L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Mi chiamo Serena Frome (che fa rima con plume) e poco meno di quarant’anni fa mi mandarono in missione segreta per il British Security Service. Non ne sono tornata illesa. Mi scaricarono nel giro di diciotto mesi, dopo che ebbi screditato me e distrutto il mio amante, che pure non fu estraneo alla propria rovina.
Non perderò tempo sulla mia infanzia e sugli anni dell’adolescenza. Sono figlia di un vescovo anglicano e con mia sorella siamo cresciute entro i confini della cattedrale di una graziosa cittadina dell’Inghilterra orientale. Casa mia era gradevole, ordinata, splendente, piena di libri. I miei genitori andavano abbastanza d’accordo e mi amavano e io li ricambiavo. Tra me e mia sorella Lucy c’era un anno e mezzo di differenza e, nonostante i violenti litigi adolescenziali, non riportammo danni permanenti e nella vita adulta ci ravvicinammo. Nostro padre aveva una sommessa e ragionevole fede in Dio che con le nostre vite interferiva poco ed era giusto quanto bastava a fargli scalare agevolmente la gerarchia ecclesiastica e a sistemare noi in una confortevole casa in stile Queen Anne. La casa dominava un giardino delimitato da antiche aiuole di piante perenni che erano ben conosciute, allora come oggi, a coloro che se ne intendono di piante. Assoluto equilibrio, insomma, invidiabile, per non dire idilliaco. Siamo cresciute all’interno di un giardino cintato da mura, con tutti i piaceri e le limitazioni che questo comporta.>»
«Vestito di una giacca squisitamente ricamata, pantaloni di velluto, una sciarpa legata in vita, un "tarbush" in testa e ai piedi pantofole di cuoio finissimo con la punta rivolta all'insù, Dale Orson Nelson Tulliver sedette a una scrivania di similoro, afferrò una penna d'oca, la tuffò nel calamaio e, sopra un foglio di pergamena di qualità finissima, scrisse:
Impiccammo il vecchio John al mattino,
appendendolo alto sul muro
era bello vederlo scalciare
e ancor meglio sentirlo gridare
per un ricordo mi presi un orecchio
pre ricordo Krell si prese un occhio.
Impiccammo il vecchio John al mattino
ma solo a notte lo lasciammo crepare.»
«La tempesta si era protratta furiosamente per gran parte della notte.
Nel grande letto che divideva con la madre, la bambina era sveglia, sotto l'ispida coperta di erbalana, e ascoltava. Il suono della pioggia sulle sottili assi di limonlegno della casupola era continuo e insistente; a volte lei sentiva il rombo lontano dei tuoni, e quando balenava il lampo esili lame di luce penetravano dagli scuri e illuminavano la piccola stanza. Quando sparivano, ritornava l'oscurità.»
«Tra il 1939 e il 1945, la Germania nazista, assecondata da molteplici complicità, ha sterminato circa 6 milioni di ebrei europei nel silenzio pressoché totale del mondo. Le è mancato solo il tempo per distruggere l’intero popolo ebraico come aveva deciso. Questa è la realtà cruda del genocidio ebraico, Shoah nella lingua ebraica. La decisione di 'far scomparire' il popolo ebraico dalla terra, la determinazione di decidere chi deve e chi non deve abitare il pianeta, spinta alle sue ultime conseguenze, segna la specificità di un’impresa, unica a tutt’oggi, tesa a modificare la configurazione stessa dell’umanità.»
«Non cerco di immaginarmi un Dio personale; mi basta contemplare ammirato quel poco di leggi di natura che i nostri sensi inadeguati possono comprendere.
ALBERT ElNSTEIN
Rispetto meritato
Sdraiato nell’erba con il mento appoggiato sulle mani, all’improvviso il bambino percepì il groviglio di gambi e radici, una foresta in miniatura, un mondo trasfigurato di formiche, coleotteri e, benché allora non conoscesse i dettagli, miliardi di preziosi batteri del suolo, che silenziosi e invisibili sostenevano l’economia del microcosmo. La microforesta d’erba parve dilatarsi e diventare tutt’uno con l’universo e con la mente estatica che la contemplava. Il bambino sentì quella bellezza come un’emanazione di Dio e per questo alla fine abbracciò il sacerdozio. Ordinato pastore anglicano, divenne cappellano della mia scuola, un insegnante a cui volli bene. Grazie a onesti sacerdoti liberali come lui, nessuno ha mai potuto affermare che mi sia stata imposta con la forza la religione. In un’altra epoca e in un altro luogo, anch’io, bambino, contemplando le stelle mi lasciai abbagliare da Orione, Cassiopea e l’Orsa maggiore, commuovere dalla musica inaudita della Via Lattea, inebriare dal profumo notturno dei frangipani e delle campanule di un giardino africano. Come mai le stesse emozioni hanno condotto il cappellano in una direzione e me in un’altra? Non è facile rispondere alla domanda. Spesso scienziati e razionalisti hanno con la natura e l’universo un rapporto quasi mistico, ma alieno dalla credenza nel soprannaturale. Nella sua infanzia, il mio cappellano non conosceva certo (né le conoscevo io) le ultime righe dell’Origine delle specie, il famoso brano dove si parla della «plaga lussureggiante», «con uccelli che cantano nei cespugli, con vari insetti che ronzano intorno, e con vermi che strisciano nel terreno umido». Se le avesse lette, si sarebbe sicuramente identificato con la descrizione e, invece di abbracciare il sacerdozio, forse avrebbe condiviso l’idea darwiniana di un mondo «prodotto da leggi che agiscono intorno a noi.»
«Eccolo, il ragazzino. È pallido e magro, indossa una camicia di lino lisa e sbrindellata. Attizza il fuoco nel retrocucina. Fuori si stendono campi arati, scuri e cosparsi di chiazze di neve, e poi boschi più scuri che celano ancora i pochi lupi rimasti. I suoi sono noti come taglialegna e venditori d'acqua, ma in realtà suo padre era maestro di scuola. Sdraiato, ubriaco, cita versi di poeti i cui nomi sono ormai andati perduti. Il ragazzo si rannicchia accanto al fuoco e lo guarda.
La notte in cui sei nato. Trentatré. Leonidi, le chiamavano. Dio, come cadevano le stelle. Con lo sguardo cercavo il buio, buchi nel ciclo. L'Orsa correva.
La madre morta da quattordici anni aveva incubato nel ventre proprio la creatura che l'avrebbe uccisa. Il padre non pronuncia mai il nome della donna, il ragazzo non lo conosce. Ha una sorella al mondo che non rivedrà mai più. Pallido e sporco, guarda il padre. Non sa leggere né scrivere, e già gli cova dentro un gusto per la violenza insensata. C'è tutta la storia in quel volto, il ragazzo padre dell'uomo.»
«Io ho lungamente ricusato di creder vere le cose che dirò qui sotto, perché, oltre che la natura mia era troppo rimota da esse, e che l'animo tende sempre a giudicare gli altri da se medesimo, la mia inclinazione non è stata mai di odiare gli uomini ma di amarli. In ultimo l'esperienza quasi violentemente me le ha persuase: e sono certo che quei lettori che si troveranno aver praticato cogli uomini molto e in diversi modi, confesseranno che quello che io sono per dire è vero; tutti gli altri lo terranno per esagerato, finché l'esperienza, se mai avranno veramente occasione di fare esperienza della società umana, non lo ponga loro dinanzi agli occhi.
Dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi.»
«Il villaggio di Holcomb si trova sulle alte pianure di grano del Kansas occidentale, una zona desolata che nel resto dello stato viene definita «laggiù.» Un centinaio di chilometri a est del confine del Colorado, il paesaggio, con i suoi duri cieli azzurri e l'aria limpida e secca, ha un'atmosfera più da Far West che da Middle West. L'accento locale ha pungenti risonanze di praterìa, una nasalità da bovari, e gli uomini, molti di loro, portano stretti pantaloni da cowboy, cappello a larghe tese e stivali con tacchi alti e punte aguzze. Il terreno è piatto e gli orizzonti paurosamente estesi; cavalli, mandrie di bestiame, un gruppo di silos bianchi che si elevano aggraziati come templi greci, sono visibili parecchio prima che il viaggiatore li raggiunga. Anche Holcomb può essere scorto da grandi distanze. Non che ci sia molto da vedere; solo un confuso agglomerato di costruzioni diviso al centro dai binari della Ferrovia Santa Fé, un borgo qualsiasi delimitato a sud da un tratto del fiume Arkansas (pronunciato Ar-kansas),' a nord da un'autostrada, la Route 50, a est e a ovest da praterie e campi di grano. Dopo una pioggia, o quando le nevi si sciolgono, le strade prive di nome, di ombra, di pavimentazione, passano dal polverone al fango.»
«Fino a un istante prima era ancora inverno nell'Ohio, le porte chiuse, i vetri delle finestre ricoperti di brina, stalattiti di ghiaccio a frangia d'ogni tetto, bimbi che sciavano sui pendii, massaie dondolanti come grandi orsi neri nelle loro pellicce sulle vie gelate. E a un tratto una lunga onda tiepida era passata sulla cittadina. Una marea d'aria calda, quasi che qualcuno avesse lasciato aperta la porta di una panetteria. Il calore pulsava tra le casette, i cespugli, i ragazzi. Le stalattiti di ghiaccio si distaccavano, rovinose, e, in frantumi, si scioglievano rapidamente.»
«Ricordo in ordine sparso:
- un lucido interno polso;
- vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente;
- fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l'intera altezza di un edificio;
- un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche;
- un altro fiume, ampio e grigio, la cui direzione di flusso è resa ingannevole da un vento teso che ne arriffa la superficie;
- una vasca da bagno piena di acqua ormai fredda da un pezzo, dietro ad una porta chiusa.
L'ultima immagine non l'ho propriamente vista, ma ciò che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni.
Viviamo nel tempo; il tempo ci forgia e ci contiene eppure non ho mai avuto la sensazione di capirlo fino in fondo.»
«Dei Niala-Carbia, fondatori di Chentupedes
A Chentupedes, il giorno dei Morti, le anime lasciano il campusantu di Muriscari e se ne tornano in paese a manicare, bere e ballare con tutti i santi che non hanno voglia di stare in cielo. Correva l’anno 1964 ed era un novembre di quelli diacciosi che fanno thirriare i cani legati alla catena e indemoniare i cristiani. Le raffiche di maestrale erano così forti che facevano volare le ultime galline rimaste per strada. Io allora avevo quindici anni e la mia famiglia viveva nel vicinato di Sos Bodios, quello dei poveri che erano sempre a panza bodia. L’anno prima, il giorno di Ferragosto, ero caduto dal tetto della chiesa di Cuccureddu mentre per scommessa con gli amici cercavo di toccare la punta del parafulmine. Da allora ho imparato a rispettarli, i santi, e a brullare poco con l’aldilà, che forse è solo vita che continua al buio, come diceva sempre mannai Rosaria Lutzeri quando dava le condoglianze ai funerali. Con quattro costole rotte e un taglio lungo un palmo sulla coscia che perdeva sangue a trumughine, mi ero messo a bestemmiare contro santu Coseme e Damianu e a maledire zia Mundica, suora di clausura che aveva lasciato tutto all’ordine delle clarisse e a noi niente, soriches e ballaroddas, topi e bacche di quercia, che da queste parti è peggio di uno sputo.»
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