L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
«La morte è un ottimo argomento di conversazione. Quasi fosse una cosa radicata negli esseri umani, e sono davvero poche le azioni compiute da molta gente nel corso della vita, di cui si parli in modo tanto esauriente e che vengano tanto amorevolmente analizzate, quanto quella di abbandonarla. Anche la persona più loquace ha le labbra sigillate, quando l’argomento di conversazione si sposta sulla procreazione o sulla nascita, e quanto ai dettagli intimi di un matrimonio, della crescita dei figli e della vita familiare, nel migliore dei casi vengono confidati solo agli amici più intimi.
Ma la morte è un’altra cosa. C’è quasi un piacere morboso nell’esaminare al microscopio l’ultima lenta malattia, corredata da tutti i suoi sintomi; e maggiore è la sofferenza, più lunga la malattia, più orribile la fine, più le teste si scuotono preoccupate.
E dunque, il trapasso di un anziano gentiluomo, che muore tranquillamente nel suo letto, di norma non darebbe adito a grandi conversazioni. Ma è un dato di fatto che esista un altro argomento su cui la gente ama soffermarsi ancor più che sulla morte. Quell’argomento è il denaro. Quindi, se si da il caso che l’anziano gentiluomo sia ricco, le teste verranno scosse con non meno vigore, ma ci si preoccuperà solennemente delle dimensioni del suo patrimonio, del modo in cui è stato accumulato e (cosa più importante di tutte) come –e in favore di chi- è stato lasciato in eredità.»
«Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.»
«'Cara scrittrice,
sono una studentessa siciliana, di un piccolo paese alle falde dell'Etna chiamato Santo Pellegrino. Sta di fronte a un'isola disgraziata eppure bellissima che lei conosce bene e che io amo ma di cui sento addosso i difetti come tante pulci affamate.
Mi chiamo Chiara. Questo non le dirà nulla, ma per me invece è molto, moltissimo. Su questo nome luminoso, cristallino, su questo nome che parla di trasparenze pensose, mi sto rompendo la testa. L'origine della scelta è semplice, quasi banale: mia madre è molto religiosa e ha voluto mettermi il nome di Chiara perché sono nata proprio il giorno in cui si festeggia la santa, l'11 agosto, che poi sarebbe il giorno della sua morte, perché il giorno della sua nascita non è noto come non si conosce con esattezza l'anno, il 1193 o il 1194. [...]'»
«Che peso ha una vita? E' il risultato delle nostre azioni costruttive e meritevoli, senza tener conto di quelle cattive? O è soltanto quello del corpo umano, messo sulla bilancia - novanta chili di vita?
Punto una pistola alla testa di mio figlio: peserà all'incirca sessanta chili, la pistola meno di uno. Un altro modo di vedere la cosa: la vita di mio figlio Lincoln pesa solo quanto la pistola che tengo in mano. O quanto il proiettile che sta per ucciderlo? E dopo lo sparo, avrà ancora un peso?
Ride. Sono terrorizzato. Premerò il grilletto e morirà, eppure sorride come se l'arma (il fetale metallo) che ha contro la testa fosse il dito di qualcuno che ama.
Chi sono? Come posso fare questo a mio figlio? Ascoltate...»
«Urania. I genitori non le avevano fatto un favore; il suo nome dava l'idea di un pianeta, di un minerale, di tutto tranne che della donna snella e dai tratti sottili, dalla carnagione bruna e dai grandi occhi scuri, un po' tristi, che lo specchio le rimandava. Urania! Ma che bella invenzione. Per fortuna più nessuno la chiamava così, ma Uri, Miss Cabral, Mrs Cabral o Doctor Cabral. A quel che ricordava, da quando era venuta via da Santo Domingo («O meglio, da Ciudad Trujillo», quando era partita non avevano ancora restituito il suo nome alla capitale), né a Adrian, né a Boston, né a Washington D.C., né a New York, nessuno l'aveva più chiamata Urania, come prima a casa sua e al Colegio Santo Domingo, dove le sisters e le sue compagne pronunciavano in modo ultra-corretto l'insensato nome che le avevano inflitto alla nascita. Poteva essergli venuto in mente a lui, a lei? Troppo tardi per accertarsene, ragazza; tua madre ormai era in cielo e tuo padre un morto vivente. Non lo saprai mai. Urania! Assurdo quanto fare quell'affronto all'antica Santo Domingo de Guzmàn chiamandola Ciudad Trujillo. Anche quella era stata forse un'idea di suo padre?»
«Oggi è stato il mio compleanno, ho compiuto diciassette anni, sono un "seventeen". La mia famiglia, papà, mamma e mio fratello, tutti lo hanno ignorato o hanno finto di ignorarlo. Allora anch'io ho taciuto.
La sera mia sorella, infermiera presso l'ospedale dell'esercito di difesa, è tornata a casa ed è venuta in bagno mentre mi stavo insaponando a dirmi: «Diciassette anni anni eh, non hai voglia di prenderti in mano la carne?» A causa di una forte miopia deve portare gli occhiali e se ne vergogna, convinta per questo che non si sarebbe mai sposata è entrata nell'ospedale militare. Mentre si disinteressa del progressivo peggioramento della vista non fa altro che leggere libri "a tutto spiano". Anche quelle parole che mi ha detto le avrà di sicuro rubate da qualche libro. Comunque almeno uno della mia famiglia s'è ricordato del mio compleanno, intanto che mi lavo questo mi solleva, anche solo per poco, dal senso di solitudine. Poi mentre continuo a rimuginare sulle sue parole, tra la schiuma del sapone improvvisamente il pene mi diventa duro e vado a chiudere a chiave la porta del bagno.»
«JUNE 21, 1895
Bombay, India
“PLEASE TELL ME THAT’S NOT GOING TO BE PART OF MY birthday dinner this evening.”
I am staring into the hissing face of a cobra. A surprisingly pink tongue slithers in and out of a cruel mouth while an Indian man whose eyes are the blue of blindness inclines his head toward my mother and explains in Hindi that cobras make very good eating.
My mother reaches out a white-gloved finger to stroke the snake’s back. “What do you think, Gemma? Now that you’re sixteen, will you be dining on cobra?”»
«Questo è un racconto sulla magia, su dove va e, cosa forse più importante, da dove viene e perché, sebbene non pretenda dare una risposta a tutti questi interrogativi. O a nessuno di essi.
Tuttavia può contribuire a spiegare perché Gandalf non si era mai sposato e perché Merlin era un uomo. Perché questo è anche un racconto sul sesso. Anche se, probabilmente, non nel senso di atletiche acrobazie molto spinte. A meno che i protagonisti non sfuggano totalmente al controllo dell'autore. Il che è possibile.
Comunque, questo è anzitutto il racconto di un mondo. Eccolo che viene. Osservate con attenzione, gli effetti speciali sono assai costosi.
Risuona una nota bassa. È un accordo profondo, vibrante. Annuncia che la sezione degli ottoni può intonare da un momento all'altro una fanfara per il cosmo. Perché lo scenario raffigura la tenebra del profondo spazio, rotta da poche stelle brillanti come la forfora sulle spalle di Dio.
Poi in alto appare, più grande del più grande e temibile incrociatore stellare mai concepito dall'immaginazione di un produttore cinematografico megalomane: una tartaruga, lunga diecimila miglia. È la Grande A'Tuin, uno dei rari astrochelonidi provenienti da un universo dove le cose sono meno di come sono e più come la gente immagina che siano. Trasporta sul suo guscio costellato da crateri di meteore quattro giganteschi elefanti, che sorreggono sulle loro spalle enormi la grande ruota del mondo-Disco.
Via via che la scena gira, l'intero mondo si fa visibile alla luce del suo minuscolo sole orbitante. Ci sono continenti, arcipelaghi, mari, deserti, catene montuose e al centro perfino una piccolissima calotta ghiacciata.
Gli abitanti di questo luogo, è ovvio, non si preoccupano di teorie globali. Il loro mondo, circondato da un oceano che precipita senza sosta nello spazio in una enorme cascata, è tondo e piatto come una pizza geologica, sebbene senza le acciughe.
Un mondo simile, che esiste soltanto perché agli dei piace scherzare, è un luogo dove la magia può sussistere. E anche il sesso, naturalmente.»
«Quel giorno quando tornai a casa e vidi mia madre di sfuggita, pensai che fosse insolito che girasse per casa in accappatoio. Sì, insomma, strano. Non mi sembrava che avesse i capelli avvolti nell’asciugamano, né che fossero bagnati, tra l’altro, ma lì per lì non ci feci troppo caso. Ero più impegnata a temere che la mia divisa si fosse fusa con la mia pelle in quel caldo appiccicaticcio, così andai in soffitta a prendere dei vestiti puliti, e trovai mia madre, col suo usuale grembiule da casa, che stirava. Ci voleva il coraggio suo per stirare con 30 gradi all’ombra in un’area non ventilata, ma non fu quello che mi turbò.
«Ma tu non eri di sotto?»
Mia madre giustamente mi guardò per un attimo come se fossi pazza, poi passò all’empatia mentre pensava semplicemente “il caldo l’ha rincoglionita”.
«’more de mamma, non sarà mica il caso di mettersi un cappello quando vieni a casa?» mi disse infatti con una punta di ilarità, ma anche con tutta l’amorevolezza possibile.
E rincoglionita pensai d’esserlo pure io (non era poi così improbabile), fino a quando arrivai al pianerottolo coi vestiti puliti e vidi Elena, mia sorella, probabilmente venuta a prendere chissà cosa, che salutava l’altra madre (quella con l’accappatoio addosso, per intenderci) con uno sguardo un po’ stranito. «Perché vai in giro così?» Allora non ero matta, cazzo.
La madre in accappatoio non rispose, piuttosto spostò la sua attenzione verso di me.
«Mammaaaa...» chiamai, con una certa urgenza nella voce.
La madre in accappatoio rispose «Sì, tesoro?»
La madre in soffitta, invece, col suo usuale, tamarrissimo: «EH?»
In dialetto le dissi di venire giù, mentre comunicavo a cenni facciali con Elena, che subito spinse la confusa mamma in accappatoio in cucina. Nel frattempo trovai un martello che mio padre teneva sul pianerottolo insieme ad altri attrezzi, poi spinsi la madre in soffitta ad andare in cucina insieme a Elena e la madre in accappatoio.
La madre in grembiule ebbe una strana reazione nel vedersi in accappatoio ma senza l’aiuto dello specchio. «Ma che è un...?» ci chiese.
«Mi sa.» rispose Elena.
«Embè in accappatoio? Guarda là, mi si vede tutto!»
Di tutte le cose che poteva dire questa non me l’aspettavo, tanto più che non era vero che si vedeva tutto, ma tant’è. «Cazzo ne so, ma’, questi cosi sono tutti strani.» risposi io.
La mamma in accappatoio intanto non faceva una piega.
«Alla tv non sono così tranquilli. Cioè, guardala, non dice niente.» disse Elena.
«In accappatoio!» insistette mia madre, evidentemente turbata dalla scelta d’abbigliamento della sua sosia.
«Ma scherzi, c’è da farla fuori!» esclamai io.
«Ho capito che c’è da farla fuori, ho solo detto che non sono così pericolosi come dicono in tv.» ribatté Elena.»
«Quando si trattò di avere per la prima volta a pranzo il signor di Norpois, siccome mia madre diceva che era proprio un peccato che il professor Cottard fosse in viaggio e che lei avesse smesso del tutto di frequentare Swann, perché l'uno e l'altro avrebbero di certo interessato l'ex ambasciatore, mio padre rispose che un convitato eccellente, un illustre scienziato come Cottard non poteva mai sfigurare in un pranzo, ma Swann con la sua ostentazione, e quel suo modo di strombazzare le conoscenze più insignificanti, era un volgare sbruffone che il marchese di Norpois avrebbe di sicuro giudicato, secondo la sua espressione, "pestifero".
Ora questa risposta di mio padre richiede qualche parola di spiegazione: alcuni ricorderanno forse un Cottard molto mediocre e uno Swann che portava alla più estrema delicatezza, in materia mondana, modestia e discrezione. Ma per quanto riguarda il secondo era accaduto che allo "Swann figlio" e anche allo Swann del Jockey, il vecchio amico dei miei genitori aveva aggiunto una qualità nuova (e che non doveva essere l'ultima), quella di marito di Odette.»
0 Commenti a “La vetrina degli incipit - Novembre 2013”
Posta un commento