L'autore
Classe 1970, lavoratore aeroportuale turnista, è a un solo esame dalla laurea in Giurisprudenza. Ha pubblicato due brevi romanzi: Memorie di un pony express (Ibiskos, 2007) e L’Attore (MJM, 2010). Dal 2008 cura la rubrica Calcio mancino sul settimanale “left” e fino al 2010 è stato collaboratore del quotidiano ecologista “Terra”, organo d’informazione della Federazione dei Verdi. Vive tra Roma e Barcellona dove, appena può, vola da suo figlio Valerio.
Il libro
"Se in campo con la maglia numero uno c'è Albert Camus, è il caso di dire che quello del portiere è il ruolo più letterario del calcio. E non banalmente perché vinse il premio Nobel per la letteratura, ma perché chi gioca tra i pali sviluppa la capacità di osservare da un punto di vista diverso: da dietro, dall'alto di un volo sotto la traversa, strisciando sui gomiti o raggomitolato con la terra in bocca. Il portiere, come lo scrittore, è l'estremo difensore, è solo, e la sua visione del mondo è quella di chi si oppone, lotta e si arrende per ultimo. Attraverso una scrittura mai scontata, Emanuele Santi intreccia la storia del calcio e quella dell'Algeria ancora colonia francese con gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza di Camus, mostrando come proprio le memorie vive di portiere abbiano favorito, se non determinato, la scrittura di un romanzo dirompente e immortale come Lo straniero."L'intervista
1. Nella prefazione parli di com’è nata l’idea di redigere questa biografia, incrocio ben riuscito tra sport e letteratura. Quanta influenza hanno avuto lo sport e la letteratura nella tua vita?
Confesso che di sport non ne ho praticato tantissimo. Quattro brevetti di nuoto fino a nove anni e, ovviamente, pallone, pallone e pallone. Di ufficiale, però, solamente un paio di stagioni nei pulcini del Don Orione, a Monte Mario, e poi tantissime battaglie e corse senza regole tra i cortili di scuola, i parchi pubblici, i giardinetti del quartiere e, naturalmente, i campetti mattonati delle parrocchie (mai frequentate per altri motivi). Fino alle scuole medie mi piaceva giocare anche in porta. La letteratura, invece, è qualcosa che entra nella vita di ciascuno senza che ce ne possiamo rendere conto immediatamente. Ciò che leggi ti scava dentro, ti penetra come l’acqua, ti riempie. Questo vale anche per la musica che ascolti, per i film che vedi e che ti restano impressi, così come per le opere teatrali, per i quadri e per tante altre cose. Con la letteratura uno ci cresce. Ci sono libri per bambini, libri per ragazzi, libri per tutte le età. I libri che uno legge se li ritrova dentro come memorie più o meno inconsapevoli, come bagaglio culturale, appunto, come patrimonio di idee.
2. Chi sono i tuoi autori preferiti? E gli sportivi preferiti?
Il numero uno, in tutti i sensi, è Albert Camus. Ormai è il mio idolo. Ho amato e amo anche altri scrittori e per tanti motivi diversi. Un po’ per la vita che hanno fatto, un po’ per l’impegno sociale o culturale o politico. Lo scrittore, secondo me, deve essere per definizione impegnato. Volendone citare alcuni direi Fedor Dostoevsky, impiegato statale nella Russia zarista, e Joseph Conrad, semplice marinaio o migrante ante litteram che scriveva in un inglese lontanissimo dalla sua lingua madre. Anche Franz Kafka, per scrivere, aveva ripiegato sulla seconda lingua parlata a Praga: il tedesco. Discorso a parte merita Charles Bukowski che, a un certo punto, ha lasciato il suo lavoro alle poste per fare soltanto lo scrittore, cioè il barbone. Per quanto riguarda gli sportivi, limitiamoci ai soli calciatori altrimenti parleremmo per ore e ore. Sono nato nel 1970 e, quando ho cominciato a vedere le partite di pallone, Beckenbauer, Cruyff e Pelè erano già in America, al circo. I campioni per me erano soltanto gli azzurri del mundial argentino e impazzivo per Kevin Keegan e per Rob Rensenbrink. Poi la Roma prese un ragazzo che si chiamava Carlo Ancelotti, l’anno dopo arrivò Falçao e iniziò l’età dell’oro. Tra Zico e Maradona, all’inizio, preferivo il brasiliano, almeno fino a quando Diego non venne a giocare a Napoli. All’Olimpico l’ho visto un sacco di volte ma soltanto mentre piangeva, dopo la finale mondiale persa contro la Germania, ho capito che è stato lui il più forte di tutti. Adesso non esistono più campioni capaci di vincere le partite da soli. L’ultimo, forse, è stato Zidane il berbero.
3. Quanto è stata utile la passione per lo sport per farti comprendere meglio il giovane Camus?
Tantissimo. È stata necessaria proprio per quella chiave di lettura originale di un capolavoro come Lo straniero. Chiave di lettura che caratterizza l’idea stessa alla base del mio libro. La passione di Camus per il calcio attraversa dapprima la sua infanzia e poi la sua adolescenza. Infanzia e adolescenza sono i periodi più belli della vita o quantomeno i periodi fondamentali in quanto condizionano il modo di essere di ciascuno. Questa passione giovanile di Camus ha sicuramente influenzato il suo modo di scrivere e di guardare le cose. Egli stesso ha riconosciuto l’importanza del calcio nella sua formazione umana e morale. Si potrebbe addirittura azzardare che sia sempre riuscito respingere gli attacchi della tubercolosi proprio perché non ha mai perso quella voglia di vivere che ha caratterizzato la sua gioventù sotto il sole di Algeri.
4. Il capitolo dedicato a Zamora, leggendario portiere spagnolo a cavallo tra gli anni ’20 e ’30, ci riporta all’infanzia di Camus. Com’è nata l’idea di usare un personaggio pubblico molto lontano dal mondo di Camus?
Non è vero che Zamora fosse lontano dal mondo di Camus, anzi. Tra Zamora e Camus ci sono dodici anni di differenza e le due sponde opposte del Mediterraneo. Ad Algeri, Zamora era amatissimo dall’intera comunità spagnola e stimato anche dalla francese. Quando Camus entra al liceo Bugeod, Zamora è l’idolo della prensa (la stampa di lingua casigliana) e dei tifosi dell’Espanyol di Barcellona. Nel 1930, quando il ragazzo diciassettenne è colpito dall’attacco di tubercolosi che lo costringerà a smettere di giocare, Zamora ha appena firmato un contratto stellare con il Real Madrid. Per l’Albert Camus portiere, Ricardo Zamora è un vero e proprio riferimento, è un modello. È il più forte numero uno insieme al parigino Pierre Chayrigues beniamino di tutti i francesi di Algeri.
Il parallelo che viene fatto nel capitolo intitolato “L’età di Ricardo Zamora” riguarda il rapporto dei due personaggi (Zamora e Camus) ciascuno con la propria figura paterna. Il padre del titolare della Nazionale spagnola era un medico e pretendeva che il figlio proseguisse gli studi per fare la sua stessa professione. Il papà di Albert Camus invece era morto in guerra, nella battaglia della Marna, quando il figlio non aveva nemmeno un anno. Entrambi realizzano una propria identità senza alcuna identificazione col genitore. Zamora diviene il portiere più forte di sempre e Albert Camus (bloccato nell’attività agonistica dalla tubercolosi) diviene uno scrittore destinato al Nobel per la letteratura. Il tutto negli anni ‘30, gli stessi in cui si afferma il dogma psicoanalitico della realizzazione attraverso l’identificazione col padre.
5. Com’è cambiato il tuo rapporto con Camus dopo aver scritto Il portiere e lo straniero?
Enormemente. Ormai non posso più permettermi di smettere di studiarlo. Posso dire di essermi tradito con le mie stesse mani, me la sono andata a cercare. È un po’ come quell’espressione: “Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala!” Battute a parte, credo che l’attualità del pensiero di Camus, soprattutto nell’anno in cui cade il centenario della nascita, ritorni con una certezza sconvolgente. Nella mia ricerca per scrivere Il portiere e lo straniero, ho avuto modo di approfondire tantissime cose e di scoprire il valore universale della sua Opera. Opera che è sempre fonte di spunti per idee nuove ed originali. Nella premessa del libro, infatti, avevo messo le mani avanti e confessato tutte le mie paure e tutte le mie preoccupazioni nel voler provare a raccontare un gigante come Albert Camus attraverso il suo amore per il calcio e per il ruolo di portiere. Ciò non mi esonera tuttavia dal continuare a leggerlo e a studiarlo. Anche perché ogni volta che lo leggo mi sembra sempre diverso.
6- Nel primo capitolo c’è scritto: “L’Algeria è un Paese ricco di passione, ricco di luce, di mare, di sale, di colori, di pietra, di deserti e di rivincite. L’Algeria è ricca di genti, di popoli, di costumi, di porti, di misteri e di città vecchie”. Quanto del Paese del giovane Camus hai ritrovato?
In realtà poco. Se non dal solo punto di vista paesaggistico e (citando il grande Bruno Pizzul) squisitamente architettonico. Ho dovuto rivivere i luoghi, respirare l’aria, gli odori, far lavorare la fantasia. Mi serviva essere lì, ad Algeri. Troppe cose non sono più come prima. E non si può dire che per alcune cose sia meglio così e per altre no. È fuori discussione che l’Algeria debba essere degli algerini e non più francese come intendeva qualcuno fino a mezzo secolo fa. Proprio su questo argomento Albert Camus la pensava come nessun altro, proprio perché secondo lui l’umanità non si può distinguere in base alla nazionalità. Egli per primo si definiva algerino e non francese.
Il quartiere di Belcourt, dove era cresciuto il piccolo Albert, era un quartiere popolare, una borgata di periferia in cui vivevano i salariati francesi, gli spagnoli, gli italiani, i maltesi e ovviamente gli arabi. Oggi, le strade ed i quartieri hanno nomi diversi e hanno perso molto dell’aspetto di una volta, come ogni città dopo circa un secolo. La comunità europea che viveva un tempo in Algeri si è drasticamente ridotta. Le stesse squadre di calcio di matrice coloniale: il maggior sodalizio francese o quello del quartiere spagnolo, così come tanti altri, non esistono più. Sono rimaste soltanto le squadre fondate dagli arabi, i primi veri e propri campanelli della rivolta. L’Algeria indipendente ha il suo campionato unico nazionale mentre l’Algeria francese era divisa nelle tre Leghe di Orano, di Algeri e di Costantina. Io ho potuto vedere il vecchio stadio del quartiere di Bab el Oued che, una volta, era la tana inespugnabile del Saint Eugene. Adesso ha l’erba sintetica e ci gioca l’USM che ha le stesse maglie del Milan.
7. Per tutto l’arco de “Il portiere e lo straniero” si nota una forte passione per la storia sia politica che calcistica. Qual è la tua opinione sul cambiamento dei valori che vengono attribuiti oggigiorno a questi due tipi di attività rispetto al passato?
Sarebbe un discorso lunghissimo. Calcio e storia vanno di pari passo. Così come calcio e politica. Ne parlo a settimane alterne sulla mia rubrica ‘Calcio mancino’ che compare su Left, la rivista che esce in edicola il sabato insieme a L’Unità. Il calcio senza legami con la storia (almeno quella contemporanea) e con la politica non starebbe in piedi. Ne sono stati esempi il calcio propagandistico delle dittature, il dilettantismo dei paesi dell’Est, il paradosso del calcio miliardario dei Paesi poveri. E ne è esempio la perenne proporzionalità inversa tra il benessere di una determinata società e la spettacolarità del suo campionato nazionale. Senza il calcio, poi, la politica stessa sarebbe molto più difficile, forse impossibile. Nell’82, per fare un facile esempio, il governo Spadolini aumentò il prezzo della benzina col popolo in piazza a festeggiare la tripletta di Paolo Rossi al Brasile a pochi giorni di distanza da un ridicolo pareggio contro gli indomabili leoni del Camerun scesi in campo miracolosamente addomesticati. Oppure si può ricordare come, ai mondiali del ‘94, gli azzurri giunsero in finale senza il pieno sostegno dell’intera nazione. Un po’ per colpa del gioco stucchevole di Sacchi, un po’ perché “Forza Italia” era diventata un’espressione tabù.
Se vogliamo parlare di cambiamenti, non lo dico io che il calcio di oggi è diventato bruttissimo. Che gli stadi siano sempre più vuoti è una sconfitta di tutti. Però la colpa non è soltanto della televisione. Che gli spogliatoi di uno stadio di serie A vengano presentati come i camerini delle ballerine è davvero ridicolo. Così come è vergognoso che i commentatori e gli opinionisti, soprattutto sulle reti statali, siano quasi tutti stati coinvolti negli scandali del totonero degli anni ’80. Il calcio, come sappiamo, è sempre lo specchio del Paese in cui esso viene giocato. Una buona fetta di colpa, allora, va attribuita anche alla politica. Una politica che, soprattutto a sinistra, non ha più idee. E allora preferisco non continuare.
8. A quale portiere odierno assomiglierebbe il giovane Camus? E quali scrittori odierni secondo te ne hanno subito maggiormente l’influenza?
Camus non aveva un fisico esplosivo, era piccolo, crebbe soltanto verso i quindici anni. Pensando a portieri recenti con i capelli biondo-scuro o castano-chiaro, me ne vengono in mente pochi. Il norvegese Thordsvedt o l’olandese Van Breukelen erano due giganti e, comunque, troppo nordici nei lineamenti.
Anche Jackie Munaron, dell’Anderlecht, aveva i capelli biondi seppure più voluminosi rispetto a Camus con il quale, tuttavia, aveva in comune una storia di emigrazione alle spalle grazie ai suoi antenati veneti andati a lavorare in Belgio. E lo stesso discorso potrebbe valere per lo svedese Thomas Ravelli. Più simile a Camus, allora, sia per l’aspetto che per la reattività, può essere stato il polacco Jerzy Dudek.
Scrittori influenzati da Camus? Potrei salvarmi in calcio d’angolo (immagine più che appropriata) dicendo: tantissimi. Ma sarebbe troppo facile e troppo comodo. Allora provo a cavarmela con un nome soltanto: Josè Saramago. Innanzitutto per lo stile. Assoluto, puro, asciutto, lineare, limpido. Uno stile che descrivendo le cose, allo stesso tempo, ne rappresenta altre. Le intermittenze della morte dello scrittore portoghese, per fare un esempio, inizia con la frase: “Il giorno seguente non morì nessuno”. Secondo me è un incipit tipicamente camusuiano.
Saramago, come Camus, è uno scrittore mediterraneo, è un intellettuale del mediterraneo, è uno scrittore impegnato. E, soprattutto, requisito difficilmente riscontrabile in tanti autori del ‘900, è uno scrittore ateo.
9. Quali saranno i tuoi prossimi progetti?
Da circa un anno, sto lavorando insieme ad una mia amica attrice ad una sceneggiatura (non sappiamo ancora se cinematografica o televisiva) sempre a sfondo storico calcistico ma, per ovvie ragioni, non posso dire di più. Intanto continuo regolarmente a scrivere su Left con cui posso vantare ormai un legame molto particolare. La mia rubrica, infatti, sopravvive dopo quasi sei anni di collaborazione e risulta sempre molto seguita ed apprezzata.
Per un eventuale prossimo libro, invece, mi trovo ancora nell’altissimo mare dell’elaborazione delle idee. E le idee, come sappiamo, sono sempre le cose più difficili.
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