Non è la prima volta che lo scrittore israeliano affronta l’argomento. “A un cerbiatto somiglia il mio amore” (2008), iniziato nel 2003, lo concluse dopo che il secondogenito ventunenne, Uri, venne ucciso, il 12 agosto 2006, insieme a tre commilitoni, nella Seconda Guerra del Libano.
Nell’ultima opera l’A. combatte la sua lotta contro la distruzione, l’oblio, la morte, non alla ricerca di un significato (pseudo) religioso della tragedia che ha colpito lui e la sua famiglia, ma per consegnare il Ricordo e la Memoria, alla Vita, sottraendoli al buio.
Recensione
Il libro, non definibile come romanzo, è, come spiega il titolo, una “Storia a più voci”. Il genere espressivo è assimilabile ad una rappresentazione teatrale su un palcoscenico scarno, dove i protagonisti, le “voci” appunto, confessano la loro storia, alternando prosa e versi. L’A. rivela che il libro stesso ha costruito la propria forma: dato l’argomento non era possibile seguire le normali regole di scrittura. I versi, la poesia salgono direttamente dall’intimo di ciascuno di noi e sono in grado, più della prosa, di mettersi in sintonia col silenzio, quel silenzio che consegue immediato ad un immenso dolore. Nessuno dei personaggi porta un nome proprio, per sottolineare l’aspetto emblematico di quelle esperienze: in ciascuno di loro c’è una parte dello scrittore e di noi.
Una sera, all’improvviso, un Uomo, che ha perduto suo figlio cinque anni prima, si alza da tavola e decide di mettersi in cammino per andare a trovarlo “laggiù”. Invano sua moglie, turbata, cerca di dissuaderlo. Che cos’è quel “laggiù” cui egli allude? Forse il luogo in cui… è successo?
No. E dov’è? Nessuna risposta, accettabile per la comune logica. L’Uomo, l’Uomo-che-cammina, non sa che cosa troverà, lascia che siano le gambe e il cuore a guidarlo. Compie, per giorni e notti, attorno alla sua città (una città simbolica, anch’essa senza nome), giri via via più larghi. Egli non è solo: pian piano, come attratti da una calamita gli si fanno compagni di strada alcune persone, diverse per età ed esperienze, ma uniti a lui e tra loro da una comune tragedia: tutti hanno perduto figli o figlie, chi a seguito della guerra, chi a causa di un incidente o di una malattia. Ecco la “Riparatrice delle reti da pesca”, che non pronuncia una parola da più di nove anni: “da allora”, cioè. Una coppia, il “Ciabattino” e la “Levatrice”, ricordano la loro bambina morta, Lilli. La donna non riesce a pronunciare frasi in modo completo, il suo parlare è un balbettio. E il marito tiene ancora tra le labbra dieci chiodi, tanti quante erano le piccole dita della figlioletta che usava baciare. Anche il “Duca”, padrone di quelle terre, soffre lo stesso dolore, così come lo “Scriba delle Cronache cittadine,” e il severo “Vecchio Maestro di Aritmetica”, che scrive la soluzione dei problemi sui muri delle case. Con la sola propria tormentata anima li accompagna, poiché non può muoversi dalla sua stanza, “Centauro”, la parte inferiore del corpo trasformata, col passare del tempo, in scrivania. Si tratta di uno scrittore il quale, da quindici anni, vive circondato dagli oggetti del figlio morto; il suo unico desiderio è dar forma di parole a quella tragedia, ma non vi riesce, soverchiato dal proprio rabbioso dolore. Il cammino prosegue, le persone rievocano con frasi toccanti la vita coi figli, spezzatasi in quell’istante. Capita che, nel ricordare, si sentano in colpa o per averli, a suo tempo, puniti o perché continuano, loro malgrado, a vivere. Provano pure a dialogare l’una con l’altra, quelle persone, talvolta comprendendosi, talvolta polemizzando dentro di sé e tra loro, magari in modo sterile, la sterilità del dolore indicibile e a lungo incomunicabile. Ma arriveranno nel luogo / non luogo che cercano, come una comunità di viandanti, in un’umanità ritrovata, non più estranei, ma vicini i quali, nella loro lotta contro la distruzione e la cancellazione, hanno saputo trovare un significato e una ragione di vita a quella “terra di esilio”. Essi hanno saputo portare il dolore vissuto di genitori, anche a costo di passare attraverso istanti che rasentano la follia, come quando appare loro, di colpo, un misterioso… muro in pietra sulla parete del quale a ciascuno pare di intravvedere scolpiti i lineamenti dei figli amati.
“E lui, l’uomo che cammina, si alza e ci guarda, come se, solo ora, per la prima volta, aprisse gli occhi su di noi, azzurri, luminosi, buoni…”.
“A tre anni e mezzo di distanza dalla perdita di Uri”, racconta Grossman, “sentivo l’insopprimibile esigenza di trovare le parole per esprimere il mio stato d’animo, ma non ci riuscivo”. La reazione all’immobilità della morte, al silenzio è avvenuta attraverso la scrittura: “…la scrittura mi dà l’impulso per ritornare a vivere questa vita; vita che, in un certo senso, mi è stata portata via”. Piene di commovente lirismo sono le pagine in cui egli riflette sulla nostalgia insopprimibile del figlio, intrecciata col gioco crudele della variabile tempo:
...Anche la nostalgia di te è imprigionata nel tempo. Il dolore si fa antico con gli anni, ma ci sono giorni in cui è nuovo, fresco… Tu non ci sei più. Sei fuori dal tempo. Una volta un uomo… mi ha detto che, nella sua lingua, chi muore in guerra è chiamato ‘caduto’. E tu sei così: sei caduto fuori dal tempo… il tempo in cui mi trovo io ti scorre davanti… Ti vedo, ma non ti tocco. E neppure ti sento coi sensori del mio tempo…
Il libro ha comportato due anni e passa di intenso lavoro di cammino e riflessione, dall’aprile 2009 al maggio 2011, come possiamo leggere in calce al testo. Due anni duranti i quali coloro che stanno vicino a Grossman (familiari, amici) si son chiesti spesso dove lo avrebbe portato quel Viaggio. Quello del Viaggio, del resto, eco del biblico Esodo, è tema caro a lui, come ad altri scrittori di Israele. Suggestivo filone della sua poetica, collegato al precedente, è l’Ostacolo rappresentato da una difficile situazione con cui i protagonisti devono confrontarsi. In “Caduto fuori dal tempo” tale Ostacolo è come resistere di fronte alla tragedia della morte di un figlio, evento assurdo contro natura, perfino in Israele, quello strano Paese in cui spesso sono i genitori a seppellire i figli. In un ideale colloquio col suo ragazzo l’Uomo-che-cammina gli confida di voler imparare “a separare i ricordi dal dolore” per essergli accanto ancora di più, ma senza aver paura ogni volta “del bruciore dei ricordi”; per potersi allontanare “solo quel tanto necessario perché il petto possa allargarsi in un respiro completo”. “Ho voluto comprendere il mio cambiamento”, afferma lo scrittore, “Per questo ho deciso di andare ‘laggiù’ dove la Vita tocca la Morte. E quando tocchi nel profondo la Morte comprendi quanto miracolo ci sia nella Vita e come questo immenso Dolore possa creare in te una nuova Speranza”.
Giudizio:
+5stelle+Dettagli del libro
- Titolo: Caduto fuori dal tempo
- Titolo originale: Nofel michutz lezman
- Autore: David Grossman
- Traduttore: Alessandra Shomroni
- Editore: Mondadori
- Data di Pubblicazione: 2012
- Collana: Scrittori italiani e stranieri
- ISBN-13: 978-88-04-62391-5
- Pagine: 183
- Formato - Prezzo: Rilegato, sovraccoperta - €18,50
Ah, mi hai preceduto! :P