L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Sono stato molte volte infelice nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quel che si dice il fondo della disperazione. E tuttavia ricordo pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l’ottobre del 1929 e il giugno del ’30, quando facevo la prima liceo. Gli anni trascorsi da allora non sono serviti a niente, tutto sommato: non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là, intatto, come una ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne? Liberarmene? Ormai so bene che non è possibile. Se adesso ne scrivo, dunque, è soltanto nella speranza di capire e far capire. Non vado in cerca di altro.»
«When he was nearly thirteen, my brother Jem got his arm badly broken at the elbow.
When it healed, and Jem’s fears of never being able to play football were assuaged, he was seldom self-conscious about his injury. His left arm was somewhat shorter than his right; when he stood or walked, the back of his hand was at right angles to his body, his thumb parallel to his thigh. He couldn’t have cared less, so long as he could pass and punt. »
«Parigi, così come si vede da una finestra, sotto i tetti della Butte o di Montparnasse, di sera. Le luci lungo la Senna, i comignoli, la nebbia autunnale. Piove. La città vista dalla Tour Eiffel fino a Notre-Dame. Un'impressione di quieta grandezza. Prima, un'immagine silenziosa, poi il dolce brontolio di Parigi, simile alla vibrazione di una corda di violino. In lontananza, il fischio di un treno, alcuni colpi di clacson, resi più dolci, sfumati, dalla distanza. Il ticchettio della pioggia su una lunga strada. Alcune case simili, poco illuminate, con le persiane abbassate. Una di queste case con sopra scritto: Hôtel des Artistes. In alto, una finestrella aperta, illuminata.»
«Il mostruoso essere bianco avanzava nella distesa di ghiaccio. Per quello che si poteva intravedere nella bufera di neve, era un gigantesco verme peloso, strisciante su molte zampe, lungo una ventina di metri. Aveva quattro occhi rossi e protuberanze sul dorso. Si fermò, sollevò un istante la minuscola testa e cambiò direzione. Solo quando fu più vicino si poté vedere chiaramente cos'era. Erano quattro orsi bianchi, uno dietro l'altro, legati a treno, con redini. Ognuno portava in testa una luce rossa di posizione, e sul dorso due uomini: uno sherpa con la tuta gialla dei thalarctotassisti e un passeggero. L'orso guida, che portava la sigla Hawaii 8, si fermò di nuovo e fiutò l'aria nervosamente.
"Avanti, Baiard," gridò lo sherpa, "quasi ci siamo!".»
«Era l’anno 1939, il nono giorno dell’ottavo mese del calendario lunare. Quel bandito di mio padre aveva poco più di quattordici anni. Stava andando con il drappello del Comandante Yu Zhan’ao, la cui fama di eroe leggendario si sarebbe diffusa poi in tutto il Paese, sulla strada Jiao-Ping a tendere un’imboscata a un convoglio giapponese. Mia nonna, con una giacca imbottita gettata sulle spalle, li aveva accompagnati al limite estremo del villaggio. Il Comandante Yu le aveva detto: – Non seguirci oltre, – e la nonna si era fermata. – Douguan, obbedisci al tuo padre adottivo, – aveva detto lei rivolgendosi a mio padre. Mio padre non fiatò; guardò l’imponente figura della nonna e respirò il profumo caldo del corpo che proveniva da sotto la giacca. A un tratto avvertì un freddo pungente, fu scosso da un brivido, e il suo stomaco si mise a brontolare. Il Comandante Yu gli diede un buffetto sul capo dicendo: – Andiamo, figlio adottivo. Il cielo e la terra si confondevano, il paesaggio appariva indistinto. In lontananza si udiva lo scalpiccio dei passi dei soldati. Una cortina di nebbia bluastra era calata davanti agli occhi di mio padre, impedendogli la vista: riusciva a udire solo il rumore dei passi della truppa, senza poter scorgere i corpi degli uomini o le loro sagome. Si muoveva veloce tenendosi stretto alle vesti del Comandante Yu. La nonna si allontanava sempre di più come fosse una spiaggia, e la nebbia, come l’acqua del mare, si levava turbolenta man mano che si addentravano. Mio padre si aggrappava al Comandante Yu come al bordo di una barca. Fu così che mio padre corse verso la tomba in pietra nera e senza nome che gli appartiene e sovrasta i campi di sorgo rosso del suo paese natale. L’erba, sulla sua tomba, fruscia ormai avvizzita. Un giorno, un ragazzino nudo dalla cintola in giù condusse fin qui una capra bianca come la neve; mentre quella brucava l’erba della tomba in tutta tranquillità, il ragazzo pisciò con furia contro la lapide e poi si mise a cantare a gran voce: – Il sorgo è diventato rosso… i giapponesi sono arrivati… compatrioti preparatevi a combattere… con fucili e cannoni…»
«Il palco davanti al Solliden, a Skansen. 27 giugno 2007. Mancano dieci minuti alle otto. Il presentatore scalda il pubblico intonando Questo strano desiderio di andar via. Un tecnico chiede ai genitori di non tenere i bambini sulle spalle per evitare che siano colpiti dai bracci delle telecamere.
Il sole splende dietro il palco, abbagliando tutta quella gente. Il cielo è blu scuro. Lo stesso tecnico chiede ai ragazzi dietro le transenne di spostarsi un po' più indietro per non correre il rischio di restare schiacciati. Il più noto programma musicale svedese andrà in onda fra cinque minuti, e non deve succedere niente di brutto.
C'è bisogno di tranquillità in cui poter mettere da parte le preoccupazioni di tutti i giorni sapendo che lì non succederà niente di brutto. Sono state adottate tutte le misure di sicurezza possibili a tutela di questa atmosfera accogliente.
Non dovranno esserci urla di dolore e di spavento né sangue per terra e sulle panchine alla fine del programma. Non dovranno esserci morti sul palco o lì davanti. Il caos non è consentito. C'è troppa gente. Tutto deve scorrere in modo tranquillo e piacevole.»
«Patrick's house was a ghost. Dusta coated the windows, the petunias in their flowerboxes bowed their heads, and spiderwebs clotted the eaves of the porch. Once I might have marveled at the webs- how delicate they were, how intricate - but today I saw ghastly silk ropes. Nooses for sawflies and katydids and anything guileless anought to be ensnared.
Movement caught my attention to the upper corner of the porch, were a large web swayed as if it was alive. I stepped closer, and a sour taste rose in my throat. A mourning cloak was trapped within a mass of threads. One wing was pinned to its nody, but the other wong, dark brown rimmed with gold, fluttered feebly.
The golden wing made me think of Mama Sweetie, Patrick's grandma.»
«Avevo la pasta sul fuoco in cucina, quando squillò il telefono. Alla radio davano la Gazza Ladra di Rossini, il sottofondo musicale ideale per prepararsi un piatto di spaghetti, e io l’accompagnavo fischiando. Fui tentato di non rispondere, gli spaghetti erano quasi cotti, e Claudio Abbado stava giusto per portare l’orchestra filarmonica di Londra all’apice dell’intensità drammatica. Pazienza, mi rassegnai ad abbassare il fuoco, andai nel soggiorno e sollevai il ricevitore. Poteva anche essere un conoscente con qualche nuova proposta di lavoro.»
«Quell’estate, papà smise di far secchi i pesci col telefono e la dinamite e passò ad avvelenarli con le noci acerbe. Usare la dinamite era una faccenda rischiosa: un paio di anni prima – non so come – si era fatto saltare due dita, oltre a essersi ritrovato un’ustione su una guancia che, di primo acchito, sembrava un bacio dato col rossetto e, a guardare meglio, una sorta di eruzione cutanea.
Il telefono invece funzionava, anche se non bene come la dinamite; ma a lui non piaceva starsene lì a girare la manovella per dare corrente al filo elettrico che, messo in acqua, folgorava i pesci. Aveva paura, diceva, che uno dei ragazzini di colore che vivevano poco lontano si stesse facendo una nuotata e si beccasse cosí una scarica, il che poteva ridurlo come un ceppo di cipresso o, nel migliore dei casi, scombinargli il cervello facendolo diventare ritardato come suo cugino Ronnie, che non era in grado neanche di ripararsi dalla pioggia a meno che qualcuno non glielo dicesse, e a restare sotto una grandinata non ci metteva niente.»
Gli incipit di Bassani e Lansdale sono fantastici!
Non ricordavo quello di "Terra!", che ho letto qualche anno fa e mi era piaciuto molto :)