Recensione
La storia di Penelope, quintessenza della fedeltà e pazienza femminile, la conosciamo tutti attraverso le parole attribuite a un cantore cieco: colei che attese per vent’anni il suo sposo, eroe multiforme protetto da Atena, resistendo strenuamente all’assedio dei pretendenti che la volevano già vedova. I poemi greci ce la restituiscono così: integerrima, remissiva, la degna compagna di Ulisse per cui valse la pena peregrinare dieci anni in mare pur di riabbracciarla.
A partire dalla seconda metà del Novecento, la critica letteraria femminista recupera non solo autrici trascurate, ma anche vigorosi personaggi femminili da ergere a vittime del maschilismo del loro tempo: Margaret Atwood sceglie Penelope, che insieme a Cassandra e Medea è uno dei personaggi femminili del mito più amati dalle autrici femministe e non solo, e le dà voce, una voce che dall’Ade risuona flebile perché soffocata dal peso della tradizione che le ha negato una versione dei fatti.
La Atwood, a onor del vero, non sovverte più di tanto gli eventi canonici: Penelope è casta e remissiva come nel poema omerico, e il suo è un lamento che svela l’altra faccia della medaglia della docilità che è costretta a ostentare. Penelope canta la sua prigionia in una dimora a cui è stata condotta dal marito che l’ha vinta e che poco dopo l’ha abbandonata per andare in guerra; canta le costrizioni in una casa non sua governata dall’anziana nutrice del marito e dalla suocera, le stesse che l’hanno privata del diritto di educare il figlio che, ora cresciuto, vede in lei la causa della distruzione della sua eredità; canta una solitudine senza scampo alleviata solo dalle risa e dalle voci di dodici giovani ancelle da lei acquistate e cresciute; canta l’arroganza dei pretendenti che non può respingere; canta la sfiducia del marito, che ha preferito svelarsi al figlio imberbe piuttosto che a lei; e infine canta la sua brutalità, per avere impiccato le sue dodici fanciulle.
La rilettura di Margaret Atwood alterna la prosa – la testimonianza di Penelope che, vagabondando per l’Ade, ripercorre i momenti salienti della sua esistenza – ad altre forme di scrittura che veicolano le voci taciute delle dodici ancelle, le quali si configurano come un vero e proprio coro greco: le ancelle ora recitano versi, ora narrano, ora si costituiscono vittime in un processo moderno il cui imputato è Ulisse, ora sono conferenziere che discettano sul significato antropologico della loro morte, ora recitano e danzano. L’intento è specificatamente quello di rimarcare la loro morte vana per cui Ulisse è rimasto impunito, una morte che nemmeno la loro affezionata padrona è stata in grado di evitare e per cui continua a tormentarsi nell’Ade.
Se l’autrice innalza il personaggio di Penelope e riscatta il comportamento delle ancelle, passate alla storia per aver compiaciuto i Proci e aver svergognato la loro padrona, estremamente dequalificato ne esce il personaggio di Elena, insistentemente biasimato da Penelope per la sua vacua vanità che ha falciato innumerevoli vite – e che continua a caratterizzarla nell’Ade.
La scrittura della Atwood è validissima, ma in questa prova scivola in alcune falle che mi sono saltate all’occhio e che mi hanno reso meno gradevole la lettura: imboccando continuamente il lettore, la Atwood si sente in dovere di sottolineare, tramite la voce di Penelope, aspetti della cultura greca di quel periodo così conosciuti che la loro evidenziazione appare pretenziosa e didascalica: la consuetudine dei matrimoni combinati non è certo una pratica ignota al lettore medio, così come il valore della carne in tempi e terre che vivevano di pesce, o l’assenza di posate. Verrebbe spontaneo fare qualche considerazione sulla cultura del lettore medio americano, a questo punto.
Allo stesso modo, spesso la voce di Penelope spiega in modo pleonastico ciò che dovrebbe essere lasciato implicito. Per esempio: un’ancella, parlando del giovane Ulisse, poco dopo averlo paragonato a Ermes afferma
"You wouldn’t want to wake up in the morning and find yourself in bed with your husband and a herd of Apollo’s cows."E immediatamente dopo la voce narrante di Penelope spiega
This was a joke about Hermes, whose first act of thievery on the day he was born involved an audacious cattle raid.Se l’autrice trova arguto mettere in bocca a un personaggio una battuta dai riferimenti non troppo conosciuti - non tutti hanno presente il mito della nascita di Ermes e del suo furto del bestiame di Apollo, appena nato -, allora deve anche rischiare che la battuta non venga colta. Non può (e non deve, a meno che non ci troviamo in un manuale scolastico) spiegarla perché tutti i lettori possano comprenderla.
Prescindendo da questi difetti, non si può negare il valore del romanzo, che si inserisce in un progetto dichiarato di reimmaginazione e riscrittura di varie mitologie, il Canongate Myth Series, cui hanno dato il loro apporto anche nomi noti come Jeanette Winterson, Karen Armstrong, David Grossman, Alexander McCall Smith, Natsuo Kirino e Philip Pullman (quest’ultimo con il saggio Il buon Gesù e il cattivo Cristo). Da approfondire certamente.
Segnalo che purtroppo la versione italiana del romanzo, Il canto di Penelope, edita da Rizzoli nel 2005, risulta difficilmente reperibile.
Giudizio:
+4stelle+Dettagli del libro
- Titolo: The Penelopiad
- Autore: Margaret Atwood
- Editore: Canongate U.S.
- Data di Pubblicazione: 2006
- ISBN-13: 9781841957982
- Pagine: 224
- Formato - Prezzo: Paperback - 13,00 $
Della Atwood ho letto solo L'assassino cieco e mi è piaciuto intensamente, dovrei leggere altri suoi libri e questo potrebbe essere interessante...Peccato sia difficile da reperire in italiano :(