra l'esercito di difesa statunitense, ancora stanziato sul territorio giapponese, e il potere imperiale. Nel discorso Io e il mio ambiguo Giappone, riportato in coda ai racconti e al folto apparato di note, Kenzaburō Ōe con poche frasi dipinge la perfetta essenza del Giappone in quel momento storico, ma anche presente:

«Ho la sensazione che oggi, dopo centoventi anni di modernizzazione seguiti all'apertura del paese, il Giappone sia ancora lacerato da due tipi di ambiguità di senso opposto. Le stesse che vivo anch'io in prima persona, come scrittore che ne porta su di sé i segni profondi.
Ambiguità che si manifestano in vari modi, tanto evidenti e forti da creare lacerazioni in un'intera nazione e nel suo popolo. La modernizzazione del Giappone è stata tutta tesa all'imitazione del modello occidentale. Eppure il Giappone è parte dell'Asia e i giapponesi sono determinatissimi a mantenere la propria cultura tradizionale.»

Narrati in prima persona dal protagonista, Seventeen e Morte di un giovane militante rappresentano la formazione personale e politica di un giovane studente che, da iniziali e precarie posizioni progressive, abbraccia di getto l'ideologia fascista dopo essere stato frastornato dalla pomposa retorica di un comizio. I racconti offrono un ritratto quasi caricaturale del fanatismo di cui il ragazzo cade presto preda, in un delirio di onnipotenza dal sapore più religioso che politico volto a omaggiare la figura dell'Imperatore. Dopo aver compiuto l'opera della sua vita, un gesto senza alcuna conseguenza politica ma roboante, estremo, emblematico, il ragazzo si impiccherà nella cella del riformatorio in cui è stato rinchiuso. Non potrà ricorrere all'harakiri, il tipico suicidio rituale, ma vergherà sulla parete Sette vite per il mio paese. Lunga vita a Sua Maestà Imperiale, l'Imperatore!

Parole e reazioni del protagonista potrebbero forse sembrare grottesche, se non fossimo un popolo vissuto per più di vent'anni sotto il giogo del fascismo. Senza dubbio familiare risulterà l'ultranazionalismo, che nel protagonista è culto dell'Imperatore in quanto divinità più che esaltazione della nazione e della cultura giapponese. Il machismo estremo, onanista, che talvolta sfiora quasi l'omosessualità tanto è il compiacimento del proprio corpo; quasi mai l'eccitazione fisica si traduce nell'urgenza di un rapporto sessuale con un altro essere umano, trovando piuttosto sfogo nell'autocompiacimento, nell'atto violento, o nella sua contemplazione. L'apprezzamento della modernità, della velocità dei trasporti. Quel senso quasi fisico della disciplina. Il culto della giovinezza. La valorizzazione del lavoro fisico. E naturalmente la violenza, politica, familiare, efferata, protetta e giustificata dalla divisa che come un'armatura nasconde l'intrinseca debolezza psicologica e morale: con la divisa, il seventeen non è più un debole adolescente, può essere uguale agli altri, o meglio, può essere qualcosa di più degli altri; la violenza trova il suo tramite nelle mani nude, simbolo del culto del corpo, o nelle armi tradizionali, simbolo dell'identità e della storia del suo paese.

I due racconti senza dubbio non sono facili da apprezzare, complice anche una traduzione dal giapponese che nel 1997 non aveva raggiunto i suoi massimi livelli (che per inciso non sono ancora stati raggiunti, vuoi per latitanza di ottimi traduttori italiani, vuoi per il divario tra le due culture). Tutt'altra storia per il discorso del Nobel, che svela la profondità di Kenzaburō Ōe quale giapponese, quale scrittore, quale essere umano.

Giudizio:

+3stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Il figlio dell'imperatore
  • Titolo originale: Sevuntīn; Aimai na Nihon no watashi
  • Autore: Kenzaburō Ōe
  • Traduttore: M. Morresi
  • Editore: Marsilio
  • Data di Pubblicazione: 1997
  • Collana: Romanzi e racconti
  • ISBN-13: 9788831768184
  • Pagine: 172
  • Formato - Prezzo: Brossura - Fuori catalogo

28 novembre 2013

Speciale Premio Nobel: L'altalena del respiro - Herta Müller

Herta Müller ha vinto il premio Nobel nel 2009 con questa motivazione: "Con la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa ha rappresentato il mondo degli spodestati”. La sua bibliografia è spesso incentrata sugli effetti che hanno la violenza, la crudeltà e l'orrore sull'animo umano e molte delle sue opere sono ambientate durante la dittatura di Nicolae Ceaușescu, che lei stessa ha vissuto. La musica folk Romena e l'attivismo politico hanno influenzato la sua opera sopra ogni altra cosa.

Herta Müller è nata a Niţchidorf, Romania, il 17 agosto 1953 in una comunità sassone. Dopo l'università, trova lavoro come traduttrice per un'azienda dalla quale viene licenziata dopo tre anni per mancata collaborazione con i servizi segreti, la Securitate. Nel 1982 pubblica il suo primo libro, la raccolta di racconti Bassure (Niederungen), che viene sottoposto a censura. Nel 1987 va a vivere in Germania con il marito, dove attualmente risiede, e nel 1995 viene accolta nell'Accademia Tedesca di Letteratura e Poesia. Per protesta nel 1997 abbandona il PEN Club, organizzazione internazionale di letterati fondata da John Galsworthy, per la decisione presa dal comitato di riunire le associazioni di Germania Ovest ed Est.
Nel 2008 ha inviato una lettera di critica al presidente dell'Istituto di Cultura Romena, che aveva espresso il suo sostegno a una scuola romeno-tedesca nella quale lavoravano due ex-informatori della Securitate. Molti dei suoi libri sono stati pubblicati in Italia dopo la vittoria del Nobel del 2009 da Marsilio, Feltrinelli, Keller e Sellerio. Da ricordare, oltre all'opera qui recensita, tra quelli tradotti in italiano: Il paese delle prugne verdi (Herztier, Amburgo 1994), pubblicata in Italia da Keller; Cristina e il suo doppio (Cristina und ihre Attrappe oder Was (nicht) in den Akten der Securitate steht, Gottinga 2009), pubblicato da Sellerio; Oggi avrei preferito non incontrarmi (Heute wär ich mir lieber nicht begegnet, Reinbek bei Hamburg 1997), Feltrinelli; Il re s'inchina e uccide (Der König verneigt sich und tötet, Monaco 2003), saggio pubblicato da Keller.


Gennaio 1945, la guerra non è ancora finita: per ordine sovietico inizia la deportazione della minoranza rumeno-tedesca nei campi di lavoro forzato dell’Ucraina. Qui inizia anche la storia del diciassettenne Leopold Auberg, partito per il Lager con l’ingenua incoscienza del ragazzo ansioso di sfuggire all’angustia della vita di provincia. Cinque anni durerà poi l’esperienza terribile della fame e del freddo, della fatica estrema e della morte quotidiana.
Per scrivere questo libro Herta Müller ha raccolto le testimonianze e i ricordi dei sopravvissuti e in primo luogo quelli del poeta rumeno-tedesco Oskar Pastior. Avrebbe dovuto essere un’opera scritta a quattro mani, che Herta Müller decise di proseguire da sola dopo la morte di Pastior nel 2006. È infatti attraverso gli occhi di quest’ultimo, quelli del ragazzo Leo nel libro, che la realtà del Lager si mostra al lettore. Gli occhi e la memoria parlano con lingua poetica e dura, metaforica e scarna, reale e nello stesso tempo surreale – come la condizione stessa della mente quando il corpo è piagato dal freddo e dalla fame. Fondato sulla realtà del Lager, intessuto dei suoi oggetti e della passione, quasi dell’ossessione per il dettaglio quale essenza della memoria e della percezione, questo romanzo è un potente testo narrativo.

Recensione

La storia de L’altalena del respiro - pubblicato nel 2009 e uscito in Italia nel 2010 per Feltrinelli – è incentrata sull’esperienza del diciassettenne Leopold Auberg in un campo di lavoro forzato sovietico e ben rappresenta il motivo per cui l’autrice ha ricevuto il Nobel. Scritto come una serie di riflessioni sulla vita di un individuo che è stato strappato alla famiglia senza colpe alcune se non quella di essere tedesco – quindi nemico nonostante la guerra si stia concludendo con l’inesorabile sconfitta della Germania -, il libro mostra al lettore l’abisso in cui si può perdere l’animo umano quando l’ideologia prevarica il buon senso.

Leopold, partito quasi come se stesse andando in gita – come ci si aspetterebbe dal figlio di una famiglia agiata –, finirà per patire le sofferenze dalla fame e del lavoro forzato, sopravvivendo ma rimanendone segnato per sempre. I rapporti con il mondo esterno sono irrimediabilmente incrinati e l’unico amico che continuerà a stare vicino a Leopold per tutta la vita è quello che l’ha cambiato radicalmente: l’angelo della fame. Quest’ultimo è la più importante delle tante metafore che accompagnano il lettore nella poetica della Müller.

I pensieri del protagonista – che racconta la sua terribile esperienza in prima persona – sono ricordi che vengono descritti senza linearità temporale, costruiti in potenti figure retoriche per dare un’idea della differenza tra la forza dello spirito e la desolante realtà in cui è immerso il corpo. Le parole della Müller lasciano infatti il segno e la descrizione della vita nel lager è un pugno nello stomaco del lettore, nonostante venga fatto capire che Leopold rimarrà in vita per portare l’esperienza del lager come fardello, pena ancora maggiore della morte.

Il problema di questo libro, che personalmente ho faticato non poco a finire nonostante la sua brevità, sta, paradossalmente, proprio nella poetica dell’autrice: a volte risulta astrusa, senza un filo logico, altre dà l’idea di essere solo una serie di belle frasi messe insieme. L’astrazione dalla realtà a cui si costringe il protagonista per non perdersi definitivamente disorienta il lettore e rende la storia una serie di episodi eterogenei. Molti espressioni sono ripetute ossessivamente – per esempio l’angelo della fame che non abbandona mai il protagonista, oppure la “lepre del viso” per dire che qualcuno sta per morire di fame e che quindi è sprecato scambiarci il “pane delle guance” – e la fame che pesa sul protagonista e sul lettore diventa un concetto meno potente pagina dopo pagina.

In conclusione, L’altalena del respiro non è una lettura facile. Ci può stare, visto anche l’argomento trattato, ma il continuo uso delle figure retoriche – comunque d’impatto - e la ripetizione degli stessi concetti rendono più pesante una lettura che ha nella quotidiana resistenza dello spirito alle brutture della materia un argomento di sconvolgente forza emotiva.

Giudizio:

+3stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: L'altalena del respiro
  • Titolo originale: Atemschaukel 
  • Autore: Herta Müller
  • Traduttore: Carbonaro Margherita
  • Editore: Feltrinelli
  • Data di Pubblicazione: 2009
  • Collana: I Narratori
  • ISBN-13: 9788807018114
  • Pagine: 251
  • Formato - Prezzo: Brossura/Ebook - 15,30 Euro/6,99 Euro

27 novembre 2013

Speciale Premio Nobel: Nemico, Amico, Amante... - Alice Munro

Il Premio Nobel di quest'anno è stato assegnato alla canadese Alice Munro, definita "maestra del racconto breve contemporaneo".


La prima canadese e la tredicesima donna a vincere il Premio Nobel per la Letteratura, Alice Ann Laidlaw nasce a Wingham, Ontario, il 10 luglio del 1931.
Figlia di un allevatore di animali da pelliccia e di un'insegnante, la carriera di scrittrice della Munro inizia giovanissima, appena diciannovenne, quando pubblica il suo primo racconto, The Dimensions of a Shadow, mentre studia Inglese e Giornalismo alla University of Western Ontario, facoltà che abbandonerà prima della conclusione per sposarsi con il primo marito James Munro (del quale manterrà il cognome anche dopo il divorzio). Dopo alcuni anni nel West Vancouver la coppia si trasferisce nel 1963 a Victoria, dove apriranno la libreria Munro's Books, ancora attiva attualmente.

La prima raccolta completa di Alice Munro, Danza delle ombre felici (Dance of the Happy Shades), viene pubblicata nel 1968 ed è un immediato successo, tanto da aggiudicarsi il Governor General's Award, il più prestigioso premio letterario canadese. Il lavoro della scrittrice viene esaltato per aver rivoluzionato l'architettura del racconto, specialmente per la sua tendenza a muoversi avanti e indietro nel tempo all'interno delle sue storie.
Il secondo Governor General's Award arriva nel 1978 grazie all'opera Chi ti credi di essere? (Who Do You Think You Are?, pubblicato anche col titolo The Beggar Maid ), nuova raccolta in cui questa volta i racconti che la compongono sono tutti collegati uno all'altro, e da quel momento in poi l'ispirazione non sembra mai abbandonarla tanto che negli anni '80 e '90 pubblicherà una nuova raccolta circa ogni quattro anni, facendosi la fama di " Chekhov contemporanea". Si accumulano anche i riconoscimenti e dopo un tour letterario di tre anni in Cina, Australia e Sandinavia le viene assegnato il posto di writer's in residence sia alla University of British Columbia che alla University of Queensland.
Nel frattempo divorzia da Munro dopo quindici anni di matrimonio e tre figlie insieme e, nel 1976, sposa il geografo Gerald Fremlin, con il quale si trasferisce nuovamente in Ontario, ambientazione della maggior parte dei suoi racconti. Nel 2006, durante la promozione dell'opera La vista da Castle Rock (The View from Castle Rock), l'autrice annuncia la possibilità di ritirarsi dal mondo della letteratura, decisione smentita qualche anno più tardi con la pubblicazione di una nuova raccolta Troppa felicità (Too Much Happiness). I suoi racconti non hanno mai smesso di essere pubblicati sulle più importanti riviste letterarie mondiali, oltre a essere tradotte in tredici lingue, e nel 2006 la sua storia The Bear Came Over the Mountain, inclusa nella raccolta Nemico, Amico, Amante... è stata adattata per il grande schermo dalla regista Sarah Polley per il film Away from her, con Julie Christie e Gordon Pinsent.


Nove racconti perfetti: la musica del quotidiano, il gioco smorzato dei sentimenti e delle allusioni. Da Flannery O'Connor a Henry James, da Chechov a Tolstoj, non c'è un autore di racconti al quale Alice Munro non sia stata paragonata. Ma la sua capacità di dipanare in un lampo l'irriducibile complessità della natura umana è incomparabile. Questi racconti possiedono la straordinaria capacità di trascinare il lettore nei meandri di una memoria che non è la sua per risvegliare emozioni che sono di tutti. La scrittura della Munro è aperta, lussureggiante, fitta di accadimenti e particolari necessari. Il paesaggio canadese, la natura selvaggia del Nord Ovest partecipano alle emozioni dei personaggi, integrano la loro storia, determinano le loro decisioni.

Recensione

Quando si ha la fama di essere una delle più grandi autrici contemporanee di racconti e si vince addirittura il Premio Nobel per questo, è difficile sopravvivere alle aspettative dei lettori. La reazione che incontro con maggior frequenza quando leggo commenti su Alice Munro è: embè? Come a dire: "tutto qui? è per questo che vengono assegnati i Nobel oggigiorno?".

Effettivamente la scrittura di questa autrice non possiede quegli elementi che fanno gridare al capolavoro dopo poche pagine. Il suo stile è semplice, garbato, raffinato nelle sue metafore ma pur sempre diretto e legato al quotidiano. I suoi racconti sono popolati da personaggi e situazioni ordinarie; anche quando un evento estraneo irrompe nella quotidianità dei suoi protagonisti non è mai un colpo di scena sconvolgente ma una piccola sfumatura destinata a innescare cambiamenti sotterranei e lentamente apprezzabili. Sebbene la Munro prediliga quasi sempre un narratore onnisciente il suo focus è principalmente sulle figure femminili, molto più complesse e sfaccettate delle loro controparti maschili che occupano più il ruolo di personaggi di contorno, a volte un po' monodimensionali. Fa eccezione l'ultimo racconto dell'opera, The bear came over the mountain, nel quale la protagonista femminile, Fiona, è presentata al lettore quasi esclusivamente dal punto di vista del marito Grant, che fatica ad accettare la perdita della compagna che conosceva a causa della demenza senile.
In generale, nessuna delle donne in Nemico, Amico, Amante... è particolarmente bella o intelligente o spiritosa, nessuna è inequivocabilmente meschina o cattiva, l'unica loro straordinarietà è nell'essere figure comuni, che non vuol dire banali ma semplicemente realistiche. Sono donne che tutte noi potremmo aver incontrato, donne che tutte noi potremmo essere o siamo già state in un particolare momento della nostra vita.

Trattandosi di un'opera scritta in età matura (è stata pubblicata per la prima volta nel 2001), in essa l'autrice tocca diverse fasi della vita, dall'adolescenza con il suo desiderio di emancipazione alla maturità con le sue prese di consapevolezza, fino alla vecchiaia con la sua solitudine. Di qualsiasi momento si tratti, anche quelli teoricamente più gioiosi della giovinezza, esso è raccontato con tono spassionato e concreto, poco incline al romanticismo e spesso disincantato tanto da poter conferire agli eventi un'atmosfera un po' deprimente. I personaggi di questi racconti sembrano accettare ogni emozione, per quanto forte, come parte naturale della vita di ogni uomo e ogni donna: essi si rivolgono all'amore, all'odio, all'amicizia, alla paura con un atteggiamento pratico e, in alcune occasioni, quasi rassegnato.

Ciò che maggiormente interessa la Munro sembra essere la percezione che ognuno ha di sé, come spesso non coincida con ciò che gli altri vedono di noi e come a volte un piccolo evento insignificante o una fortuita coincidenza possa modificare questa percezione spingendoci verso una presa di coscienza nuova e più completa.

E' difficile dire qualcosa della trama di questi nove racconti proprio perché spesso si tratta di piccole incursioni in particolari momenti della vita dei protagonisti, situazioni comuni come lo stadio finale di una malattia, l'evolversi di un rapporto fra sorelle, le diverse fasi della vita matrimoniale, i tradimenti, il passaggio dall'adolescenza all'età adulta, che acquistano significato per la loro capacità di mostrare le mille sfaccettature dell'animo umano attraverso situazioni ordinarie in cui tutti noi potremmo trovarci prima o poi. In questo senso il paragone con Chekhov è giustificato e sebbene non sempre si sia d'accordo con la prospettiva offerta dall'autrice non si può fare a meno di apprezzarne la sincerità e la capacità di scavare nel profondo con pochi gesti immediati.

Confesso che dopo la lettura dei primi racconti ero un po' perplessa, sebbene il primo, Nemico, amico, amante, sia quello che più si avvicina alla nostra idea di storia avvincente, con la sue sequenza di coincidenze e il suo finale a sorpresa. La causa principale è che dal racconto breve, forse per associazione alle favole della nostra infanzia, ci si aspetta sempre una morale, un messaggio conclusivo che nell'opera della Munro non c'è. O forse è semplicemente nell'indole di molti di noi voler trovare una spiegazione per tutto, ed è per questo che terminato ogni racconto si rischia di ritrovarsi a chiedersi: e quindi? dove voleva andare a parare l'autrice?

Una volta abituatami allo stile della Munro ho però iniziato ad apprezzarne le sottigliezze oltre che la velata ironia e sono rimasta conquistata dal realismo dei suoi personaggi che, a dispetto delle premesse poco incoraggianti, riescono davvero ad appassionare il lettore al loro fato.

In conclusione posso quindi dire che, se avete intenzione di approcciarvi all'opera di questa autrice dovete farlo liberandovi di aspettative e pregiudizi, pensando a voi stessi più che come a dei lettori a degli spettatori di una mostra fotografica, pronti ad immergervi negli affreschi che l'autrice ci regala. Non saprei dire se davvero la Munro sia più meritevole dei principali concorrenti al Nobel di quest'anno ma personalmente devo ammettere che mi ha convinta e sicuramente questa non sarà l'unica sua opera che leggerò.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Nemico, Amico, Amante
  • Titolo originale: Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage
  • Autore: Alice Munro
  • Traduttore: Susanna Basso
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 2005
  • Collana: Super ET
  • ISBN-13: 9788806174682
  • Pagine: 315
  • Formato - Prezzo: Brossura - 12.00 Euro

26 novembre 2013

Armageddon Rag - George R.R. Martin

Sandy Blair, ex giornalista underground, conduce una vita monotona a New York fino a quando non subisce una svolta improvvisa. Dalla vecchia rivista Hedgehog gli chiedono un articolo su un misterioso e raccapricciante omicidio di cui è rimasto vittima Jamie Lynch, ex promoter dei Nazgùl; un gruppo rock simbolo degli anni Sessanta. La ricerca degli indizi per la stesura del pezzo diventa per Sandy l'occasione di un lungo viaggio per gli Stati Uniti, un viaggio alla riscoperta di sé e di un mondo estinto, sullo sfondo della musica dei Nazgùl, chiamati a riunirsi per un ultimo, letale concerto. Sandy deve combattere contro i fantasmi di un'intera generazione, poiché dalle misteriose e demoniache profondità di quegli ambienti underground sta risorgendo il lato più oscuro dell'Era dell'Acquario...

Recensione

Bisognerebbe essere ormai fuori dal mondo per non sapere che G.R.R. Martin non è solo fantasy: la Mondadori e la Gargoyle, negli ultimi anni, hanno riportato in auge opere -giovanili e non- molto diverse da Le cronache del ghiaccio e del fuoco. Armageddon Rag appartiene alla prima fase della sua produzione: scritto e pubblicato a soli cinque anni dall'esordio con Dying of the Light e passato inizialmente inosservato, il romanzo è un mystery dai toni serrati ambientato nel mondo della musica degli anni '60.
Sandy Blair, un tempo attivista hippie, da molto ha abbandonato la carriera di giornalista musicale ed è uno scrittore di discreto successo. Jared Patterson, direttore della rivista Hedgehog per cui lo stesso Sandy lavorava prima di essere rimpiazzato da redattori più giovani, lo contatta improvvisamente per chiedergli di scrivere un pezzo: Jamie Lynch, agente e promoter di gruppi storici negli anni Sessanta, è stato infatti ritrovato con il cuore strappato su un poster dei Nazgul, notissimo gruppo da lui rappresentato, esattamente dieci anni dopo l'assassinio del suo cantante Pat "Hobbit" Hobbins durante un concerto. Sandy decide di prendersi una pausa dalla scrittura e di intraprendere un lungo viaggio che lo condurrà attraverso mezza America, viaggio che lo riporterà nel mondo del rock degli anni '60 sulle tracce dei restanti componenti dei Nazgul per indagare sull'omicidio Lynch. Lungo la strada Sandy ritroverà i suoi vecchi amici, anche loro sconfitti dal fallimento del sogno dell'Acquario, e finirà per fare i conti con ciò che lui stesso è diventato.
Armageddon Rag non è solo un mystery che ricostruisce i moventi e l'assassino di un delitto: il viaggio di Sandy consente all'autore di tirare le somme di ciò che resta di quella generazione idealista e rivoluzionaria. C'è chi ancora persegue l'idea di un mondo in armonia con la Natura e l'Universo; chi, alle soglie della mezza età, ha realizzato in ritardo che è il momento di rientrare nel sistema; per qualcuno quel momento è giunto già da un pezzo, e nel sistema capitalistico ci è rientrato perfettamente; qualcun altro è stato costretto a rientrarci con la forza; c'è poi chi si è dato alla carriera dell'insegnamento, nella speranza di ravvivare le idee della generazione successiva. Tutti, in ogni caso, hanno dovuto fare i conti con il passare del tempo, con il fallimento dei propri ideali, con il cambio generazionale, con la certezza che quella tentata rivoluzione non ha mai avuto luogo. Tutti, meno qualcuno, colui che si cela dietro il caso Lynch.
La musica, che permea tutto il romanzo, gioca chiaramente un ruolo chiave nella storia: l'assassinio di Jamie Lynch e i delitti che seguiranno sembrano seguire uno schema sfuggente che ha a che fare con la storia dei Nazgul e soprattutto con il loro ultimo album, Music to Wake the Dead, la cui ultima canzone, durante la quale Pat fu ucciso da una fucilata senza che i colpevoli venissero mai rintracciati, è Armageddon Rag. Simbolo e motore del movimento flower power, la musica accompagna il protagonista attraverso le sue indagini, fa da sottofondo ai suoi incubi, alle sue visioni e ai suoi ricordi, ora nostalgica, ora prorompente, ora terrorizzante. Tali elementi fanno di Armageddon Rag un'opera che può essere apprezzata pienamente solo da chi quegli anni li ha vissuti, di quella musica ne è completamente imbevuto, e - come Martin, che nel '68 aveva vent'anni - può dunque prendere atto della fine di quell'era e dell'inadempimento delle sue promesse.
Gli altri lettori (la maggior parte) possono comunque godersi una buona trama, una scrittura non all'altezza delle successive opere ma comunque soddisfacente, e magari scoprire o riscoprire qualche brano storico. A tal proposito, un appunto che mi sentirei di fare all'edizione italiana è la scelta di tradurre la maggior parte dei versi estrapolati dai testi delle canzoni: anche se non tutti i lettori conoscono l'inglese, il senso è di comprensione quasi immediata, e in italiano il rock suona piuttosto fiacco e quasi ridicolo.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Armageddon Rag
  • Titolo originale: The Armageddon Rag
  • Autore: George R.R. Martin
  • Traduttore: Benedetta Tavani
  • Editore: Gargoyle
  • Data di Pubblicazione: 2013
  • Collana: Extra
  • ISBN-13: 9788889541975
  • Pagine: 478
  • Formato - Prezzo: Rilegato, sovraccoperta - 16.50 Euro

25 novembre 2013

Listopia: I milleuno libri da leggere almeno una volta nella vita (#521 - 540)

Quante volte ci siamo imbattuti in una di queste liste? La stessa BBC ne aveva stilata una da cento libri (piuttosto faziosa, se volete la mia opinione). Scopo di queste liste, è noto, non è permettere al lettore di scoprire nuovi libri e nuovi autori, bensì distruggere ogni sua pretesa di letterato facendolo sentire oltremodo ignorante per il gran numero di volumi che, a fine lista, scopre di non aver non solo mai letto, ma nemmeno sentito nominare. Noi vi proponiamo questa, pubblicata in volume, che già da diversi anni circola più minacciosamente della videocassetta di The Ring (o di Pootie Tang - questa è pessima, se la capite vergognatevi) distruggendo l'autostima di ogni lettore che credeva di aver letto tutti o la maggior parte dei cosiddetti libri da leggere prima di morire. La lista in questione ha i suoi difetti. Intanto è stata stilata approssimativamente nel 2005, per cui la sezione 2000 risulta incompleta; inoltre mette in lista solo narrativa, ed è eccessivamente sbilanciata su romanzi pubblicati nel corso del 1900, glissando decisamente su quelli pre-Ottocento. Continuiamo con un'altra carrellata di venti romanzi: nel corso degli articoli vedremo quali sono stati pubblicati in Italia e quali risultano ancora inediti.



521. Il vecchio e il mare – Ernest Hemingway (1952)

Dopo ottantaquattro giorni durante i quali non è riuscito a pescare nulla, il vecchio Santiago vive, nel suo villaggio e nei confronti di sé stesso, la condizione di isolamento di chi è stato colpito da una maledizione. Solo la solidarietà del giovane Manolo e il mitico esempio di Joe Di Maggio, imbattibile giocatore di baseball, gli permetteranno di trovare la forza di riprendere il mare per una pesca che rinnova il suo apprendistato di pescatore e ne sigilla la simbolica iniziazione. Nella disperata caccia a un enorme pesce spada dei Caraibi, nella lotta, quasi letteralmente a mani nude, contro gli squali che un pezzo alla volta gli strappano la preda, lasciandogli solo il simbolo della vittoria e della maledizione sconfitta, Santiago stabilisce, forse per la prima volta, una vera fratellanza con le forze incontenibili della natura e, soprattutto, trova dentro di sé il segno e la presenza del proprio coraggio, la giustificazione di tutta una vita. Alla fine della propria carriera di scrittore Ernest Hemingway rimedia i temi fondamentali della sua opera nella cornice simbolica di un’epica individuale, e insieme ripercorre i grandi modelli letterari che, con Moby Dick, hanno reso unica la letteratura americana.


522. La saggezza nel sangue – Flannery O’Connor (1952)

La saggezza nel sangue, uscito nel 1952, fu dalla stessa autrice definito "un romanzo comico che tratta di un cristiano suo malgrado". Al centro del primo romanzo di Flannery O'Connor è la figura di Hazel Motes, il giovane reduce che predica la "Chiesa della Verità senza Gesù Cristo Crocefisso". Hazel è assillato dall'incontro con un suo doppio, seguito da un ragazzino petulante, concupito da una matrona, attratto da una piccola prostituta... Il suo itinerario per strade e pensioni, bar e treni del Sud, è quello di un cercatore di assoluto, incapace di governare i propri istinti e la propria vocazione. "La religione del Sud", precisa l'autrice in una lettera, citata da Fernanda Pivano nella prefazione, "è qualcosa che, come cattolica, trovo... Cupamente comica... Non avendo nulla che corregga le proprie eresie, la gente le elabora drammaticamente".


523. L'assassino che è in me – Jim Thompson (1952)

Lou Ford è il vicesceriffo di una piccola città del Texas. La cosa peggiore che si può dire di lui è che è un po' noioso, un po' troppo lento, a volte saccente. Ma nessuno immagina il suo male nascosto, la malattia che lo ha quasi rovinato quando era giovane. E quel male è di nuovo sul punto di tornare in superficie, irrefrenabile e violento. Perché la vita non ha niente da dare agli uomini come Lou, se non brevi momenti di feroce energia sempre raggelati dall'oceano nero del destino.


524. Memorie di Adriano – Marguerite Yourcenar (1951)

"Mi sentivo responsabile della bellezza del mondo", dice di sé Adriano, questo personaggio così raffinatamente calato nella sua epoca, eppure così vicino al tormento di ogni uomo, di ogni tempo, nell'accanita ricerca di un accordo tra felicità e logica, tra intelligenza e fato. Il capolavoro di Marguerite Yourcenar unisce al cesello perfetto della ricostruzione storica il coraggio di presentare a tutto tondo un grand'uomo, l'altezza del suo pensiero, la disponibilità intellettuale, le intuizioni profetiche, donandoci non già un saggio erudito, ma un libro dei giorni nostri, e dei giorni a venire. Perché, come ha scritto la Yourcenar, "non siamo i soli a guardare in faccia un avvenire inesorabile".
I taccuini di appunti dell'autrice (annotazioni di studio, lampi di autobiografia, ricordi, vicissitudini della scrittura) perfezionano la conoscenza di un'opera che fu pensata, composta, smarrita, corretta per quasi un trentennio.
La nota della traduttrice, Lidia Storoni Mazzolani, ci regala la storia di un'amicizia nata lavorando insieme alla versione italiana. Con la cronologia della vita e delle opere e la bibliografia essenziale.


525. Malone muore – Samuel Beckett (1951)

Malone muore è un fondamentale punto di svolta nella narrativa di Beckett. Da un lato è l'ultima prova di una narrazione centrata su un personaggio ancora in qualche modo romanzesco (Malone buon ultimo dopo i vari Murphy, Mercier, Molloy, Moran), dall'altro è già la liquidazione di quel modello, un post-romanzo che si costruisce intorno a un'assenza, a un'attesa indefinita e infinita, dove il soggetto non ha più alcuna identità. Le storie che Malone immagina nell'attesa di morire si confondono tra loro, i personaggi si sovrappongono, l'autore e il lettore svaniscono in quell'«unico grande ronzio continuo» che è la strana, buffa e tragica condizione della vita.


526. Il giorno dei Trifidi – John Wyndham (1951)

Bill Masen è ricoverato in ospedale e bendato, dopo un'operazione agli occhi. Un mattino si sveglia e si ritrova circondato da un silenzio insolito: sembra quasi che la vita intorno a lui si sia fermata... Si toglie le bende e si trova davanti a uno spettacolo orribile: gli esseri umani sono quasi tutti ciechi per effetto di una pioggia di meteore, e il mondo intero rischia di piombare in una spirale di caos e violenza. Poche persone hanno conservato la vista e tentano di riorganizzarsi, ma un'altra minaccia, molto più grave, si affaccia all'orizzonte: i Trifidi, piante geneticamente modificate che si nutrono di carne, anche umana, si sono accorti del loro vantaggio ecologico, si apprestano a occupare lo spazio vitale, a procurarsi il cibo di cui hanno bisogno...
Pubblicato per la prima volta a puntate nel 1951 sulla rivista americana "Collier's", "Il giorno dei Trifidi" ebbe un successo istantaneo ed è stato il primo esempio di affermazione 'di massa' della fantascienza moderna dopo Jules Verne e H.G. Wells. La sua profezia sul crollo della civiltà e sulla vendetta della natura appare sempre più attuale, e il romanzo è considerato un vero e proprio classico della letteratura inglese, nella tradizione distopica e visionaria che va da Wells a Orwell, a Ballard.


527. Fondazione – Isaac Asimov (1951)

La scena si svolge su Trantor, capitale dell'immenso impero che si stende su tutta la Galassia: una città vasta quanto un pianeta e popolata da miliardi di abitanti. Ed è in questo vasto, formicolante, inimmaginabile "ombelico del cosmo" che arriva lo studente Gaal Dornick per dare il via al più acclamato ciclo della storia della fantascienza: quello della "Fondazione". L'attuale impero galattico è destinato a crollare, l'interregno che ne seguirà sarà spaventoso, ma un giorno, un secondo impero vedrà la luce sorgendo dalle ceneri del primo. Per affrettare la transizione, lo scienziato Hari Seldon ha inventato una nuova disciplina scientifica, la psicostoria, studiata e applicata nelle apposite Fondazioni che si trovano i capi opposti della galassia. C'è però un grave e imminente pericolo che può distruggere questo piano benefico e che va sventato a tutti i costi...


528. La riva delle Sirti – Julien Gracq (1951)

[Pubblicato per la prima volta nel 1952 da Mondadori, La riva delle Sirti è il terzo romanzo dell'autore inglese Julien Gracq e in Italia è ormai fuori catalogo. Premiato con il Goncourt, l'autore rifiutò clamorosamente il riconoscimento per protesta contro la commercializzazione della letteratura.]






529. Il giovane Holden – J.D. Salinger (1951)

"Non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella. Vi racbrconterò soltanto le cose da matti che mi sono capitate verso Natale, prima di ridurmi così a terra da dovermene venire qui a grattarmi la pancia. Niente di più di quel che ho raccontato a D.B., con tutto che lui è mio fartello e quel che segue. Sta a Hollywood, lui. Non è poi tanto lontano da questo lurido buco, e viene qui a trovarmi praticamente ogni fine settimana. Mi accompagnerà a casa in macchina quando ci andrò il mese prossimo, chi sa. Ha appena preso una Jaguar. Uno di quei gingilli inglesi che arrivano sui trecento all'ora. Gli è costata uno scherzetto come quattromila sacchi o giù di lì. E' pieno di soldi, adesso. Mica come prima. Era soltanto uno scrittore in piena regola, quando stava a casa".


530. L'uomo in rivolta – Albert Camus (1951)

Ne L’uomo in rivolta, pubblicato nel 1951, trova la sua più rigorosa formulazione teorica la riflessione di Camus sull’idea – fondamentale – della rivoluzione, intesa come ricerca di equilibrio, azione creatrice, unica possibilità data all’uomo per fare emergere un senso in un mondo dominato dal non senso. L’opera sancì la rottura definitiva di Camus con Sartre e diede origine a infinite polemiche che divisero l’avanguardia intellettuale francese ma non riuscirono a pregiudicare la validità di una lezione di coraggio, generosità e moralità che rimane attualissima ancora oggi.


531. Molloy – Samuel Beckett (1951)

"Molloy" è il primo capolavoro della "Trilogia": personaggi che cercano instancabilmente la propria identità, un movimento a spirale di riflessioni che ruotano sempre più vicine al nulla. Molloy, misero e inerme, è rinchiuso nella stanza della madre morta e scrive in continuazione. Ogni settimana uno sconosciuto porta via tutto ciò che ha scritto offrendogli del denaro. Molloy racconta la sua inutile odissea trascorsa in cerca della madre. Nella seconda parte, Moran descrive la stessa storia di Molloy da un punto di vista completamente opposto: egli è un agente privato, la sua follia paranoica si esprime in gretto sadismo e severo autocontrollo, il suo compito è dare la caccia a Molloy.


532. Fine di una storia – Graham Greene (1951)

In una Londra distrutta dalle bombe di Hitler, vizi, compromessi, bassezze ed egoismi si mescolano all'amore. L'amore violento, quasi rabbioso di due amanti, Sara e Maurice; l'amore tiepido, non corrisposto del marito tradito; l'amore inatteso di Sara per Dio, nel quale arriva a credere contro la sua stessa volontà. Fragile e incoerente, combattuta tra l'adesione totale alla fede e la rinuncia all'uomo amato, la figura di Sara Miles si affianca ai personaggi più incisivi di Graham Green. E al di là dell'intreccio avvincente del romanzo, tipico della maniera greeniana, si schiude - oggi più che mai attuale - tutta la problematica dello scrittore: l'inafferrabile presenza del divino nel mondo e l'inquietudine dell'uomo, eternamente costretto in una condizione di contraddittorietà.


533. L'abate C – Georges Bataille (1950)

L'esperienza è "un viaggio ai limiti del possibile umano", e il suo principio è il "non-sapere". Lo spirito è messo a nudo nella tensione che spezza le regole del sapere abituale. In questo senso, è proprio la nudità senza riserve che mette di fronte a questo estremo possibile: all'estensione assoluta, che non può più nemmeno essere detta, o articolata. Solo il "sacrificio" della parola nella poesia può forse trovare una forma per un'esperienza che rimarrebbe, altrimenti, puramente estatica, per sempre perduta nell'indicibile. Solo la letteratura, se non può dire la morte, se non può descriverne l'esperienza, può darci di essa il sentimento. Anche nell'"Abate C". Bataille torna sul problema della scrittura: quello che essa afferma e quello che essa cancella. Solo nella scrittura è possibile legare "intimamente l'affermazione alla negazione". Credo che il segreto della letteratura sia questo, e che un libro sia bello solo se abilmente ornato dell'indifferenza delle rovine". La storia è senza esito, e dunque si svolge all'interno dell'universo claustrofobico e rovinoso della scrittura. Il pacco di lordura che l'Abate lascia sotto le finestre di Éponine, la colata escrementizia, il furore, la malattia danno un senso di soffocamento mescolato a "un'illimitata impudicizia fatta di grida, di escrementi". La poesia è l'uscita dai sentieri del logos abituale, ma è anche la tomba, in cui tutto si avvolge in una spirale infinita senza uscite.


534. Il labirinto della solitudine – Octavio Paz (1950)

[Il labirinto della solitudine, pubblicato in Italia nel 1990 da Mondadori e ormai fuori catalogo (sebbene alcuni siti lo diano ripubblicato nell'aprile 2013 da Editrice SE, ma non esiste alcun dato di quest'edizione), è una raccolta di nove saggi sull'identità messicana: 'Il Pachuco e altri estremi', ‘Maschera messicana’, ‘Il giorno dei Morti’, ‘I figli di La Malinche’, ‘La conquista e il colonialismo’, ‘Dall'indipendenza alla rivoluzione’, ‘L'Intelligence messicana’, ‘I giorni nostri’ e ‘La dialettica della solitudine’. Alcune edizioni contengono anche il saggio 'Post data', sul massacro del '68 di centinaia di studenti messicani, evento che spinse Paz ad abbandonare la sua posizione di ambasciatore in India.]


535. Il terzo uomo – Graham Greene (1950)

Graham Greene ha lavorato tantissimo per il cinema; il suo capolavoro in questo campo è la sceneggiatura per "Il terzo uomo", diretto nel 1949 da Carol Reed con Orson Welles e Alida Valli. Parallelamente alla sceneggiatura, Greene scrisse l'omonimo romanzo, pubblicato nel 1950. Nella versione narrata, la celebre vicenda dello scrittore Rollo Martins - che approda nella Vienna occupata dell'immediato dopoguerra e si trova invischiato nei loschi traffici del suo amico d'infanzia Harry Lime - non viene raccontata dal punto di vista del protagonista, come sullo schermo, ma da quello, più disincantato e ironico, del colonnello Calloway, l'ufficiale dei servizi segreti britannici sulle tracce di Lime. È in lui, più che nella disperata e sconvolta figura di Martins, che si ritrova quella capacità di non prendersi troppo sul serio, quel dono di saper cogliere l'aspetto ridicolo delle circostanze drammatiche che accompagnano le figure più riuscite del repertorio "spionistico" greeniano.


536. The 13 Clocks – James Thurber (1950)

Once upon a time, in a gloomy castle on a lonely hill, where there were thirteen clocks that wouldn’t go, there lived a cold, aggressive Duke, and his niece, the Princess Saralinda. She was warm in every wind and weather, but he was always cold. His hands were as cold as his smile, and almost as cold as his heart. He wore gloves when he was asleep, and he wore gloves when he was awake, which made it difficult for him to pick up pins or coins or the kernels of nuts, or to tear the wings from nightingales.
So begins James Thurber’s sublimely revamped fairy tale, The 13 Clocks, in which a wicked Duke who imagines he has killed time, and the Duke’s beautiful niece, for whom time seems to have run out, both meet their match, courtesy of an enterprising and very handsome prince in disguise. Readers young and old will take pleasure in this tale of love forestalled but ultimately fulfilled, admiring its upstanding hero (”He yearned to find in a far land the princess of his dreams, singing as he went, and possibly slaying a dragon here and there”) and unapologetic villain (”We all have flaws,” the Duke said. “Mine is being wicked”), while wondering at the enigmatic Golux, the mysterious stranger whose unpredictable interventions speed the story to its necessarily happy end.


537. Gormenghast – Mervyn Peake (1950)

Soverchiato dalla cima ad artiglio e dalle giogaie scoscese dell'omonimo monte, il reame di Gormenghast ha il suo centro in un immane agglomerato tirannico con le sembianze di un castello. Qui ogni antica bellezza si è corrotta in cupa fatiscenza: le mura sono sinistre «come banchine di moli», e le costruzioni si tengono tra loro «come carcasse di navi sfasciate». E qui, intorno al piccolo Tito – divenuto il settantasettesimo conte dopo la misteriosa morte di Sepulcrio –, si muovono gli esseri inconcepibili che sono la sostanza stessa di cui è composto il castello: la gigantesca contessa Gertrude, la madre, dalle spalle affollate di uccelli e dallo spumoso strascico di gatti bianchi; l'amata sorella Fucsia dai capelli corvini, che col suo abito cremisi infiamma i corridoi grigi; il fanatico custode delle leggi, Barbacane, nano storpio che raggela il sangue col secco schiocco della sua gruccia; e il gelido Ferraguzzo, che non cessa di ascendere verso il culmine della sua bramosia di potere. Prigioniero di riti decrepiti e di trame che falciano la sua livida Corte, Tito, che pure vorrebbe sfuggire a Gormenghast, dovrà combattere per salvare dal Male il cuore del castello – e trovare se stesso: perché forse un altrove non è nemmeno pensabile, e tutto conduce a Gormenghast. Nel secondo pannello della sua trilogia, Peake raggiunge il nucleo più oscuro di una narrazione che molti hanno paragonato, per vastità di respiro e potenza visionaria, al Signore degli anelli. In realtà egli va molto oltre, riuscendo a saldare in un travolgente flusso romanzesco il male della storia e il Male metafisico, e a far dono al lettore di una scrittura che fonde lo smalto imprevedibile dei colori alla precisione iperrealistica dei dettagli – quasi la "trascrittura" dell'arte di un pittore fiammingo gettato dal caso nel cuore di un altro mondo, che non abbandonerà più la nostra memoria.


538. L'erba canta – Doris Lessing (1950)

Nel Sudafrica degli anni Quaranta, Mary e Dick, poco più che trentenni, decidono di sposarsi più per solitudine che per amore e andare a vivere in una sperduta fattoria a coltivare la terra. Mary, abituata a vivere in città, mal sopporta il caldo e la fatica, la difficoltà di far fronte alla mancanza di agio e di benessere, lontana da tutto. Il sogno di una futura ricchezza si infrange perché Dick si rivela un inetto e un sognatore: non sa adeguarsi alle dure leggi della lotta per la sopravvivenza in un ambiente ostile, una terra che in realtà appartiene ai neri, agli oppressi. È proprio l'arrivo di Moses, un nero dall'espressione indecifrabile e dalla muta devozione, che provocherà la tragedia: un delitto che apre il racconto e che si spiegherà solo alla fine.


539. Io, Robot – Isaac Asimov (1950)

Pubblicata per la prima volta nel 1950, questa celebre antologia raccoglie i più significativi racconti che il più prolifico e famoso scrittore di fantascienza di tutti i tempi ha dedicato ai robot. È proprio in questo libro che Asimov detta le tre Leggi della robotica, che regolano appunto il comportamento delle "macchine pensanti" e che da allora in poi sono alla base di tutta la letteratura del genere.


540. La luna e i falò – Cesare Pavese (1950)

Pubblicato nell'aprile del 1950 e considerato dalla critica il libro più bello di Pavese, "La luna e i falò" è il suo ultimo romanzo. Il protagonista, Anguilla, all'indomani della Liberazione torna al suo paese delle Langhe dopo molti anni trascorsi in America e, in compagnia dell'amico Nuto, ripercorre i luoghi dell'infanzia e dell'adolescenza in un viaggio nel tempo alla ricerca di antiche e sofferte radici. Storia semplice e lirica insieme, "La luna e i falò" recupera i temi civili della guerra partigiana, la cospirazione antifascista, la lotta di liberazione, e li lega a problematiche private, l'amicizia, la sensualità, la morte, in un intreccio drammatico che conferma la totale inappartenenza dell'individuo rispetto al mondo.

 

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