Recensione
La voce del muto, romanzo autoprodotto, è la prova che sapere scrivere abbastanza bene e avere qualcosa da dire non bastano, ancora, a dare vita a un romanzo accattivante, di qualità.
La trama, che pure potrebbe apparire convincente nel suo intreccio di crescita personale, provincia italiana, critica sociale e racconto storico, viene penalizzata da una scrittura in fondo fiacca, anonima, sufficiente, da uno stile da affinare e una certa debolezza strutturale. Ma veniamo innanzitutto alla storia. Sul finire degli anni Novanta, tra new economy, new age e fin de siècle, l'anonimo protagonista, aspirante scrittore, si ritrova a vivere una transizione a più tappe: conosce l'amore, folgorante, abbandona tutte le sue convinzioni, si arma di uno zaino e si rifugia in uno sperduto paesino della più profonda e lontana provincia italiana, svolgendo l'obiezione di coscienza in un centro per anziani. Santopinoz, il paesino pittoresco i cui abitanti guardano con diffidenza qualunque novità e biascicano un dialetto incomprensibile, poco a poco rivela i suoi segreti, a partire dal racconto del Muto, un ex partigiano della seconda guerra mondiale, un sopravvissuto che si oppone con il suo feroce silenzio al racconto revisionista al quale il paesino ha scelto di credere. Quello del Muto è sicuramente il personaggio più riuscito, cardine indiscutibile di tutto il romanzo, contemporaneamente fulcro del conflitto interiore del protagonista - che nella scelta di dare voce al Muto, scrivendo quella verità negata e sopita finisce con lo smarrire e poi ritrovare se stesso - e della storia del paese, che si fa emblema della critica al revisionismo storico. Ma più ci si allontana da questo punto nodale, più inconsistente si fa la storia, i personaggi, il romanzo intero. Debolezza strutturale, si è detto: la prima parte, più "urbana", relativa al colpo di fulmine verso una donna che appare e poi scompare per molto, mal si accorda alla seconda parte, in una frattura spaziale (e temporale?) insanabile. I movimenti interiori del protagonista si fanno sempre più confusi, spingendosi in direzioni che tengono sempre più distante il lettore; impalpabile appare lo sfondo del romanzo, fatta eccezione per il racconto storico, più vividamente tratteggiato. E quando, nella parte finale, il romanzo si fa romanzo di se stesso, con il protagonista che scrive e pubblica il libro dallo stesso titolo, l'autoreferenzialità travolge ogni cosa, mentre la polemica contro certi vizi dell'editoria nostrana lascia il tempo che trova. Su tutto questo irrompe un finale scontato, eccessivamente idilliaco.
Non si possono tacere nemmeno le debolezze stilistiche: la scrittura è discreta, ma piatta, dalla punteggiatura minimale (non si deve essere necessariamente puntigliosi per avvertire come emblematica la totale assenza di un punto e virgola, ad esempio); la narrazione riposa su una costruzione del periodo essenzialmente paratattica, ma senza che questa emerga come una consapevole scelta personale. Man
Giudizio:
+3stelle+
Dettagli del libro
Avendo letto e molto apprezzato, per stile e per contenuto, il libro di Fabio Mazzoni "La voce del muto", mi permetto di consigliare a Tancredi, per il futuro, di leggere più attentamente le opere che deve recensire per evitare di incorrere, come in questo caso, in vistose inesattezze. Il muto è diventato, a sorpresa, un personaggio antirevisionista, mentre la popolazione del villaggio si sveglia, a sua insaputa, revisionista. Le cose non stanno proprio così; la vicenda è molto meno scontata, molto più sottile e complessa tale da meritare un approfondimento tematico maggiore rispetto ad una valutazione meramente tecnicistica (" come ci sono mancati quei punti e virgola!"). A questo si poteva arrivare se solo ci si fosse presi il disturbo di usare più attenzione e professionalità: leggere per credere! (e per capire).
Con osservanza, Anna Maria Guideri.
Mi permetto una piccola osservazione: mi si imputa una superficialità non professionale nella recensione, ma il pomo della discorsia è un mero giudizio soggettivo, che non rientra nella sfera tecnica o professionale. "Le cose non stanno proprio così, la vicenda è meno scontata, merita un approfondimento tematico maggiore": è un giudizio soggettivo, che al massimo ha a che fare con la sensibilità personale e individuale. E qui rientriamo in un campo del tutto arbitrario. Quindi al massimo mi si accusi di insensibilità.
Al contrario, il livello linguistico e stilistico, pure quello meramente ortografico, non solo hanno una propria dignità, ma sono oggetto di un approfondimento che in quanto tecnico è anche necessariamente professionale. Se avessi davvero letto superficialmente non mi sarei accorto di quei punti e virgola mancanti, per dire...
Lungi dalle mie intenzioini sottovalutare la funzione indispensabile delle competenze morfologiche ed ortografiche, ma quando esse impediscono - o non aiutano - la comprensione del contenuto di un'opera letteraria, possiamo solo dire che sono usate male. L'oggetto del contendere, in questo caso, non riguarda tanto il giudizio sullo stile la cui opinabilità è del tutto legittima, quanto piuttosto la comprensione dei fatti narrati: i fatti sono fatti e non c'è interpretazione soggettiva che tenga. Il muto è o non è un antirevisionista? Non lo è, eppure si sostiene che lo sia. La popolazione del villaggio è revisionista? Non lo è, eppure si sostiene che lo sia. Tutto qui. Anna Maria Guideri.
Sarà anche così - però mi chiedo, chi lo dice? - ma non vedo perché questo debba invalidare un giudizio che prescinde dal dettaglio di uno dei fatti narrati. Sarà anche revisionista e non antirevisionista il Muto: per magia allora il romanzo apparirà privo di quelle incongruenze che ho riscontrato, di quello stile insipido e di quella fastidiosissima autoreferenzialità sui quali si basa, appunto, il giudizio da me formulato?
E se anche si dovesse compiere il miracolo, per il quale l'uso più attento di una categoria da parte del recensore trasfiguri il romanzo facendolo apparire attraente, coerente, fluido, stilisticamente adeguato, mi pare comunque troppo poco per sentenziare all'indirizzo del recensore una mancanza di professionalità.
Ho la sensazione che se il giudizio fosse stato a cinque stelle, l'apparente inesattezza che si insiste a contestare sarebbe invece passata del tutto inosservata.
Prendo atto con soddisfazione che si ammette di poter aver male interpretato alcuni fatti narrati ne "la voce del muto". La credibilità professionale che da tale errore deriva è inequivocabilmente evidente.
Copincollo il mio ultimo commento al commento a una recensione:
Mi permetto infine di ricordare una cosa: quando il libro non viene capito viene subito data la colpa al lettore distratto e pieno di pregiudizi. Ma vogliamo un attimino pensare che magari è l'autore che non sa farsi capire?
E se avessi un euro per ogni volta che l'ho scritto mi comprerei un centinaio di manuali di scrittura e grammatiche italiane da regalare ad alcuni autori.
Credevo di avere a che fare con una persona capace di identificare e comprendere l'utilizzo del periodo ipotetico. Non è così.
Mi tocca dunque uno sforzo linguistico ulteriore, abbassarmi al livello di chi non capisce/fa finta di non capire, e dichiarare: non ho mai ammesso di avere mal interpretato i fatti narrati.
Al contrario, ho detto che, anche stessero così le cose, non cambierebbe niente. Ho girato al largo perché non reputo di interesse rilevante la questione. Come ho già detto nel primo post (bastava prendersi la briga di leggere!), l'interpretazione da Lei suggerita è, appunto, un'interpretazione soggettiva, mi pare fuori luogo sindacare sulla professionalità del recensore, che invece si è concentrato su aspetti tecnici, oggettivi e indiscutibili.
In ogni caso, se una interpretazione è corretta o errata, al massimo, lo stabilisce l'autore, non una lettrice fanatica. E anche in quel caso, non si tratterebbe di un parere insindacabile: come ha riportato Sakura, a volte se un lettore "non capisce", forse, è l'autore che non sa farsi capire.
Troppo facile se il libro fosse facile! In che cosa si misura l'abilità di un recensore se non nell'andare oltre una lettura superficiale affrontando la difficile sfida con la complessità?
Che fine avrebbero fatto capolavori come l'"Ulisse?" senza una lettura attenta e approfondita?
E quanti saggi di esegesi del testo si potrebbero regalare ai "lettori distratti?"
Sono certo che a una mente illuminata, come la Sua, persino le più note "Cinquanta sfumature di grigio" possano offrire una gradevole sfida con le complessità.
Per quanto mi riguarda, non ho riscontrato alcuna sfida né alcuna complessità. Anche questo è stato abbondantemente scritto nella mia recensione e nei commenti successivi. Forse è troppo complesso persino per Lei.
La mia inguaribile vocazione magnanima mi spinge comunque a invitarla a desistere da questa arrampicata traballante sulla sdrucciolevole superficie della mancanza di argomentazioni, e Le rammento pertanto l'oggetto della diatriba: il suo tentativo di screditare la recensione sulla base dell'interpretazione di un fatto narrato che lei, dal pulpito di lettrice affezionata, suggerisce essere diversa. Peraltro senza alcuna argomentazione che non sia: "il Muto è revisionista, e lo è perché lo dico io, credeteci".
In attesa dell'intervento divino dell'Autore, possa egli sciogliere questo amletico dilemma, non ritengo possa giovare ad alcuno (né al recensore, né ai lettori e gli avventori del blog, né tantomeno all'Autore) il prosieguo di questa grottesca discussione.
Quando siamo a corto di argomenti si ricorre alle offese personali, un terreno su cui non amo scendere per il rispetto che ho di me stessa.
Un'ultima nota e poi mi taccio.
Un'opera narrativa non è mera esercitazione stilistica; forma e contenuto, se pur distinti non sono separabili, insieme costituiscono un unicum indivisibile: come si può pensare di pronunciarsi sull'una senza aver compreso l'altro?
Cara Signora, non siamo a corto di argomenti, ma stanchi di ripetere sempre le stesse cose.
Come ripeto abbondantemente da diversi post, che il contenuto sia stato mal interpretato LO DICE LEI.
La parola stessa di "interpretazione" suggerisce che non sia la constatazione di un fatto oggettivo, quanto un'operazione squisitamente soggettiva. Interpretare significa, dizionario alla mano, "Dare un senso, un significato preciso a un atto o fatto". Il mio senso è diverso dal suo: se ne faccia una ragione.
Se poi tiene particolarmente a dimostrare, prove alla mano, come la sua interpretazione sia più corretta della mia (invito che ho più volte rivolto, salvo ricevere risposte evasive e sempre più affrettate), ne parli pure con l'Autore, sono certo saprà offrirle un riscontro di maggiore gusto. Quanto a me, la questione è del tutto fuori dalle mie intenzioni.
P.S. L'unica offesa personale presente in questa discussione è il suo attacco gratuito e immotivato nei confronti della mia professionalità, attacco peraltro ridicolmente sproporzionato e fuori contesto: non sono un critico pagato, ma un comune lettore che offre gratuitamente la propria opinione su un'opera. Il fatto non abbia colto questa per niente sottile differenza è sintomatico di tutto il resto.