L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
***
«Ovviamente l'avevo già visto. Tante volte. Nei caffè, nei bar, nei ristoranti, nei teatri, nelle sale da concerto e nei bellissimi negozi di una piccola città come Vienna tutti sapevano chi fosse questo o quello, e tutti sapevano chi poteva diventare un giorno qualcosa di più.
Abitavo in una via alla moda, al numero 11 di Kohlmarkt, accanto alla famosa pasticceria Demel. Un giorno, all'ora di pranzo, uscii di corsa di casa, mi girai a salutare un'amica e finii contro Walter. Lui mi tenne stretta un istante. Scuse. Risate. Poi mi prese sottobraccio.
'Ora, Trudi, andiamo a berci una coppa di champagne. Bisogna festeggiare l'avvenimento'. Era un ordine e io obbedii.»
«Nella loggia della sua astronave color ebano, il Console dell'Egemonia suonava, su uno Steinway antico ma ben conservato, il Preludio di Do diesis minore di Rachmaninoff; in basso, fra le paludi, enormi creature verdi simili a sauri si agitavano e mugghiavano. A nord s'addensava un temporale: nuvoloni d'un nero livido facevano da sfondo a una foresta di gimnosperme giganti; stratocumuli torreggiavano a nove chilometri d'altezza nel cielo violento. Più vicino alla nave, vaghe sagome a forma di rettile urtavano di tanto in tanto il campo d'interdizione, mandavano un grido e s'allontanavano rumorosamente nella nebbia color indaco. Il Console si concentrò su un difficile passggio del Preludio, senza badare al temporale e alla notte in arrivo.»
«Eccola infine in tutto il suo splendore.
Melasurej, la Città Sacra. La città degli dei, così la chiamavano un tempo i pazzi infedeli.
Una triplice cinta di mura concentriche la abbracciava su tre lati. Il rimanente era protetto da uno strapiombo a picco sul mare. Al centro, una collina, il cuore originario della città. Su di essa lo straordinario Tempio di Asul. Maestoso, in marmo nero, eretto sulle antiche spoglie della misera dimora di Ulnar, padre degli dei blasfemi, degli dei adorati dagli infedeli.
E ancora: mura di sabbia e cemento, a perdita d'occhio, del colore delle dune circostanti. Una città capace di crescere a dismisura senza mai prevaricare e violare il territorio circostante. Un chiaro segno dell'operato divino.
Torri imponenti sfidano i cieli. Ampi mercati soddisfano gli uomini. Floridi giardini danno loro ristoro e acqua in abbondanza, elargita da enormi statue dalla lavorazione sopraffina. Fiammeggianti vessilli di Asul garriscono orgogliosi sugli spalti e sui torrioni rallegrando i cuori dei viandanti. Bassorilievi istoriati e scolpiti dai migliori artisti di tutti i tempi, guglie orlate d'oro e minareti rivestiti d'argento abbagliante, convivono armoniosamente con le statue d'avorio che impreziosiscono i viali a intervalli regolari non lasciando dubbio alcuno allo straniero sulla ricchezza della città.
Gli avvenimenti che ambivano a essere riconosciuti come eventi storici e immortalati negli annali dovettero tutti rendere omaggio a questa città.»
««Sta ancora piovendo?», chiede il ragazzo.
L’uomo anziano si affaccia alla finestra della baracca.
Getta appena un’occhiata al cielo grigio e volta la testa verso di lui. «Solo quattro gocce».
Il ragazzo è seduto su una balla di fieno, lo zaino posato a terra. È molto giovane, avrà sedici anni al massimo, vestito con un paio di jeans stinti e una camicia a quadretti.
Capelli biondi e ribelli, un viso affilato.
Si alza in piedi, con lentezza. «Provo a rimediare un passaggio».
Raccoglie lo zaino e se lo mette in spalla. Quando passa vicino all’uomo, questi gli allunga un pacchetto di sigarette. «Stammi bene, Jon, e buona fortuna».
«Non fumo», dice il ragazzo. «L’hai scordato?».
L’uomo glielo mette nel taschino della camicia. «Non importa, prendile lo stesso».
Il ragazzo esce nell’aria ancora umida del mattino e qualche goccia gli bagna il volto. Si gira a guardare la fattoria accanto alla baracca e agita un braccio in segno di saluto. Una ragazza dai capelli rossi si sporge dalla finestra del primo piano. «Ciao, Jon. Torna presto!».
Il ragazzo sorride e saluta ancora, poi si avvia.
Lo sanno entrambi che è un addio.»
«Un ruggito di dolore e di rabbia si alzava sulla città, e rintronava incessante, ossessivo, spazzando qualsiasi altro suono, scandendo la grande menzogna. Zi, zi, zi! Vive, vive, vive! Un ruggito che non aveva nulla di umano. Infatti non si alzava da esseri umani, creature con due braccia e due gambe e un pensiero proprio, si alzava da una bestia mostruosa e senza pensiero, la folla, la piovra che a mezzogiorno, incrostata di pugni chiusi, di volti distorti, di bocche contratte, aveva invaso la piazza della cattedrale ortodossa poi allungato i tentacoli nelle strade adiacenti intasandole, sommergendole con l'implacabilità della lava che nel suo straripare divora ogni ostacolo, assordandole con il suo zi, zi, zi. Sottrarsene era illusione.»
«Per molto mi sono coricato presto la sera.
A volte, non appena spenta la candela, mi si chiudevan gli occhi così velocemente che neppure potevo dire a me stesso: "m'addormento". E una mezz'ora dopo, il pensiero che dovevo ormai cercar sonno mi ridestava; volevo posare il libro, sembrandomi ancora averlo fra le mani e soffiare sul lume; dormendo avevo seguitato le mie riflessioni su quel che avevo appena letto, ma queste riflessioni avevano preso una forma un po' speciale; mi sembrava d'essere io stesso l'argomento del libro: una chiesa, un quartetto, la rivalità tra Francesco I e Carlo V.
La convinzione sopravviveva per qualche tempo al mio risveglio, e non offendeva la mia ragione, ma mi pesava sugli occhi come scaglia e impediva loro di rendersi conto che la candela non era più accesa. poi cominciava a farmisis inintellegibile, come i ricordi di un'esistenza anteriore dopo la metempsicosi; il contenuto del libro si staccava da me, ero libero di pensarci o non pensarci; subito recuperavo la vista ed ero assai stupito di trovare intorno a me un'oscurità dolce e riposante per i miei occhi, e forse più ancora per l'animo mio, al quale essa appariva come una cosa senz'anima, incomprensibile, come una cosa veramente oscura.»
«I sung of Chaos and the Eternal Night,
Taught by the heaven'ly Muse to venture down
The Dark Descent, and up to the reascend
- John Milton Paradise Lost
"You've got to be kidding me" said the bouncer, folding his arm across his massive chest. He stared down at the boy in the red zip-up jacket and shook his shaved head. "You can't bring that thing in here". The fifty or so teengers lined up in front of Pandemonium lub leaned forward to eavesdrop. It was a long wait to get into the all-ages club, especially on a Sunday, and not much generally happened in line. The boucers were fierce and come down instantly on anyone who looked like they were going to start trouble. Fifteen years old Clary Fray, standing in the line with her best friend Simon, leaned forward along with anyone else, hoping for some excitement.»
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