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2 novembre 2012

Angolotesti: "Il gatto nero" di Edgar Allan Poe

Oggi festeggiamo la più cristiana Festa dei Morti, ed Halloween è andato: ma anche se in ritardo di un paio di giorni vorrei proporvi un racconto dell'orrore di uno dei maestri del brivido. Per la rubrica Angolotesti vi presento oggi Il gatto nero, scritto da Edgar Allan Poe nel 1843. E' uno dei più famosi e rappresentativi dell'autore, tanto che ne sono stati tratti almeno una decina di adattamenti cinematografici (vi si sono cimentati nomi noti come Fulci, Romero e Argento). Un'analisi del testo porterebbe alla luce temi e simbologie particolarmente care all'autore e al contesto storico-letterario cui appartiene, ma per una volta sarebbe il caso di lasciarle da parte e di godersi un bel racconto gotico old style.




Il gatto nero


Per il racconto più straordinario e al medesimo tempo più comune che sto per narrare non aspetto né  pretendo di essere creduto. Sarei davvero pazzo a pretendere che si presti fede a un fatto a cui persino i miei sensi respingono la loro stessa testimonianza. Eppure pazzo non sono e certamente non vaneggio.

Ma domani morrò e oggi voglio scaricare la mia anima. Mio scopo immediato è di porre innanzi al mondo in modo piano succinto e senza commenti una serie di casi semplicemente domestici. Nel loro concatenarsi questi fatti mi hanno terrificato, mi hanno torturato, mi hanno annientato. Non tenterò tuttavia di spiegarli. Per me essi non hanno rappresentato che orrore; a molti, invece, più che terribili essi sembreranno baroques.

In seguito forse un intelletto saprà condurre il mio fantasma al senso comune, un intelletto più calmo, più logico, meno eccitabile del mio, il quale scorgerà nelle circostanze che io descrivo con terrore null'altro che un normale susseguirsi di cause e di effetti naturalissimi.

Sin dall'infanzia sono stato conosciuto per la docilità e la mitezza del mio carattere. Ero talmente tenero di cuore, anzi, che i miei compagni mi avevano preso a soggetto delle loro beffe. Amavo soprattutto gli animali, e i miei genitori mi avevano concesso di possedere una grande varietà di bestiole preferite. Passavo con questi animaletti la maggior parte del mio tempo, e la mia più perfetta felicità consisteva nel nutrirli e nell'accarezzarli. Questo tratto caratteristico della mia indole crebbe in me coll'andare degli anni, e divenuto adulto trassi da ciò una delle mie principali fonti di soddisfazione. A coloro che abbiano provato un vivo affetto verso un cane fedele e intelligente non occorrerà che io spieghi la natura e l'intensità del piacere derivante da questa tendenza. Vi è qualcosa nell'amore spoglio di egoismo e ricco di sacrificio di una bestia senz'anima che va direttamente al cuore di colui che abbia frequenti occasioni di saggiare la pacchiana amicizia e l'instabile fedeltà del cosiddetto uomo.

Mi sposai giovane e fui felice di ritrovare in mia moglie una tendenza non contrastante con la mia. Avendo notato la mia debolezza verso gli animali domestici, non perdeva occasione di procurarmi quelli che mi piacevano. Avevamo diversi uccelli, dei pesciolini, un bel cane, alcuni conigli, una scimmietta e un gatto. Quest'ultimo era un animale bellissimo, di grossezza notevole, completamente nero e straordinariamente intelligente. Parlando della sua intelligenza, mia moglie, che in cuor suo non era scevra di una certa punta di superstizione, faceva frequenti allusioni all'antica credenza popolare secondo la quale tutti i gatti neri siano streghe travestite. Non che ella si esprimesse mai seriamente su questo punto, e cito questo particolare soltanto perché mi capita ora proprio per caso di ricordarlo.

Pluto, così si chiamava il gatto, era il mio animale preferito e il mio compagno di giochi. Io soltanto gli davo da mangiare, ed egli mi seguiva dovunque per casa: anzi duravo fatica a impedirgli di accompagnarmi persino per la strada.

La nostra amicizia si protrasse così per parecchi anni, durante i quali il mio temperamento e il mio carattere, in genere ad opera del demone Intemperanza (arrossisco nel confessarlo), subirono un radicale mutamento verso il peggio.

Ero divenuto di giorno in giorno più scontroso, più irritabile, sempre più incurante dei sentimenti altrui. Ero giunto a usare verso mia moglie un linguaggio sconveniente. Alla fine arrivai persino alla violenza personale contro di lei. Naturalmente anche le mie bestiole ebbero a soffrire di questo mutamento del mio carattere. Non solo le trascuravo, ma le maltrattavo. Verso Pluto comunque sentivo ancora abbastanza tenerezza per trattenermi dal picchiarlo, mentre non mi facevo scrupolo di percuotere i conigli, la scimmia, persino il cane, se essi per caso o per affetto mi si mettevano tra i piedi. Ma il mio male peggiorava: quale male infatti è peggiore dell'alcool? E infine persino Pluto, il quale ormai invecchiava ed era di conseguenza alquanto stizzoso, persino Pluto cominciò a subire gli effetti del mio cattivo carattere.

Una sera, ritornando a casa dai miei vagabondaggi per la città ubriaco fradicio, ebbi la sensazione che il gatto evitasse la mia presenza. Lo afferrai e l'animale, allora spaventato dalla mia violenza, mi produsse sulla mano con i suoi denti una lieve ferita. In un attimo fui invaso da una furia demonica. Non mi riconoscevo più. Era come se la mia anima originaria mi si fosse a un tratto spiccata dal corpo e una malvagità peggio che infernale, alimentata dal gin, pervase ogni fibra del mio essere. Mi tolsi di tasca un temperino, lo apersi, afferrai la povera bestia per la gola, e deliberatamente gli feci saltare l'occhio dall'orbita. Arrossisco, avvampo, rabbrividisco mentre la mia penna descrive questa inaudita atrocità.

Allorché col mattino la ragione mi ritornò, dopo che il sonno aveva fatto dileguare lungi da me i fumi dell'orgia notturna, provai un sentimento per metà di orrore, per metà di rimorso, per il delitto di cui mi ero reso colpevole; ma non era che un sentimento debole e ambiguo, e l'anima ne rimase intatta. Mi rituffai nei miei eccessi, e ben presto affogai nel vino ogni ricordo del mio misfatto.

Coll'andare del tempo tuttavia il gatto guarì. Certo la sua occhiaia vuota aveva un aspetto pauroso, ma l'animale non pareva soffrire più alcun dolore. Si aggirava per la casa come al solito, ma com'era da aspettarsi fuggiva terrorizzato non appena mi vedeva. Mi era rimasto ancora abbastanza del mio vecchio cuore per sentirmi a tutta prima addolorato da questo evidente disgusto da parte di una creatura che un tempo mi aveva tanto amato. Ben presto però a questo sentimento succedette una viva irritazione. E infine si impadronì di me per sommergermi in modo definitivo e irrevocabile lo spirito della perversità.

Di questo spirito la filosofia non si cura. Eppure sono sicuro, quanto sono sicuro che la mia anima vive, che la perversità è uno degli impulsi più primitivi del cuore umano, una di quelle facoltà o sentimenti primari non analizzabili che dirigono il carattere dell'Uomo. Chi non ha almeno cento volte commessa un'azione sciocca o vile per nessun altro motivo se non perché sa che non dovrebbe commetterla? Non proviamo noi una tendenza perenne, a dispetto di ogni nostra migliore saggezza, a violare ciò che è la legge soltanto perché la riconosciamo tale? Questo spirito di perversità, ripeto, produsse in me il decadimento finale. Era questo insondabile anelito dell'anima a torturare se stessa, a violentare la propria stessa natura, a fare il male soltanto per amore del male, che mi sospinse a continuare e infine a consumare l'offesa che avevo inflitta alla bestia innocente.

Un mattino, a sangue freddo, le passai un cappio al collo e la impiccai al ramo di un albero; la impiccai con le lagrime che mi sgorgavano dagli occhi e col più amaro rimorso nel cuore; la impiccai perché sapevo che mi aveva amato e perché sentivo che non mi aveva dato alcun motivo di offesa; la impiccai perché sapevo che così facendo commettevo un peccato, un peccato mortale che avrebbe posto in tale pericolo la mia anima immortale da sottrarla (se una cosa simile fosse possibile) perfino all'infinita misericordia dell'Infinitamente Misericordioso e Infinitamente Terribile Iddio.

La notte di quel giorno in cui avevo compiuto questo gesto crudele fui risvegliato nel sonno da grida di "al fuoco! Al fuoco!". I cortinaggi del mio letto erano in fiamme, tutta la casa ardeva. Fu con grande difficoltà che mia moglie, una domestica e io stesso riuscimmo a salvarci dall'incendio. La distruzione fu totale. Tutta la mia sostanza venne inghiottita dal disastro e da quel momento in avanti io mi abbandonai alla disperazione.

Non ho affatto la debolezza di cercar di stabilire un nesso di causa e di effetto tra questa sciagura e l'atrocità da me commessa. Ma sto enumerando una catena di fatti e non desidero perciò lasciare incompiuto anche un solo eventuale anello. Il giorno successivo all'incendio mi recai a ispezionare le macerie. Tutti i muri della casa erano caduti, a eccezione di uno solo. Si trattava di un muro divisorio non molto massiccio che si trovava verso il mezzo della casa, e contro il quale aveva sempre poggiato la testa del mio letto. In questo punto l'intonaco aveva in gran parte resistito all'azione del fuoco, un particolare che io attribuii al fatto di essere stata quella parete appunto ripulita di fresco. Intorno a questo muro si era radunata una densa folla e molte persone sembravano esaminare un certo tratto di parete con attenzione minutissima e ansiosa. Le parole "Strano!" e "Incredibile!" e altre espressioni consimili eccitarono la mia curiosità. Mi avvicinai e vidi, quasi fosse scolpita in bas-relief sulla superficie bianca, l'immagine di un gatto gigantesco. L'effetto era reso con una precisione che aveva veramente del fantastico. Intorno al collo dell'animale penzolava una corda.

A tutta prima, nel trovarmi di fronte a quella apparizione - poiché non potevo considerarla altrimenti - fui invaso da uno sbalordimento e da un terrore incontrollabili. Ma in seguito la ragione mi venne in soccorso. Mi rammentai di avere impiccato il gatto in un giardino adiacente alla casa. Quando era stato dato l'allarme d'incendio questo giardino era stato immediatamente invaso dalla folla, e tra questa qualcuno doveva aver tolto l'animale dall'albero e doveva averlo gettato attraverso la finestra aperta nella mia stanza. Forse avevano fatto questo con l'intenzione di svegliarmi. La caduta di altre pareti aveva schiacciato la vittima della mia crudeltà nella massa dell'intonaco spalmato di fresco; e la calce di questo, unitamente alle fiamme e all'ammonia esalante dalla carogna, avevano poi compiuto la raffigurazione che io ora vedevo dinanzi.

Per quanto riuscissi a placare con questa riflessione il mio cervello, se non completamente la mia coscienza, e giustificare così il fatto sorprendente che ho testé narrato, non mi fu tuttavia possibile sottrarmi alla profonda impressione che esso aveva provocato sulla mia fantasia. Per mesi interi non riuscii a liberarmi del fantasma del gatto, e durante tutto quel tempo il mio spirito fu tormentato da un sentimento indefinito che poteva sembrare ma non era rimorso. Giunsi sino al punto di rimpiangere la perdita dell'animale, e a guardarmi attorno nei sordidi ambienti che ormai frequentavo d'abitudine in cerca di qualche altro esemplare della stessa specie, se non proprio del tutto identico, da poter coccolare e grazie al quale sostituire la bestiola perduta.

Una notte, mentre sedevo in stato di semistupidimento in una taverna malfamata, la mia attenzione fu improvvisamente attratta da un oggetto nero che posava sul coperchio di una delle tante botti enormi piene di gin o di rum costituenti il principale arredamento della stanza. Già da alcuni minuti stavo fissando proprio il coperchio di quella botte e fui perciò sorpreso di non essermi accorto prima dell'oggetto che vi era adagiato sopra. Mi avvicinai e lo toccai con la mano. Era un gatto nero, enorme, grosso quanto Pluto, e che gli assomigliava in tutto tranne che per un unico particolare. Pluto non aveva un solo pelo bianco in tutto il corpo, mentre questo gatto aveva l'intera zona del petto ricoperta di una larga se pure indefinita macchia bianca.

Non appena lo toccai l'animale si alzò immediatamente, si mise a ronfare forte, si strofinò contro la mia mano, parve insomma felice della mia attenzione verso di lui. Era dunque proprio il gatto di cui andavo in cerca.

Offersi subito al taverniere di acquistarlo, ma l'uomo dichiarò di non avere alcun diritto su quella bestia, poiché non ne sapeva nulla né mai l'aveva veduta prima.

Seguitai ad accarezzarlo, e mentre mi disponevo a ritornare a casa l'animale dimostrò subito una evidente intenzione di accompagnarmi. Naturalmente ne fui ben contento e di quando in quando mi chinavo a lisciargli il pelo pur seguitando a procedere nel mio cammino. Non appena giunto a casa la bestia si addomesticò subito e divenne immediatamente il coccolo di mia moglie.

Per parte mia mi accorsi ben presto che in me sorgeva contro l'animale una viva antipatia. Era proprio il contrario di quanto avevo preveduto, ma non so perché o come fosse, la sua manifesta tenerezza verso la mia persona mi indispettiva e disgustava. Gradatamente questi sentimenti di ribrezzo e di insofferenza si tramutarono in un odio profondo. Evitavo l'animale; un vago senso di vergogna e il ricordo del mio precedente atto di crudeltà mi impediva di maltrattarlo fisicamente. Per alcune settimane mi trattenni dal picchiarlo o dal fargli comunque del danno, ma a poco a poco, per lentissimi gradi, giunsi a considerarlo con un ribrezzo indescrivibile e a fuggire silenziosamente la sua odiosa presenza come sarei fuggito dal lezzo pestilenziale di una malattia contagiosa.

Quel che alimentava senza dubbio il mio odio verso l'animale era stata la scoperta, il mattino successivo alla sua venuta nella mia casa, che anche questo gatto al pari di Pluto era cieco di un occhio. Questo particolare invece non aveva fatto che renderlo ancora più caro a mia moglie, la quale come già ho detto possedeva in sommo grado quella umanità di sentimenti che era stata un tempo il mio tratto caratteristico e la fonte di molte tra le mie più semplici e più pure soddisfazioni.

Ma quanto più la mia avversione per questo gatto cresceva, tanto più sembrava aumentare da parte sua la tenerezza verso di me. Seguiva i miei passi con una ostinazione che sarebbe difficile far comprendere al lettore. Dovunque mi sedessi, subito si accovacciava sotto la mia seggiola, o mi balzava sulle ginocchia importunandomi con le sue insopportabili feste. Se mi alzavo per passeggiare, ecco che correva a mettermisi fra i piedi e per poco non mi faceva cadere, oppure conficcando nel mio vestito i suoi unghioni lunghi e aguzzi si arrampicava con questo sistema sino al mio petto. In quei momenti, benché mi divorasse il desiderio di distruggerlo con un colpo solo, ero trattenuto dal far ciò in parte dal ricordo del mio precedente delitto, ma soprattutto - lasciate che lo confessi subito - da un vero e proprio terrore dell'animale.

Questo terrore non era esattamente il terrore di un possibile male fisico, e tuttavia non saprei come altrimenti definirlo. Ho quasi vergogna di ammettere – sì, persino in questa cella d'infamia ho quasi vergogna d'ammettere - che il terrore e l'orrore ispiratimi dall'animale erano stati rafforzati da una tra le più chimeriche assurdità che sia possibile immaginare. Mia moglie aveva più d'una volta richiamata la mia attenzione sulla stranezza della macchia di peli bianchi di cui ho già accennato, e che costituiva la sola differenza visibile tra questo misterioso gatto e quello che io avevo ucciso. Il lettore si rammenterà che questo segno, per quanto grande, dapprincipio era molto indefinito, mentre invece in seguito (per gradi lentissimi, quasi impercettibili, e che la mia Ragione si rifiutò a lungo di ammettere respingendoli come un'assurda fantasia) aveva infine assunto nettezza di contorni e una forma precisa. Esso era divenuto ora la rappresentazione di un oggetto che rabbrividisco a nominare e per questo soprattutto odiavo e paventavo, e avrei voluto sbarazzarmi di quel mostro se soltanto avessi osato, poiché questo segno, ripeto, si era finalmente trasformato nella figurazione limpidissima di un oggetto odioso e ributtante: era divenuto una forca, oh lugubre e terribile macchina di orrore e di delitto, di agonia e di morte!

E adesso la mia miseria superava la miseria tutta dell'Umanità intera. E una bestia bruta, il cui simile io avevo così sprezzantemente annientato, una bestia bruta doveva foggiare per me, per me uomo fatto a immagine dell'Altissimo Iddio, un così intollerabile tormento? Ahimè! Non conobbi più né di notte né di giorno la benedizione del riposo! Di giorno l'animale non mi lasciava solo neppure per un istante; e di notte mi svegliavo di ora in ora di soprassalto da incubi grevi di indicibile paura per sentirmi l'alito caldo di quella cosa sulla faccia e la vasta massa del suo corpo. Incubo incarnato che non avevo il potere di scuotermi di dosso eternamente incombente sul mio cuore!

Sotto l'incalzare di siffatte torture, quel poco di bene che ancora restava in me scomparve. Pensieri malvagi divennero i miei soli compagni ed erano i più tetri, i più malvagi dei pensieri. L'ombrosità abituale del mio carattere si tramutò in un odio forsennato di tutte le cose e dell'intera umanità; mentre degli scoppi improvvisi, frequenti, incontrollabili di collera, ai quali ora io ciecamente mi abbandonavo, la mia docile moglie era divenuta ahimè! la vittima più consueta e più paziente.

Un giorno ella mi accompagnò per necessità domestiche nello scantinato del vecchio edificio dove la nostra povertà ci costringeva ora ad abitare. Il gatto naturalmente mi aveva seguito giù per i ripidi scalini, e avendo io evitato per vero miracolo di cadere lungo disteso per causa sua, mi aveva esasperato sino alla follia. Sollevai una scure e, dimenticando nella mia collera il terrore puerile che sino a quel momento mi aveva trattenuto la mano, diressi contro l'animale un colpo che certo lo avrebbe ucciso all'istante se fosse calato come io avrei voluto. Ma questo colpo fu arrestato dalla mano di mia moglie. La sua intromissione mi colmò di furore demoniaco, e liberando violentemente il mio braccio dalla sua stretta le affondai la scure nel cervello. Ella cadde morta stecchita senza emettere un gemito.

Appena compiuto questo odioso crimine, mi posi immediatamente e con fredda deliberazione all'impresa di occultare il cadavere. Sapevo che non mi era possibile rimuoverlo dalla casa, né di giorno né' di notte, senza correre il rischio di essere notato dai vicini. Formai nella mia mente molti progetti. A tutta prima pensai di tagliare il cadavere in pezzi minuti e di distruggerli nel fuoco. In un secondo tempo decisi di scavare una fossa nel pavimento della cantina. Poi architettai di gettarlo nel pozzo del cortile oppure di porlo dentro una scatola come se fosse della merce e ordinare al portiere di portarlo via da casa. Infine escogitai quello che mi parve l'espediente migliore. Decisi di murarlo nella cantina stessa come si narra solessero murare le proprie vittime i monaci medievali.

La cantina era adattissima a uno scopo come il mio. Le sue pareti erano state costruite rozzamente e di fresco intonacate con cemento grossolano cui l'umidità atmosferica aveva impedito d'indurirsi. Inoltre in una delle pareti vi era uno sporto provocato da un falso camino o caminetto che era stato riempito e trasformato in modo da somigliare al resto dello scantinato. Mi assicurai che mi sarebbe stato facile spostare i mattoni in quel punto, inserirvi il cadavere, e tornare a murare il tutto come prima in modo che nessun occhio umano potesse scorgervi alcunché di sospetto.

I miei calcoli non dovevano ingannarmi. Con l'aiuto di una sbarra di ferro scostai facilmente i mattoni, e dopo avere accuratamente deposto il cadavere contro la parete interna lo puntellai in quella posizione mentre andavo via via riaccomodando senza fatica l'intera opera muraria così come era stata originariamente costruita. Mi ero procurato con tutte le possibili cautele della calce e della sabbia, avevo preparato l'intonaco in modo che non era assolutamente possibile distinguerlo dal vecchio, e con esso ricopersi accuratamente la nuova opera muraria. Quando ebbi finito mi accorsi con soddisfazione di aver compiuto un buon lavoro. Il muro non sembrava essere stato manomesso minimamente. Spazzai con attenzione minutissima il pavimento dei rifiuti e delle scorie di cui lo avevo sporcato. Mi guardai attorno trionfante e dissi a me stesso: "Meno male! Le mie fatiche non sono state vane".

Subito dopo il mio primo pensiero fu quello di andare in cerca dell'animale che era stata la causa di tanta sciagura, poiché ero ormai fermamente deciso ad ucciderlo. Se fossi stato in grado di acchiapparlo in quel momento, il suo destino sarebbe stato indubbiamente segnato, ma a quel che pareva l'astuta bestia si era spaventata del mio precedente accesso di collera e si guardava bene dal presentarsi al mio cospetto date le attuali condizioni del mio umore.

Mi è impossibile descrivere o fare immaginare al lettore il senso profondo - quasi estatico - di sollievo che la constatazione della scomparsa dell'odiata creatura suscitò nel mio petto. Per tutta quella notte non si fece vedere, e così per una notte almeno, da quando si era introdotto nella mia casa, riuscii a dormire di un sonno profondo e pacifico; sì, dormii nonostante il peso del delitto che mi gravava sull'anima!

Passò il secondo giorno, passò il terzo, ma il mio tormentatore non comparve.

Tornai a respirare come un uomo libero. Certo il mostro spaventato era fuggito dalla mia casa per sempre! Non lo avrei più veduto! La mia felicità era al colmo! Non sentivo quasi la colpa del mio truce misfatto. Mi erano state rivolte alcune domande, ma avevo saputo rispondere a tutte in modo soddisfacente. Era stata persino ordinata un'inchiesta, ma naturalmente nessuno aveva scoperto nulla. Ero certo di avere ormai assicurato un avvenire tranquillo e sereno.

Il quarto giorno successivo all'assassinio entrò però inaspettatamente in casa mia una squadra di poliziotti che procedette a un rigoroso esame dei locali.

Sicuro però della inaccessibilità del mio nascondiglio, non provai alcun imbarazzo. I funzionari di polizia mi pregarono di accompagnarli nella loro perquisizione. Ogni angolo, ogni ripostiglio fu attentamente esplorato. Infine scesero in cantina per la terza o quarta volta. Non uno solo dei miei muscoli tremò. Il mio cuore batteva calmo come batte a chi dorme nel sonno dell'innocenza. Percorsi la cantina da un capo all'altro tenendo le braccia incrociate sul petto e aggirandomi di qua e di là con disinvoltura. I poliziotti si dichiararono soddisfatti e si disposero ad andarsene. L'esultanza del mio cuore era troppo intensa perché potessi trattenerla.

Bruciavo dal dire ancora una parola sola per rafforzare il mio trionfo e rassicurarli doppiamente della mia innocenza.

- Signori -  dissi infine, mentre già stavano salendo i gradini - sono lieto di avere calmato i vostri sospetti. Vi auguro buona salute e vi porgo i miei omaggi. A proposito, signori, questa... questa è una casa costruita meravigliosamente bene. - (Nel desiderio morboso di parlare con disinvoltura quasi non mi rendevo conto delle parole che proferivo). - Posso dire anzi che è una casa costruita in maniera eccellente. Queste pareti, ve ne state già andando signori?, queste pareti, guardate come sono solide! - E a questo punto, in una vera frenesia di sfida, picchiai pesantemente con la mazza che tenevo in mano proprio su quel tratto di opera muraria dietro al quale stava il cadavere della moglie che io avevo tanto amata.

Ma possa Iddio proteggermi e liberarmi dagli artigli dell'Arcidemonio! Non appena gli echi dei miei colpi si furono spenti nel silenzio, ecco che ad essi una voce rispose dal segreto loculo! Era un pianto, dapprima soffocato e interrotto come il singhiozzare di un bambino, che rapidamente si enfiò sino a divenire un unico lungo alto continuo urlo indicibilmente strano e inumano, un ululato, uno strido guaiolante per metà di orrore e per metà di trionfo quale solo avrebbe potuto levarsi dal fondo dell'inferno, se le gole di tutti i dannati nella loro angoscia e tutti i demoni nell'esultanza della dannazione umana si fossero insieme congiunte.

Di quel che fossero i miei pensieri in quel momento è follia parlare.

Sentendomi venir meno, arretrai barcollando verso la parete opposta. Per un attimo i poliziotti giunti già in cima alle scale ristettero immobili, raggelati dall'orrore e da una specie di arcana paura. Un attimo dopo dodici braccia robuste si davano da fare attorno alla parete. Questa cadde di colpo in tutta la sua massa. Il cadavere già quasi interamente decomposto e chiazzato di sangue raggrumato apparve eretto dinanzi agli occhi degli agenti. Sul suo capo, con la sua rossa bocca spalancata e l'unico occhio di fiamma, sedeva lo spaventoso animale la cui malizia mi aveva indotto al delitto e la cui voce rivelatrice mi aveva consegnato al boia.

Avevo murato il mostro entro la tomba!




Edgar Allan Poe nacque a Boston nel 1809, secondo di tre figli di una coppia di attori. Alla morte dei genitori, avvenuta quando Poe aveva solo due anni, fu adottato da una ricca coppia.
Poe si trasferì ben presto in Inghilterra, dove studiò, rivelando una memoria straordinaria e una morbosa passione, al limite dell'insanità, per la musica e la poesia. Nel 1821, Poe tornò in America, trasferendosi in Virginia, dove studiò in accademia per poi iscriversi al corso di lingue della University of Virginia, che abbandonò dopo un solo anno.
Le discordie con il padre per motivi economici e il matrimonio della ragazza di cui era innamorato spinsero Poe a trasferirsi a Boston, dove si mantenne con vari lavori per poi unirsi all'esercito sotto falso nome mentendo anche sulla propria età. Nel 1927 pubblicò la sua prima raccolta poetica, di stampo byroniano, che passò pressoché inosservata: Tamerlano e altre poesie.
Nel 1829 Poe si trasferì presso una zia vedova a Baltimora; qui pubblicò il secondo libro di poesie, Al Aaraaf, Tamerlano e poesie minori.
Due anni dopo, riuscì a farsi espellere dall'Accademia dei cadetti che frequentava, e si trasferì a New York, dove pubblicò la sua terza raccolta poetica, intitolata semplicemente Poesie, che conteneva anche le due precedenti.
Dopo i suoi primi tentativi poetici, Poe si rivolse alla prosa. Per la prima volta, nel 1833, un suo lavoro (il racconto
Manoscritto trovato in una bottiglia) ottenne un riconoscimento. Nel 1935 lo scrittore divenne assistente editore presso un periodico, ma dopo pochi mesi venne licenziato per ubriachezza. Tornò dunque a Baltimora dove, di nascosto, sposò la cugina tredicenne (Poe aveva ormai ventisei anni) facendola figurare come maggiorenne nel certificato di matrimonio. In questi anni continuò a pubblicare poesie, recensioni e racconti, tentando di vivere del proprio lavoro.
Nel 1838 uscì Storia di Arthur Gordon Prym, l'anno successivo la raccolta Racconti del grottesco e dell'arabesco, mentre l'autore affiancava la sua professione di scrittore a quella di giornalista. Pochi anni dopo, l'amata moglie iniziò a mostrare i segni della tubercolosi, dolore che fece sprofondare lo scrittore ancor più nel vizio dell'alcolismo.
Nel 1845 videro la luce i suoi versi più famosi, la poesia
Il corvo, che riscosse un immediato successo. Due anni dopo la moglie morì nel cottage di New York che entrambi abitavano, e in cui Poe risiederà fino alla sua morte.
Il 3 ottobre 1848, Poe venne trovato in stato di delirio nelle strade di Baltimora e ricoverato in ospedale, dove morì il 7 ottobre senza mai recuperare abbastanza lucidità da rivelare cosa gli fosse successo e perché al momento del ritrovamento indossasse abiti non suoi. Le cause della sua morte rimangono tuttora un mistero, anche se, oltre alla palese responsabilità dell'alcolismo dell'autore, sono state formulate le più bizzarre ipotesi, compreso il
cooping (somministrazione di droga a ignari cittadini durante le elezioni politiche al fine di ottenerne il voto).

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