1 aprile 2013

La vetrina degli incipit - Marzo 2013

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...



 


***

«Si è trattato solo di un piccolo omicidio. Non era neppure un uomo importante. E poi è successo tanto tempo fa; quarant’anni, per l’esattezza. Non riesco proprio a capire perché si siano agitati tanto. Se qualcuno doveva essere turbato, quella ero io. In fondo era mio marito.»
Piccoli omicidi, di Margaret Moseley - Antonio

«Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza testa, l'hanno fissata. Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l'hanno spianata.
Immutato il cielo, un blocco d'azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la porta dal cui fondo non fiotta più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola.
Con questo racconto vado nella morte.
Termino qui, impotente, e niente, niente di quello che avrei potuto fare o non fare, volere o pensare, mi avrebbe condotto a una meta diversa. Più profondamente di ogni altro moto dell'animo, più profondamente persino della mia paura, mi impregna, mi corrode, mi avvelena l'indifferenza dei celesti verso noi terreni. Naufragata l'audace impresa di opporre il nostro debole calore alla loro gelidità.
»
Cassandra, di Christa Wolf - Sakura

«Barney Mayerson si svegliò con un mal di testa fuori dal comune, per scoprire che si trovava in una camera da letto nient'affatto familiare in un appcon nient'affatto familiare. Al suo fianco, con le coperte che le arrivavano fino alle spalle nude e lisce, continuava a dormire una ragazza nient'affatto familiare, che respirava lievemente con la bocca, i capelli una matassa di bianco cotonato.»
Le tre stimmate di Palmer Eldritch, di Philip K. Dick - Tancredi

««Sì, certo, se domani sarà bello», disse la signora Ramsay. «Ma ti dovrai alzare al canto del gallo», soggiunse. Le sue parole suscitarono una gioia immensa nel figlioletto, come fosse ormai sicuro che la spedizione avrebbe avuto luogo, e l'avvenimento meraviglioso che gli sembrava d'aver atteso con ansia da anni e anni fosse ormai, dopo una notte di buio e una giornata di navigazione, a portata di mano. Già all'età di sei anni, apparteneva infatti a quella vasta categoria di persone che, incapaci di mantenere i sentimenti separati l'uno dall'altro, lasciano che le prospettive future, penose o gioiose che siano, offuschino ciò che è già presente. E poiché per tali persone, sin dalla primissima infanzia, qualsiasi mutamento di sensazioni ha il potere di cristallizzare e fissare il momento da cui dipende la tristezza o la gioia, per James Ramsay, seduto a ritagliare figurine dall'album illustrato dei Grandi Magazzini Army and Navy, l'immagine di un frigorifero divenne, alle parole della madre, ricolma d'una celestiale felicità: irradiava gioia. La carriola, la falciatrice, il suono dei pioppi, lo sbiancarsi delle foglie prima della pioggia, il gracchiare dei corvi, il picchiettare delle ginestre, il fruscio dei vestiti: tutto era così vivido e definito nella sua mente, che lui aveva già un suo codice privato, un suo linguaggio segreto. Eppure, con la fronte spaziosa e i fieri occhi azzurri, di purezza e candore assoluti, che si offuscavano impercettibilmente davanti alla fragilità umana, appariva il ritratto di un'austerità inflessibile e tutta d'un pezzo, tanto che la madre, osservandolo ritagliare con precisione il frigorifero, se lo immaginò vestito di porpora e d'ermellino sul seggio di un giudice, o a capo di un'ardua impresa di grande importanza nel mezzo d'una crisi della vita pubblica.
«Comunque», disse il padre, arrestandosi davanti alla finestra del salotto, «non sarà bello.» Se James avesse avuto a portata di mano un'accetta, un attizzatoio, o un'arma qualsiasi con cui squarciare il petto al padre e ucciderlo, là su due piedi, l'avrebbe immediatamente afferrata. Così estrema era l'emozione che il signor Ramsay, con la sua sola presenza, suscitava nel cuore dei figli; come adesso che se ne stava in piedi, sottile e tagliente come una lama di coltello, sogghignando con sarcasmo, non solo per il piacere d'aver disilluso il figlio e d'aver messo in ridicolo la moglie, che (come pensava James) era diecimila volte superiore in ogni senso al marito, ma anche con un certo orgoglio segreto per l'esattezza della propria previsione. Quanto aveva detto era vero. Era sempre vero. Era incapace di mentire; non alterava mai i dati di fatto; non modificava mai una parola sgradevole per far piacere o far comodo a nessun essere umano, men che meno a qualcuno dei figli che, frutto dei suoi lombi, dovevano imparare, sin dall'infanzia, che la vita è difficile, che i fatti sono fatti, e che il viaggio verso quella terra mitica — dove si estinguono tutte le nostre speranze più vive, e dove la nostra fragile navicella naufraga al buio (e a questo punto il signor Ramsay irrigidiva la schiena e aguzzava lo sguardo verso l'orizzonte) — richiede soprattutto coraggio, verità, e forza di sopportazione.
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Gita al faro, di Virginia Woolf - Patrizia

«Eravamo in quattro: Giorgio, Guglielmo Samuele Harris, io e Montmorency. Seduti nella mia stanza, si fumava e si parlava di come stessimo male... male, intendo, rispetto alla salute.
Ci sentivamo tutti sfiaccati e ne eravamo impensieriti. Harris diceva che a volte si sentiva assalito da tali strani accessi di vertigine, che sapeva a pena che si facesse; e poi Giorgio disse che anche lui era assalito da accessi di vertigine e appena sapeva anche lui che si facesse. Io poi avevo il fegato ammalato. Sapevo di avere il fegato ammalato, perché avevo appunto letto un annuncio di pillole brevettate nel quale si specificavano minutamente i vari sintomi dai quali il lettore poteva arguire d’avere il fegato malato. Io li avevo tutti.
È strano, ma non mi avviene mai di leggere un annuncio di specialità brevettate, senza sentirmi tratto alla conclusione d’essere affetto dalla peculiare malattia — nella sua forma più virulenta — che forma il soggetto dell’annuncio. A ogni modo, la diagnosi par che corrisponda sempre esattamente a tutte le mie particolari sensazioni.
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Tre uomini in barca - Per non parlare del cane, di Jerome K. Jerome - Daniele

«Dopo tre anni di studi all'Accademia d'Arte Bezalel decisi di tornare a Tel Aviv. Gerusalemme mi soffocava, subito dopo la riunificazione della città la storia mi spaccò in due, mi sfinì. Gerusalemme era per me un sobborgo denso di storia e la casa in cui avevo abitato e in cui, tanti anni prima, aveva abitato mia madre Eva; quella casa la mattina mi vedeva vagare per dove la sera prima mi ero perso dormendo. Avrei voluto violentare il deserto, fissare dei confini, forse riposare.
Dina, la mia ragazza da quando avevo quindici anni, mi aveva dato il benservito da un pezzo.
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Un arabo buono, di Yoram Kaniuk - Mara

«Non devo nemmeno alzare lo sguardo per capire che mamma sta facendomi una delle sue visite a sorpresa. Nei mesi estivi ha sempre le unghie dei piedi laccate di rosa e poi riconosco il motivo floreale stampato sui suoi sandali di cuoio: li ha comprati l'ultima volta che ha firmato per farmi uscire dal postaccio e mi ha portato al centro commerciale. Anche stavolta la mamma mi trova in cortile ad allenarmi in accappatoio senza sorveglianza: sorrido perché so che si arrabbierà col Dott. Timbers e gli chiederà che senso ha tenermi rinchiuso se poi mi lasciano da solo tutto il giorno.»
Il lato positivo, di Matthew Quick - Valetta

«Abaca, abaco, Abacuc… Abacrasta, il nome del mio paese, non lo troverete in nessuna enciclopedia, e neanche segnalato nelle carte geografiche. Al mondo non lo conosce nessuno, perché ha solo milleottocentoventisette anime, novemila pecore, millesettecento capre, novecentotrenta vacche, duecentoquindici televisori, quattrocentonovanta vetture e millecentosessantatré telefonini.
Abacrasta è famoso solo nel circondario, dove lo chiamano «il paese delle cinghie». A Melagravida, Ispinarva, Oropische, Piracherfa, Orotho, quando passa uno di Abacrasta, si fanno il segno della croce e si domandano:
«E a quello, quando gli tocca? »
Ad Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno, l’agonia non ha fottuto mai un cristiano. Tutti gli uomini, arrivati a una certa età, fiutano la fine imminente, si slegano i calzoni come per andare a fare i bisogni, si slacciano la cinghia e se la legano al collo.
»
La leggenda di Redenta Tiria, di Salvatore Niffoi - Vittoria A.

«Alla fine non riuscii più a remare. avevo le mani piene di vesciche, la schiena scottata, il corpo dolorante. Con un sospiro,sollevando appena qualche spruzzo, scivolai nell'acqua. A lente bracciate, con i lunghi capelli che mi fluttuavano intorno, come un fiore di mare, come un anemone, come una medusa di quelle che si vedono in Brasile, nuotai verso l'isola sconosciuta; per un poco nuotai come avevo remato, controcorrente, poi, d'un tratto, libera, mi lasciai trasportare dalle onde fin dentro la baia e sulla spiaggia.
Mi abbandonai sulla sabbia cocente, la testa colma del fulgore arancio del sole, mentre la camiciola (l'unica cosa con cui ero fuggita) mi si asciugava addosso, incrostandosi; ero grata, come lo sono coloro che si sono salvati. Un'ombra nera calò su di me, non di una nuvola ma di un uomo cinto da un alone accecante. "Naufragio, - dissi con la lingua impastata - ho fatto naufragio. Sono sola". E tesi le mani piagate.'
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Foe, di J.M. Coetzee - Polyfilo

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