Recensione
Le diatribe familiari, i rancori tra fratelli, la disillusione dell’età matura, il conflitto mai sopito con i genitori ormai anziani sono alcuni dei temi di questo bel libro di John Fante che, a ragione, è considerato il capolavoro dell’età matura dello scrittore italo-americano. I temi non sono proprio una novità e non solo nella letteratura perché ogni figlio si trova a fare i conti con i sentimenti ambivalenti di Henry Molise (alter ego di John Fante ormai vecchio, malato e alle soglie della morte). I genitori invecchiano diventando in parte lo specchio futuro di quei figli che, ormai adulti, sono chiamati a prendersene cura.
Ero anch’io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand’ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. Fanculo la paternità. Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio.
Nick Molise non è stato proprio un modello di virtù e tutti i figli hanno risentito del suo egoismo e della sua incapacità relazionarsi con i membri della famiglia. Henry e i fratelli non hanno avuto un’infanzia serena, e ciascuno a modo proprio ha dovuto prendere le distanze da quei genitori che avevano indicato loro un’unica strada senza alcuna possibilità di deviazione: cattolici e muratori. Come spesso accade nelle famiglie troppo soffocanti, quelle che cercano di tracciare passo per passo la vita futura dei figli, nessuno dei giovani maschi Molise ha realizzato il destino loro prescritto. Stella, in quanto femmina, non aveva goduto di grande considerazione da parte del padre, che invece aveva cercato tenacemente di far diventare muratori i tre maschi (Henry, Mario e Virgil), boicottando, per il suo fine egoistico, le loro aspirazioni. Solo Henry riesce a sfuggire all'influenza dei genitori e lo fa grazie a un aiuto inaspettato:
Poi accadde. Una sera, mentre la pioggia batteva sul tetto spiovente della cucina, un grande spirito scivolò per sempre nella mia vita. Reggevo il suo libro tra le mani e tremavo mentre mi parlava dell’uomo e del mondo, d’amore e di saggezza, di delitto e di castigo, e capii che non sarei mai più stato lo stesso. Il suo nome era Fëdor Michailovič Dostoevskij. Ne sapeva più lui di padri e figli di qualsiasi uomo al mondo, e così di fratelli e sorelle, di preti e mascalzoni, di colpa e di innocenza. Dostoevskij mi cambiò. L’idiota, I demoni, I fratelli Karamazov, Il giocatore. Mi rivoltò come un guanto. Capii che potevo respirare, potevo vedere orizzonti invisibili. L’odio per mio padre si sciolse. Amavo mio padre, povero disgraziato sofferente e perseguitato. Amavo anche mia madre, e tutta la mia famiglia. Era tempo di diventare uomo, di lasciare San Elmo e andarmene nel mondo. Volevo pensare e sentirmi come Dostoevskij. Volevo scrivere.
L’atteggiamento critico, ma allo stesso tempo tollerante, verso entrambi i genitori è ciò che distingue Henry dai suoi fratelli ed è il segno che è ormai un uomo adulto che può stigmatizzarne i difetti senza negare a se stesso l’affetto profondo che lo lega al padre e alla madre. Può anche riconoscere in se stesso alcuni dei difetti dei genitori, poiché sono parte del suo modo di essere. Una volta sceso a patti con l’ambivalenza del legame con i genitori, Henry Molise/John Fante può riconoscere anche i loro meriti: l’abilità della madre nel tenere unita tutta la famiglia, manipolandone gli umori attraverso i suoi deliziosi piatti, e il talento del padre che ama il suo lavoro più di qualunque altra cosa (o persona) al mondo.
Il tono leggero (nonostante la drammaticità dei temi trattati), l’ironia che trapela da ogni pagina rende simpatici i membri della famiglia Molise, che, a ben vedere, vengono descritti in tutta la loro miseria umana. Non si salva nessuno. I fratelli sono immaturi e pavidi, incapaci di allontanarsi dal solco tracciato per tentare altre strade, incapaci di assumersi la responsabilità delle proprie azioni, vivono alimentando il rancore verso i genitori, unica giustificazione per i loro fallimenti. Lo stesso Henry è impietoso verso se stesso: è consapevole di avere, a volte, piegato la sua arte alle ragioni del dio denaro, sa di non avere una grande personalità e di attrarre la simpatia altrui attraverso le lacrime, che non si vergogna di utilizzare per raggiungere i suoi fini.
Avevo un mio talento per i pianti. Mi aveva procurato svariati riconoscimenti nel corso della vita, e anche qualche fastidio. Quando le tue debolezze sono la tua forza, che fai? piangi. Dal momento che il pianto semina sconcerto, la gente non sa come prenderla; sono lì che magari si aspettano un’esplosione di violenza e d’un tratto tutto svanisce in una pozza di lacrime. Piansi alla prima comunione. Le mie lacrime ebbero ragione di Harriet e così alla fine lei mi sposò. Senza lacrime non avrei mai potuto sedurre una donna; con le lacrime non mi andò mai buca. Era una cosa che devastava il cuore delle donne alle quali non andavo a genio e che, in seguito, avrebbero voluto uccidermi perché le avevo fatte soccombere. Piangevo persino mentre scrivevo cose melanconiche. E più invecchiavo, più piangevo.
Al pari di Nick Molise (alter ego di suo padre, morto da più di cinquant’anni e che rivive solo grazie alle parole scarabocchiate dal figlio), John Fante era affetto da una grave forma di diabete che gli aveva causato la cecità e l’amputazione delle gambe, ma che non gli impedì di lasciarci questo racconto ironico e commovente.
Giudizio:
+5stelle+Dettagli del libro
- Titolo: La confraternita dell'uva
- Titolo originale: The Brotherhood of the Grape
- Autore: John Fante
- Traduttore: Francesco Durante
- Editore: Einaudi
- Data di Pubblicazione: 2010
- Collana: Stile libero
- ISBN-13: 9788806170622
- Pagine: 224
- Formato - Prezzo: Ebook - € 6,99
Ah, quanti ricordi questo libro... tra le tante frasi da ricordare c'è quella pronunciata da Angelo Musso, che è da considerare epitaffio e manifesto della confraternita:"Meglio morire di bevute che morire di sete." Indimenticabile.