Recensione
Nell'entroterra siciliano, in una campagna arida e sassosa in mezzo a cui si ergeva una masseria senza servizi, composta da nove stanze più cucina, convivevano le famiglie dei fratelli Paolo e Salvatore Gallo. Salvatore era vedovo con due figli minori. Paolo era maritato con Cristina Giannone e aveva due figlie anch'esse minori. La cucina, essendo in comune, era giocoforza il luogo d'incontro delle due famiglie. In essa finivano spesso per litigare per futili motivi i due padroni di casa. A fomentare questi scontri, si può immaginare intervenisse anche la moglie di Paolo, come sanno fare in genere le donne quando vogliono essere petulanti.
Salvatore Gallo era un pezzo d'uomo, mentre il fratello Paolo era piuttosto mingherlino, di colorito giallognolo e un po' sbilenco, tanto che era stato soprannominato Sacchitteddu. Possiamo anche immaginare che Paolo Gallo, stanco di minacce da parte del fratello maggiore e dei brontolamenti della moglie, decidesse di dileguarsi.
Sotto questo aspetto il caso potrebbe far venire in mente Il fu Mattia Pascal, come se, tuttavia, invece che dalla penna del Pirandello, fosse stato scritto dal Verga. I personaggi sono infatti tutti povera gente, sempre emotivamente ondeggianti fra commozione e ira. Il dramma era in agguato e, fatalmente, colpevoli ed innocenti ne furono le vittime.
Dati i noti pessimi rapporti fra i fratelli Gallo, sfocianti spesso anche nello scontro fisico, quando la moglie di Paolo, non vedendolo tornare a casa, accusò il cognato dell'uccisione del fratello, le forze dell'ordine non ebbero dubbi sulla colpevolezza di Salvatore di fronte a prove indiziarie, quali tracce di sangue a terra e il cappello della presunta vittima abbandonato. Salvatore venne arrestato, processato e condannato all'ergastolo per omicidio e occultamento di cadavere. Il figlio Sebastiano fu condannato invece per complicità nell'omicidio dello zio. I magistrati erano talmente sicuri della colpevolezza di Salvatore da accusare di falsa testimonianza e costringere a ritrattare coloro che asserirono di aver incontrato in seguito Paolo vivo. Venne pertanto ribaltato il principio della presunzione d'innocenza e ciò è tanto più grave se si pensa che il giudizio venne confermato in tre gradi di processo. Sarà comunque un avvocato della difesa, aiutato da un giornalista, a dimostrare l'innocenza di Salvatore, riuscendo a rintracciare Paolo Gallo che non si era allontanato molto dalla dimora abituale.
Non è facile comprendere il motivo di questi ripetuti errori giudiziari, pur convenendo che diversi elementi contribuirono a determinare il giudizio della magistratura, spesso indifferente ai problemi dei non abbienti:
-le gravi prove indiziarie;
-il racconto confuso e talvolta incoerente dei fatti da parte dei presunti colpevoli, tale da rendere poco credibili le loro affermazioni;
-la tradizionale reticenza a parlare con le autorità da parte dei testimoni;
-lo scalpore che fece il delitto, le cui modalità furono talmente gonfiate dal passaparola, che i bambini venivano spaventati non più con la minaccia dell'arrivo dell'uomo nero, ma con quella della discesa dai monti del crudele Salvatore Gallo.
Di Stefano ripercorre i fatti di cronaca, fedele agli atti processuali, romanzando dove possibile per far partecipe il lettore del pathos di gente povera ed analfabeta, abituata solo al lavoro dei campi e ad accudire il bestiame; gente che non riusciva a capire e a farsi capire dagli estranei, poco abituata com'era a scambiare opinioni che non vertessero sulle cose di tutti i giorni nella ristretta cerchia dei familiari e dei vicini.
Di Stefano scrive bene e riesce rendere avvincenti gli avvenimenti, ancorché essi siano noti. Le frasi inserite in dialetto siciliano non assomigliano a quelle all'acqua di rosa cui ci ha abituato Camilleri. Fortunatamente, per chi non è abituato al dialetto siculo, i personaggi sono poco loquaci, in caso contrario sarebbe stata necessaria una traduzione a fondo pagina.
Questo romanzo può annoverarsi fra i legal-thriller, ma le arringhe di accusa e difesa non sono simili a quelle che siamo abituati a leggere nei gialli americani. Nei processi italiani quello dell'arringa è il momento in cui i legali possono finalmente esprimere la propria oratoria, oratoria che può protrarsi per ore nel tentativo di sopraffare la logica con la retorica.
Talmente grotteschi sono gli avvenimenti narrati da Di Stefano che, per quanto drammatici, spesso risultano anche comici. Essi sono in ogni caso una denuncia contro uno Stato che non vuole quasi mai riconoscere i propri errori.
Ma quale fu il vero motivo per cui Paolo Gallo decise di scomparire? E la moglie sapeva? Alla prima domanda Paolo Gallo si giustifica dicendo che si era nascosto temendo per la propria vita, date le minacce del fratello. Il tribunale credette a questa affermazioni, tant'è che Salvatore Gallo venne condannato a quattro anni di carcere che non dovette scontare avendone già trascorsi sette. Per quanto riguarda la seconda questione, alcuni testimoni asserirono di aver visto la moglie di Paolo raggiungerlo qualche notte nei luoghi in cui si nascondeva, ma la cosa non fu mai accertata. Le vittime non vennero mai indennizzate per gli anni passati in prigione e le loro proprietà, trascurate per tanti anni, dovettero essere liquidate.
Anche se i fatti sono risaputi, è un libro che si legge con interesse. Di Stefano ha saputo creare la giusta atmosfera di aspettativa e mostrarci un realistico spaccato di vita agricolo-montanara in Sicilia.
Giudizio:
+4stelle+Dettagli del libro
- Titolo: Giallo d'Avola
- Autore: Paolo Di Stefano
- Editore: Sellerio
- Data di Pubblicazione: 2013
- Collana: La memoria
- ISBN-13: 9788838930171
- Pagine: 340
- Formato - Prezzo: Brossura - Euro 14,00
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