30 giugno 2012

La famiglia Moskat - Isaac Bashevis Singer

Le vicende di una famiglia patriarcale attraverso gli anni che vanno dall'inizio del secolo alle soglie della dissoluzione finale nel massacro nazista. La vera protagonista di questo romanzo, però, è la società ebraico-orientale, e in particolare quella di Varsavia, con la sua complessa cultura.
Le storie della decadenza parallela di una grande famiglia borghese e del suo mondo si tingono e si complicano delle particolarissime caratteristiche che una simile vicenda assume all'interno di una società "diversa", che assiste al crollo della propria tradizione e della propria identità storica.

Recensione

Gli Ebrei sono un popolo che non riesce a dormire e non fa dormire gli altri.

Pur nella lontananza geografica e storica, il ruolo della famiglia nella tradizione della cultura yiddish evoca l'importanza che questa istituzione riveste nella nostra civiltà e nelle culture mediterranee in genere. La famiglia Moskat, fatta di un capostipite, reb Meshulam, di tanti figli e altrettanti nipoti, si allarga con matrimoni successivi, separazioni, figli illegittimi e nuove unioni, si estende al di fuori della via Nalewka, cuore del ghetto ebraico di Varsavia, e accoglie tra malumori, liti e riconciliazioni nuovi personaggi e storie.

Per tre decenni, dagli ultimi scampoli di belle époque all'orlo dell'abisso che la inghiottirà nell'olocausto nazista, la genealogia di una benestante famiglia ebrea polacca apre uno spiraglio sulla ostjudentum, la vita delle comunità ashkenazite e ne racconta storia, tradizioni, costumi e cambiamenti in un affresco vivace e colorito, spigliato e nostalgico, venato da una profonda tristezza postuma e insieme di una inesauribile vitalità.

Il filone narrativo principale segue l'arrivo di uno studente di famiglia rabbinica, Asa Heshel Bannet, a Varsavia e il suo ingresso nella ricca famiglia Moskat tramite la conoscenza con Abram Shapiro, un viveur genero del patriarca Meshulam Moskat, e la sua storia d'amore, contrastata dalla famiglia, con una delle nipoti di Meshulam, Hadassah, dopo una fuga in Svizzera e un matrimonio infelice con Adele, figlia di primo letto di Rosa Frumetl, ultima moglie del capofamiglia.
Attorno a questa vicenda sentimentale si raccolgono le inquietudini, amorose ed esistenziali, dei vari rami della famiglia e delle famiglie imparentate o vicine, per esempio quella di Koppel, l'intrigante factotum e amministratore dei beni dei Moskat, sposato e con figli ma innamorato di una delle figlie del suo datore di lavoro.
La storia coinvolge in realtà i destini di tutta una cultura e di una lingua, quella yiddish, nel pieno dell'ondata di antisemitismo che dilaga dalla Germania nazista all'URSS di Stalin e travolge anche la Polonia, in precedenza accogliente verso il popolo eletto, con il contagio del nazionalismo e delle teorie del complotto plutogiudaico.

Singer è egli stesso erede e testimone vivente di questa tradizione così ricca e potente in tutti i campi dell'arte e della letteratura e ci lascia - non solo in questo romanzo - un ritratto estremamente fedele delle sue radici, essendo egli stesso scampato alla piena della shoah. L'autore condensa nella decadenza di questa famiglia un paradigma dell'intera realtà storica fatta di tradizioni, dell'ortodossia dei chassidim, di una morale rigidamente formale, del tradizionalismo delle mogli in parrucca e degli uomini con gabbano, barba luga e filatteri, e nello stesso tempo della spinta inarrestabile, esercitata dalla modernità, alla ribellione verso questo modo di vivere caparbiamente ancorato a una visione precettistica e rigorosa della morale.

Tutti, o quasi, i personaggi vivono in maniera dilemmatica questa opposizione tra un modo di vivere che rappresenta una certezza - una delle poche tra persecuzioni e vagabondaggi delle tribù d'Israele -, fatto di un attaccamento, persino alle sciagure, tale da vedere un pericolo anche nel sionismo nazionalista che spinge i giovani a cercare una vera patria e delle speranze per il futuro in Palestina, e le sirene della modernità nelle forme di un'omologazione che mira a confondersi coi gentili eliminando i segni esteriori dell'appartenenza etnica e religiosa, che costituiscono insieme un forte richiamo identitario e un altrettanto facile bersaglio.

La ricerca della normalità e il dolore della perdita attraversano le due generazioni centrali della famiglia Moskat: la prima, quella di Meshulam, non arriva a vedere i cambiamenti per limiti d'età e l'ultima, quella dei figli di Asa Heshel, non farà in tempo a vivere appieno la tradizione. Le due centrali, quelle di Abram Shapiro e Asa Heshel stesso, subiscono la tensione lacerante tra il peso dell'eredità ingombrante dell'Ebraismo yiddish, che pervade la vita fino al modo di vestirsi e di mangiare, e la voglia di praticare una via, anche individuale, alla felicità, ribellandosi a matrimoni combinati e riti ripetitivi e devoti.

In tutte le contrite e scoppiettanti storie che Singer - insignito nel 1978 del Nobel alla letteratura come cantore della civiltà yiddish - raccoglie nella 'Famiglia Moskat' c'è il ritratto fedele e imparziale della vitalità di questo popolo, assuefatto a pogrom e diaspore ma sempre reattivo, pronto a lasciare la terra dei propri padri e a tornarvi poi per nostalgia: così fa Lia, una figlia di Meshulam, che va in America per sposarsi con Koppel, l'amministratore dei beni paterni, contro il volere di tutta la famiglia timorosa dell'opinione della gente. Lia, oramai emancipata cittadina yankee, torna in visita a Varsavia poco prima dello scoppio della guerra con la Germania del Terzo Reich con marito e figli e non riesce a resistere al richiamo ancestrale delle origini, anche quando ormai è chiaro cosa succederà di lì a poco con la crisi di Danzica. Anzi, quasi in una sorta di 'cupio dissolvi', rimane a Varsavia fino quasi all'arrivo delle truppe naziste, mentre i bombardamenti riducono in macerie il quartiere del ghetto attorno alla via Krochmalna.

Il racconto si ferma qui, sulla soglia della cronaca, che sta per prendere i lugubri contorni della soluzione finale hitleriana, lo sterminio totale della razza ebraica, quando ormai è evidente che la fuga non è più possibile, con l'attonita consapevolezza che l'unica prospettiva messianica è la distruzione, che:

"La morte è il vero Messia, questa è la verità".

Giudizio:

+5stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: La famiglia Moskat
  • Titolo originale: The family Moskat
  • Autore: Isaac Bashevis Singer
  • Traduttore: Sandro Fonzi
  • Editore: TEA
  • Data di Pubblicazione: 2005
  • Collana: Grandi Storie TEA
  • ISBN-13: 9788846203199
  • Pagine: 583
  • Formato - Prezzo: Brochure - 9,90

29 giugno 2012

L'eredità di Iside - Francesco Gioè

Il crollo d’una parete nelle Catacombe cappuccine di Palermo svela una vecchia Bibbia, testa di ponte di un pellegrinaggio che porterà ad un segreto insospettabile. Cos’è il GRIV? Servizi segreti ispirati dalle previsioni catastrofistiche di Al Gore e di buona parte della scienza contemporanea. Qual è il suo obbiettivo? Salvaguardare la Terra ad ogni costo.
Un protagonista fobico e musicopatico; un’equipe di professionisti a spasso per la storia e, sullo sfondo, lo spionaggio ai massimi livelli. L’eredità di Iside mette insieme mistery, noïr e avventura. Una caleidoscopica narrazione attraverso mezzo mondo; attraverso guerre e civiltà pregresse.
Cosa muoveva il vecchio frate vissuto a cavallo di tre secoli? Qualcuno cercherà di scoprirlo, passando da un’investigazione sincopata e da una tecnica narrativa assolutamente graffiante.

Recensione

Il ritrovamento di un arazzo cripticamente decorato in seguito al crollo di una parete nelle catacombe dei Cappuccini di Palermo conduce Gregorio, membro dell'associazione segreta GRIV, in un lungo e avventuroso viaggio che tocca Palermo, l'Egitto, la Grecia, il nord Europa, il Congo. Un viaggio alla ricerca di un prezioso segreto, che mette in contatto Gregorio, strambo protagonista fobico e musicopatico, con un'ampia molteplicità di storie, popoli, paesaggi e artefatti.

Parto da un quesito: è possibile giudicare positivamente un edificio incompleto? La risposta è no: ed è la stessa per quanto riguarda un libro senza editing.

Mi dispiace per le piccole case editrici indipendenti che non hanno i fondi adeguati, ma un libro senza editing è come un palazzo vuoto che mostra soltanto i nudi mattoni: completo e rifinito sarebbe magari un palazzo di lusso, ma allo stato attuale delle cose penetra l'acqua, non c'è riscaldamento, manca l'elettricità, è insomma invivibile. Mi duole dirlo, ma la metafora calza per quanto riguarda L'eredità di Iside, il romanzo d'esordio del palermitano Francesco Gioè: ci sono le potenzialità per uno stile intelligente, la cura nell'ideazione di una trama complessa e che coinvolge ambiti storici, artistici e culturali molto vari, ma il libro risulta pressoché illeggibile per mancanze basilari che non fanno onore all'autore ma che un editing massiccio avrebbe potuto correggere.

Tralasciando i numerosi refusi, le lacune più immediate riguardano la punteggiatura: virgole spesso assenti, o talvolta tra soggetto e verbo, ma – soprattutto – le maiuscole dopo il punto e virgola e un'errata impostazione dei dialoghi. Concetti semplici, che chi scrive e legge molto dovrebbe aver introiettato, ma non è tutto qui, perché spesso l'uso del narratore traballa: selezionato un punto di vista interno, talvolta la voce narrante conosce e commenta qualcosa cui non ha assistito. Sono queste mancanze che pregiudicano un libro che avrebbe potuto essere un avvincente giallo storico.

Altra nota molto dolente sono appunto le note a pie' pagina. Personalmente non le apprezzo: trovo che sia diritto di ogni autore parlare di ciò che il lettore non conosce, e che sia diritto di ogni lettore non essere considerato un troglodita da imboccare con il cucchiaino. Ciò detto, quelle di Gioè sono semplicemente troppe, invasive e pedanti, nella quasi totalità dei casi inutili. Se posso comprendere i riferimenti (linguistici, storici, geografici, culturali) alla realtà congolese, da lettore trovo offensivo che mi venga tradotto in nota Help me!, spiegato cos'è l'U.S. Army o l'Agenzia e localizzata Lörrach.
La questione è che se un autore vuole inserire nel testo elementi o citazioni sconosciuti ai più (e certamente non il caso degli esempi riportati e di molte altre note nel romanzo), deve anche accettare di rischiare che passino inosservati o incompresi.

Non che il romanzo non presenti qualche pregio: come ho già accennato, Gioè spesso si diletta con uno stile interessante e innovativo che gioca a lungo con proverbi e modi di dire; padroneggia inoltre una buona mimesi linguistica che gli consente di attribuire una parlata diversa a ogni tipologia di personaggio, i quali – a proposito – sono interessanti e ben costruiti. Anche la trama è senza dubbio ben congegnata: si tratta di un romanzo che, scritto diversamente, avrebbe potuto dare qualcosa e valere senza dubbio la lettura.

Giudizio:

+2stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: L'eredità di Iside
  • Autore: Francesco Gioè
  • Editore: Neftasia
  • Data di Pubblicazione: 2011
  • ISBN-13: 9788860381682
  • Pagine: 375
  • Formato - Prezzo: Brossura - 18,00 Euro / Epub - 7,90 Euro

28 giugno 2012

Intervista a Clelia Farris, autrice di "La giustizia di Iside"

L'autrice

Clelia Farris è nata a Cagliari nel 1967, dove si è laureata in psicologia con una tesi di epistemologia. Nel 2004 ha vinto il premio letterario Fantascienza.com con l’acclamato romanzo Rupes Recta, giunto alla seconda ristampa. Ha pubblicato diversi racconti su Fantasy Magazine e Robot e nel 2009 ha ottenuto con il presente romanzo un nuovo prestigioso riconoscimento vincendo la prima edizione del Premio Odissea con Nessun uomo è mio fratello. Con La pesatura dell'anima ha vinto il premio Kipple.



Il libro

In un Egitto sospeso tra culto dei morti, religione isiaca, trasformazioni genetiche di vegetali e animali, e una rivoluzione, politica ed ecologica, si innestano le vicende dei Sette, una squadra di poliziotti che, grazie a un accordo con i Giudici dei Morti, può scambiare l'anima di un assassino con l'anima della vittima, e ottenere che quest'ultima resusciti. Ma perché questo avvenga, occorre che tutti i componenti della squadra si riuniscano nel serdab.
Menes, uno dei Sette, è ucciso in un bagno pubblico dismesso. Il capitano che comanda la squadra chiama Naïma a sostituirlo.
Naïma è un Occhio di Horo, un detective che si occupa di delitti comuni. Per obbedire al superiore, è costretta ad abbandonare la caccia a un assassino che uccide dissanguando le sue vittime, e ne tumula il corpo in modo insolito: una piramide di fogli bianchi, un violoncello, una lastra di cristallo.
Nel corso delle indagini, i Sette si troveranno ad affrontare il Mare-di-Sotto, una regione sotterranea popolata da creature mostruose, originate da dissennati accoppiamenti pre-rivoluzione tra geni di pesci, di alghe e di esseri umani. E scopriranno che non tutti i resuscitati sono felici di essere ritornati in vita.
Naïma infine riuscirà a risolvere i suoi casi e a scoprire chi ha ucciso Menes, ma il prezzo da pagare sarà alto.



L'intervista



1. Il tuo è uno dei nomi della “nuova fantascienza italiana”. Con all’attivo quattro romanzi in questo genere narrativo, in che misura ti senti (o non ti senti) parte di un “movimento”? In quanto scrittrice come reputi l’attuale panorama della fantascienza italiana?

Sono sarda,  i sardi non si sentono mai parte di qualcosa e io non faccio eccezione. Come lettrice seguo la fantascienza italiana, come scrittrice non mi  immergo  nella corrente, anche perché l’orientamento attuale prescrive storie ambientate in Italia, e io non lo faccio, propone scenari neo-cyberpunk, e io tratto l’informatica come un aspetto marginale del futuro. Questo non significa che non apprezzi gli autori italiani. Abbiamo una creatività differente, che muove da modelli diversi. 


2. Com’è nata la passione per la fantascienza? Oltre a essere una scrittrice di fantascienza, sei anche un’appassionata lettrice di fantascienza? Quali sono, se ci sono, i tuoi modelli e le tue letture fondamentali in questo campo?

Penso che sia la fantascienza ad avere passione per me. Sono stata scelta. I modelli sono gli scrittori classici. Da bambina apprezzavo i racconti di Asimov, da adulta credo che l’Autore per eccellenza sia Lem, pur con alcune cadute in libri noiosissimi e intellettuali. Devo dire che, di recente, ho riletto Ursula Le Guin e mi sono accorta di essere stata  influenzata dalla sua scrittura più di quanto non credessi.


3. Fantascienza o meno, è certo che i tuoi due romanzi pubblicati per la Kipple, La pesatura dell’anima e il recente La giustizia di Iside con la loro singolare ambientazione in un Egitto ucronico sfuggono a qualunque definizione forzata; com’è nata la scelta di questa ambientazione?

Grazie, sfuggire alle etichette mi viene spontaneo. Qualcuno mi ha detto che questo costituisce anche il mio handicap: gli esseri umani, in genere, prediligono il noto e il già visto, travestiti da novità. Be’, non ci posso fare niente. Volevo un’ambientazione mediterranea, e mi piacciono i luoghi caldi e desertici. L’antico Egitto, col suo culto dei morti, era perfetto per ricamarci sopra qualcosa di nuovo. Uno scenario presente nell’immaginario collettivo, ma trasformato dalla mia fantasia.


4. Uno dei pregi di questi due romanzi è sicuramente la cura del dettaglio e dell’ambientazione. In che modo ti sei documentata nell’elaborazione dello scenario? Di quali strumenti ti sei servita? E in che misura ha contribuito alla redazione dei due romanzi?

Ho cercato testi sull’antico Egitto, ce ne sono in grande quantità, per mia fortuna: traduzioni e analisi di papiri del museo di Torino, lavori sulla mitologia, sul complesso viaggio notturno di Rā e sulla vita quotidiana del popolo. H o trovato perfino un breve dizionario che traduce alcuni geroglifici. E ho scoperto che la storia del faraone che sposa la propria sorella è falsa; l’analisi recente dei papiri ha evidenziato che i termini “sorella” e “fratello” erano usati in modo affettuoso verso persone a cui si era legati da un sentimento forte, senza implicare una effettiva parentela di sangue. Curiosamente, internet l’ho usato poco; giusto per orientarmi nella ricerca bibliografica, ho ritenuto che i libri fossero più autorevoli.
Naturalmente lo studio storico mi è servito per aiutare la fantasia, non volevo riprodurre l’antico Egitto, volevo solo ispirarmi.


5. La protagonista, Naïma, può vantare un interessante e ben curato profilo psicologico. Sicuramente molto si deve alle tecniche di scrittura, ma quanto è frutto delle esperienze di vita? Ti rivedi in Naïma, o magari lentamente avete finito con il convergere?

Dal punto di vista del carattere sono più vicina a Sadou. Le somiglianze tra me e Naïma sono davvero poche, a parte forse una certa simpatia per il rum. In lei, fin da giovane, c’è un’inquietudine esistenziale che la fa sentire fuori posto nel mondo, una caratteristica positiva, perché può condurre a modificare la realtà in cui si vive, rifiutando di accettare in modo passivo lo stato delle cose. Naima si è scontrata con il potere e questo ha mandato in cortocircuito la sua energia, facendola precipitare  in uno stato di “sospensione emotiva”, di raffreddamento interiore, che è molto simile a ciò che vivono i Sette; tuttavia proprio l’esperienza del serdab le darà lo choc benefico che le consentirà di “resuscitare”.


6. Un particolare che mi ha colpito molto è la riappacificazione tra la tecnologia artificiale e la vita biologica; al di là delle necessità narrative, che vogliono una tecnologia “antica” e naturale, credi sia possibile andare incontro a simili forme di sviluppo sostenibile?

Da quel che leggo, mi pare che la ricerca si stia avviando verso una forma di tecno- biologia; batteri che distruggono la plastica, piante che purificano l’acqua e batterie vegetali appartengono già al nostro mondo, il punto è l ’economia, così com’è strutturata oggi, ci consentirà il passaggio a questa tecnologia? Purtroppo la convenienza di pochi viene prima della razionalità dell’approccio ecologico allo sviluppo mondiale. Per esempio, il fatto che si continui a produrre carta dalla cellulosa degli alberi, quando il tempo ci ha provato che dal lino (tanto per restare nelle Due Terre) si ottiene una carta più duratura e resistente, è uno dei segni della potenza dell’economia.


7. Una curiosità che non posso tacere: mi ha sorpreso scoprire che La giustizia di Iside non è il seguito de La pesatura dell’anima, quanto piuttosto una variazione sul tema. Cosa ti ha spinto verso questa scelta? Certo l’ambientazione delle Due Terre permette nuove storie: vi farai ritorno in futuro?

È stata una scelta inevitabile. Non potevo fare un seguito, non potevo neppure scrivere un antefatto, perché prima di ciò che accade nella Pesatura dell’anima, Naïma non faceva parte dei Sette, quindi mi sarei persa uno dei personaggi cardine. La musica mi è venuta in soccorso, come sempre. Mi sono detta: visto che vuoi suonare la stessa melodia, perché non farci delle variazioni? Improvvisa e vedi cosa ti riesce.
È vero, si potrebbero ambientare nuove storie nelle Due Terre, anche storie in cui i Sette rivestono un aspetto marginale, ma al momento sono concentrata su altre cose. Però mai dire mai…


8. Ancora sulle Due Terre: ho adorato, nonostante qualche difficoltà, il dialetto di Dendera. Che tipo di lavoro linguistico c’è dietro?

Mi sono concentrata più sul suono delle parole che non sul significato, volevo che il lettore ne intuisse il senso senza aver bisogno di un dizionario. Un po’ quello che succede quando si tenta di spiegare qualcosa a uno straniero, mischiando e storpiando parole della nostra e della sua lingua.
Io non sono uno che sale in bigoncia, ecco. Sfriso e mestico le parole in modo scozzonato,mi zurla assai ciarmare i pinchi e spaginare la loro grammatica.
Ops, Sirah non ha resistito a dire la sua. Quando ha iniziato a parlare in questa buffa maniera l’ho assecondato. Nella Giustizia di Iside, così come nella Pesatura dell’anima, visto che uso molti termini insoliti (ma non più di quelli inglesi che si trovano nella nostra lingua), ho sentito l’esigenza di mettere un glossario. Mi dispiace che abbia trovato difficoltà col dialetto, però non me la sono sentita di includere una traduzione anche per quello, gli avrebbe tolto fascino.


9. Tema centrale dei due romanzi è la riflessione sulle forme di giustizia, a partire dalla pena di morte, ne vuoi parlare?

La morte violenta appare sempre ingiusta ma anche lo scambio delle anime, l’anima dell’assassino in cambio di quella della sua vittima, poggia su una morte violenta e tutta questa violenza non ripristina lo stato delle cose. La Rivoluzione è convinta di aver trovato la giustizia perfetta ma la verità è che per le vittime non c’è mai vera giustizia. E i Ritornati ne sono la prova.


10. Domanda di rito: cos’è per te la scrittura? Quando hai cominciato a scrivere, e soprattutto, quando hai pensato di cercare la pubblicazione?

Più che scrittrice mi sento narratrice, e scrivere mi consente di raccontare le storie che mi piacciono. Nel 2000, forse perché ero annoiata e insoddisfatta di tante cose, ho scritto il primo romanzo, Quasar. Era un ibrido, poteva passare sia per una storia di fantascienza che per un fantasy (un po’ particolare, come fantasy, ma c’erano degli elementi di magia) e ho provato a mandarlo alle case editrici che pubblicavano questi generi, senza alcun risultato. Nel 2003 ho scritto Rupes Recta e l’ho mandato al concorso di Fantascienza.com.


11. Con quattro romanzi pubblicati puoi già vantare tre premi vinti: in che misura i riconoscimenti ottenuti hanno modificato, se l’hanno fatto, il tuo rapporto con la scrittura e la pubblicazione?

I premi mi hanno permesso di essere pubblicata, ma essere pubblicata non mi dà alcuna certezza di poterlo essere ancora in futuro. Questo è lo stato della fantascienza in Italia. Purtroppo l’editoria italiana attuale è pronta ad accettare qualunque idea o immaginario provenienti dall’estero, sottovalutando la produzione locale. Credo però che sia solo una situazione momentanea, gli scrittori italiani di fantascienza hanno i toni, le idee e lo stile giusto per imporsi al pari degli stranieri.


12. Cosa puoi dirci della tua esperienza editoriale?

Per mia fortuna ho pubblicato con due editori di cui non mi posso lamentare. Tuttavia si pubblicano davvero molti, forse troppi, libri in Italia ed è difficile emergere.


13. Internet oggi ha un ruolo sempre più grande nel mondo della scrittura e della lettura, amplificando la pubblicità e connettendo in maniera diretta scrittore e lettore. Qual è il tuo rapporto con il web?

Un rapporto da voyeur. Sbircio a destra e a manca, seguo alcuni siti con una certa assiduità, leggo recensioni, mi appunto qualche libro interessante, ma intervengo pochissimo, per non dire quasi mai.
Ritengo che internet possa essere davvero utile per la diffusione delle informazioni. Io stessa leggo recensioni di libri che non conosco e mi dico: ah, però, vedi, questo lo voglio proprio leggere.


14. Abbiamo quasi finito. Ultima domanda di rito: progetti per il futuro? Continuerai a spaziare nell’ampio genere della fantascienza, o magari tenterai con un altro genere?

La fantascienza a me dà una libertà di espressione che non trovo in altri generi, credo che sarebbe controproducente abbandonarla. E poi ci sono ancora molte contaminazioni da provare. Al momento sto tentando di scrivere qualcosa con venature horror.


15. Concludiamo l’intervista con una domanda aperta: lascia un messaggio ai nostri lettori, un consiglio, una raccomandazione…

Più che un consiglio, un suggerimento: lasciatevi stupire.

27 giugno 2012

The Wall - Ornella Spagnulo

The Wall è un concept book ispirato all’album “The Wall” dei Pink Floyd. Ogni capitolo è come a sé stante e basato su ogni singolo brano del disco, ma sono presenti anche temi ricorrenti che tengono legato il testo. Uno di questi è il tema del muro, inteso come divisione dagli altri (a cui si riferisce il racconto sulla psicoanalisi).
Un altro tema spesso presente è il primo amore, un rapporto adolescenziale naufragato che torna in diversi momenti della narrazione. Ci sono poi le descrizioni di mura vere e proprie: le mura aureliane e leonine a Roma, le mura di Avila in Spagna e quelle di Berlino.
Un contenitore di frammenti che riconosce nel ricordo di un’adolescenza conflittuale la leva per costruire un’identità riflessiva e cosciente.

Recensione

The Wall è il racconto di una crescita e di un viaggio a più livelli: il continuo salto oltre il muro della propria individualità, i muri ostacoli della vita, fino alle mura autentiche, materiali, di alcune città europee. Con la costante presenza delle canzoni dei Pink Floyd, il muro diviene filo conduttore di riflessioni, pensieri e disquisizioni di vario genere.

Un libro che così si presenta manifesta già qualche problema: per quanto siano riduttive e spesso fastidiose le etichette, un simile libro, privo delle benché minima definizione, finisce col suscitare curiosità e scetticismo in parti uguali. Un concept book, in risposta al concept album dei Pink Floyd: ma passare dalla musica alle parole non sempre è facile.

Il risultato è dunque piuttosto deludente, per innanzitutto una forte debolezza strutturale. I Pink Floyd e l'immagine del muro non bastano a dare organicità all'insieme: ciò che resta è un insieme frammentato di pensieri sparsi, apparentemente senza criterio, che difficilmente attrae la lettura. Più che un libro, sembra una raccolta di frammenti preparatori per un libro che non c'è.

Anche dal punto di vista contenutistico la resa è insoddisfacente: si passa da capitoli meramente descrittivi a riflessioni estemporanee a racconti di vita. I primi sono poco bilanciati: il capitolo che apre il libro, ad esempio, pare voler suscitare nel lettore un senso di nostalgia, ricostruendo un ambiente, dettaglio dopo dettaglio. L'operazione non riesce: due pagine di minuta descrizione senza un solo punto e a capo stordiscono il lettore, che a quel punto volta pagina. I passi più introspettivi e riflessivi sono invece sintomo di una sensibilità piuttosto evidente, ma che non riesce a esprimersi, perdendosi in una fastidiosa ridondanza e cedendo talvolta all'inganno di qualche cliché. Quanto alle esperienze vissute, il racconto in prima persona è talmente invadente da suscitare nel lettore addirittura imbarazzo, come fosse costretto a guardare attraverso uno spioncino.

Tutto questo non riesce ad amalgamarsi, il libro procede così, saltando da un pensiero all'altro, da una canzone all'altra, senza che alla sua brusca chiusura ne emerga una chiara direzione, ne emerga un senso.

Non posso tacere l'ottima padronanza linguistica e stilistica dell'autrice; un ingrediente fondamentale, certo, ma da solo non basta a fare un buon libro. La tecnica c'è, la volontà pure: all'autrice non posso che consigliare di chiarirsi le idee, e chiedersi: che storia voglio raccontare? Cosa ho veramente da dire? A chi mi voglio rivolgere, e che cosa voglio suscitare? Altrimenti rimane un dialogo muto, un monologo contro un muro sordo.

Giudizio:

+2stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: The Wall
  • Autore: Ornella Spagnulo
  • Editore: Narcissus self-publishing
  • Data di Pubblicazione: 2012
  • ISBN-13: 9788863698510
  • Pagine: 96
  • Formato - Prezzo: ePub - 1,99 Euro

26 giugno 2012

L'altra famiglia - Jodi Picoult

Zoe Baxter per dieci anni ha cercato disperatamente di avere un figlio e finalmente il sogno suo e del marito Max sembra diventare realtà: ormai è al settimo mese di gravidanza. Ma il sogno è destinato a tramutarsi in un incubo. Anche questa volta Zoe non riesce a portare a termine la gravidanza e il suo matrimonio non regge di fronte a questo ennesimo, grande dolore. Zoe si rifugia nella sua professione, di musicoterapeuta e insieme alla collega Vanessa cerca di aiutare un'adolescente che ha tentato il suicidio. Fra le due nasce un'amicizia profonda che, con grande sorpresa di Zoe, si trasforma in amore. Al punto che Zoe spera di poter costruire una nuova famiglia e di avere con Vanessa quel figlio tanto desiderato, grazie agli embrioni conservati da lei e Max in una banca del seme. Ma Max si oppone con tutte le sue forze all'idea che Zoe possa avere un figlio, che lui rivendica anche come suo, insieme a un'altra donna. Il caso finisce in tribunale, dove si scontreranno non solo Zoe e Max, ma anche due concezioni diverse e opposte della famiglia, e dove i sentimenti più profondi e radicati di ciascuno verranno alla luce, fino all'inatteso e sorprendente finale.

Recensione

Jodi Picoult ancora una volta ci propone una storia profonda e toccante: di nuovo, al centro dell'attenzione pone una famiglia particolare, di nuovo ci offre un'aula di tribunale in cui non è solo la legge a comandare.
Come anche negli altri romanzi, il caso in discussione è lontano dall'esperienza italiana: una coppia divorziata si contende il diritto di mettere al mondo gli embrioni congelati prima che il matrimonio finisse. Non è solo una contesa tra due persone che si amavano e che ora portano le cicatrici di un passato doloroso. È anche una lotta tra due fazioni diametralmente opposte, quella di una madre che scopre di amare una donna e di voler trascorrere la vita con lei, e quella di un padre che trova la Luce di Gesù e che, influenzato da un pastore un po' troppo zelante, vuole salvare i suoi figli non nati da una vita di peccato.

La Picoult affronta con il consueto garbo una situazione spinosa, che può vedere il lettore parteggiare per principio con uno dei protagonisti: l'epilogo, come già nei romanzi precedenti, non ha nulla a che vedere con la legge o la morale e soprattutto offre un punto di vista che è come una "terza faccia della medaglia".

I protagonisti e i comprimari sono splendidamente delineati, coerenti e umani nelle loro passioni e nelle loro scelte. Le voci del coro sono soltanto tre, contro le più numerose cui ci aveva abituati la scrittrice, ma non se ne sente la mancanza: Zoe, Vanessa e Max si bilanciano alla perfezione senza che l'uno prevalga sull'altro.

Difficile chiudere il romanzo prima dell'ultima pagina: avrebbe meritato il massimo dei voti, se non fosse per una mancanza che ho sentito particolarmente pesante. Senza scendere eccessivamente nel dettaglio, le storie dei personaggi trovano tutte un compimento, eccetto una che viene lasciata cadere nel vuoto. Sarà anche relativa a un comprimario, però questo personaggio svolge un ruolo importante nella vicenda e non basta la fantasia a colmare il non scritto.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: L'altra famiglia
  • Titolo originale: Sing Your Home
  • Autore: Jodi Picolut
  • Traduttore: Corradini Caspani L.
  • Editore: Corbaccio
  • Data di Pubblicazione: 2012
  • Collana: Romance
  • ISBN-13: 9788863803846
  • Pagine: 500
  • Formato - Prezzo: Rilegato, sovraccoperta - 18.60 Euro

23 giugno 2012

Meno di zero - Bret Easton Ellis

Ambientato a Los Angeles agli inizi degli anni '80, questo romanzo freddamente ipnotico è un ritratto crudo e potente di una generazione persa, che ha provato sesso, droga e disillusione a un'età troppo precoce, in un mondo plasmato da nichilismo casuale, dall'apatia e dai troppi soldi che rimpiazzano sentimenti e speranza.
Clay torna a casa per le vacanze di Natale dal suo college sulla costa orientale e si immerge di nuovo in un paesaggio di privilegi senza limiti e assoluta entropia morale, dove tutti guidano porsche, cenano da Spago e sniffano montagne di cocaina. Tenta di resuscitare i sentimenti per la sua ragazza, Blair, e per il suo migliore amico delle scuole superiori, Julian, che ha intrapreso una carriera tra giri di prostituzione e traffici di eroina.
Le vacanze di Clay si trasformano così in una vorticosa spirale di disperazione che lo trascina da feste sfrenate nelle sfarzose ville hollywoodiane a loschi bar e al mondo sotterraneo dei club rock, nella sordida vita notturna di Los Angeles.

Recensione

Meno di zero è una definizione appropriata per dare un'idea della temperatura emotiva del protagonista e degli altri personaggi del breve romanzo d'esordio di Easton Ellis, che si svolge sotto il sole della California a Natale.
Clay potrebbe essere uscito da uno dei telefilm che raccontano l'adolescenza dorata nelle high school della costa del Pacifico: torna a casa per le vacanze di Natale dopo un semestre di corsi universitari e si ritrova immerso in un mondo dorato e glamour, l'high society hollywoodiana, fatto di ville con piscina, party con adolescenti glamour e dediti al sesso randomico e all'abuso di alcolici, droghe e psicofarmaci, scene e rapporti familiari caratterizzati da un'indifferenza e un gelo affettivo che rasentano l'apatia.
Le sue vacanze sanno di nulla e lui cerca di riempire il suo nulla in ogni modo possibile, cercando i suoi amici delle scuole superiori e la sua ragazza, chiedendosi se davvero abbia voglia di continuare i corsi al college e in fondo desiderando di fuggire dal vuoto per scappare al silenzio assordante della dolce vita sulla west coast.
Il vuoto esistenziale e affettivo di Clay si trascina - letteralmente - da un punto all'altro della sua geografia emotiva perché non riesce a trovare nessun punto di riferimento, né nei genitori, un padre perso nella crisi giovanilistica di mezza età e una madre completamente indifferente, né nella ragazza, Blair, con cui condivide solo silenzi, assenze e la perdita dell'innocenza.
Unico rifugio è la storia, un passato di memorie dalle vacanze con la famiglia allargata, i nonni e una serenità - che tende a sbiadire nell'apatia del presente - fatta di inconsapevolezza e ingenuità, raggiungibile ormai solo nel ricordo.

Il disfacimento della persona inizia dai vincoli famigliari - all'inizio in macchina con la madre Clay rinfaccia alle sorelle di dover chiudere la sua stanza quando è via perché le due bambine hanno l'abitudine di rubargli la cocaina - e si mostra nella sua crudezza, senza un minimo di ironia, e si estende a tutto, dall'amicizia con Julian, - finito in un corto circuito di tossicodipendenza e prostituzione cui Clay assiste, quasi con il desiderio di partecipare, come per una forma di attrazione centripeta che lo spinge a lasciarsi ingoiare dall'abisso di insensibilità -, al paesaggio stesso, fatto valli assolate e deserte, percorse da fuoriserie pronte a sbandare e a finire in canyon nel silenzio della notte, e di enormi e lussuose mansions, sempre fornite di champagne, di televisori e betamax fissi sui video musicali di MTV, di piscine, spesso prive di mobili e di anima.

L'annichilimento dell'individuo è tanto più terribile quanto volontario e, per un ragazzo neppure ventenne, del tutto privo di alternative all'abulia.

Per chi avesse letto American Psycho, il romanzo che ha portato Easton Ellis al successo e alla ribalta si riconosce, anche in quest'opera precedente, lo stesso stile come una sorta di prova generale: dall'andamento annoiato della prosa, pronto a esplodere con momenti di violenza efferata, spacciata come una sorta di normalità, alla presenza di oggetti e brand feticcio - per esempio gli occhiali da sole Wayfarer, lo psicofarmaco Quaalude, i vestiti di Parachute, i locali di alto e basso profilo con le prenotazioni sempre in bilico - a Clay, con tutti i suoi simboli degli anni '80, non manca nulla per essere il fratellino minore di Patrick Bateman.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Meno di zero
  • Titolo originale: Less than zero
  • Autore: Bret Easton Ellis
  • Traduttore: Marisa Caramella
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 2006
  • Collana: Einaudi Tascabili Scrittori
  • ISBN-13: 9788806184445
  • Pagine: 185
  • Formato - Prezzo: Brossura - Euro 10,00

22 giugno 2012

1948 - Yoram Kaniuk

Ironico, evocativo, spesso commovente, è il racconto della (ri)nascita di uno Stato antichissimo, ma non solo; è un romanzo sul valore della Memoria e sul drammatico rapporto tra Terra amata e Sangue versato per difenderla; sul distacco tra   i principi e le esigenze della politica e la passione dei giovani, talora coinvolti in una guerra del valore della quale talora non erano coscienti.




Recensione

Yoram Kaniuk è nato a Tel Aviv nel 1930, da una famiglia originaria della Galizia, che aveva compiuto l’aliyah nel 1909. A 17 anni, egli si arruola nelle truppe scelte del Palmach e partecipa alla Guerra d’Indipendenza del 1948, dov’è gravemente ferito ad una gamba.
Considerato tra i più illustri scrittori israeliani, tradotto in ben 25 lingue, insignito di numerosi premi, è autore di libri per ragazzi, saggi, racconti, romanzi. Sono noti i suoi atteggiamenti polemici. Uno fra i tanti: nel maggio 2011 ha chiesto al tribunale distrettuale di Tel Aviv la cancellazione, sul proprio documento di identità, di ogni affiliazione religiosa (obbligatoria sui documenti dello Stato di Israele). E ciò non perché Yoram non si senta “profondamente ebreo”, anzi; ma per desiderio che Stato e religione restino separati.
Tuttavia sulla necessità di uno Stato ebraico non ha dubbi; c’è nel mondo ancora troppo antisemitismo, fa notare, e Israele è circondato da nemici. “Vorremmo essere Atene, non Sparta, ma abbiamo ancora bisogno di essere forti; altrimenti non sopravvivremo”.

1948 prende l’avvio nei giorni lontani della Guerra d’Indipendenza di Israele allorché Kaniuk viene ricoverato in un convento adibito ad ospedale da campo, con una gamba a rischio di amputazione. Ma è proprio in quei momenti di dolore che comincia ad affiorare in lui il flusso dei ricordi sulla drammatica esperienza vissuta. Ricordi che debbono, come l’Autore afferma, fare i conti con la memoria e le sua astuzie selettive -che cosa conta davvero nella ricerca di ciò che si è vissuto?-.

In una recente intervista ha confessato che gli ci “sono voluti 60 anni” per scrivere questo romanzo. Un primo tentativo data del 1959, allorché era imbarcato come marinaio sulla Pan York, una delle navi che trasportavano in Israele dall’Europa i superstiti della Shoah: il testo s’intitolava Uno degli amici di Benny Marshak [dal nome di uno dei commilitoni], ma fu inopinatamente rifiutato degli editori. Negli anni successivi lo scrittore si è cimentato a più riprese nel tentativo di dar corpo ai suoi pensieri; senza peraltro uscirne mai soddisfatto. Finché, qualche tempo fa, a seguito di una grave malattia che lo ha portato in punto di morte, ha deciso che questa era la sua ultima occasione: doveva scrivere, altrimenti sarebbe stato troppo tardi. Ora o mai più.

Questo è il suo testamento spirituale: la drammatica storia di quella guerra vista attraverso gli occhi e la sensibilità di un giovanissimo. Il libro è stato insignito, nel 2011, del Sapir Prize for Literature. Un’opera avvincente, scritta in uno stile essenziale, asciutta, incalzante, una narrazione concitata, talora paradossale, ironica, spesso cruda e dura come ogni racconto di guerra, specie se si tratta di una guerra disperata per la vita. Un racconto tragico, solo all’apparenza contraddittorio, senza un briciolo di retorica. Talvolta certe frasi sembrano quasi sgrammaticate, ma la “presa diretta” è garantita: indubbio merito della traduttrice, Elena Loewenthal. Da leggere in fretta, per non perderne il ritmo -un po’ come quando ti capita di ascoltare la confessione di un testimone ad un processo-; ma devi prestare attenzione per conservarne l’intensità epica.

Di norma dal presente emerge il passato; qui accade spesso il contrario. Come quando, dopo aver accennato alla paradossale vicenda (conosciuta a bordo della Pan York) del dodicenne che, ad Auschwitz, era andato a cercare i diamanti nel retto dei genitori morti per venderli alle SS, nel paragrafo successivo, ci racconta dell’incontro casuale, avvenuto molti anni dopo a Tel Aviv, con quel ragazzo, ora un uomo anziano, magrissimo e brizzolato, che lo riconosce subito. I due si scambiano poche frasi di circostanza, ma ben presto il silenzio ha la meglio: “…ci siamo salutati perché non avevamo nulla da dirci, i ricordi si erano rivolti qualche sguardo… ma non avevamo parole con le quali parlare”. Il carattere irripetibile della Shoah, nella poetica dello scrittore, è un tema forte: un trauma silenzioso, com’egli lo definisce, che persiste ostinato ed aleggia nell’aria.

Una presenza forte; al punto che egli sostiene che la nascita di Israele si deve in gran parte alla Shoah. A tale proposito occorre tener presente che la prospettiva di uno scrittore non è quella distaccata e, per così dire, documentale di uno storico. Quest’ultimo sa bene che lo Stato non è affatto (ri)sorto a seguito della Shoah, quasi a titolo di risarcimento concesso agli Ebrei da parte dell’Europa, ma che vanta radici ben più lontane nel tempo. Kaniuk, al contrario, rivive il dramma suo e dei coetanei: poco più che adolescenti, inesperti, talora disorientati, catapultati in una guerra, per tanti incomprensibile; la più difficile tra quelle cui Israele è stato finora costretto a combattere.

Il sangue è uno dei motivi conduttori del libro. Nell’edizione italiana, il titolo (1948) è posto su uno strano sfondo, costituito, a me pare, da un miscuglio tra terra e sangue rappreso. E poi la Morte, che non li lascia mai e pare divertirsi alle loro spalle giocando a rimpiattino: “..le pallottole mi fischiavano addosso... Provai a fare conoscenza con la morte, ma quella rideva di me e decise di soprassedere”.

Da parte dei responsabili sionisti era stato chiesto a quei giovani di essere degli eroi, fondatori di uno Stato, ma essi erano solo ragazzi che rischiavano la vita per la propria sopravvivenza e per dare una casa a quegli Ebrei rifiutati dal mondo, passati attraverso la “Grande Tribolazione”.

L’opera è un breve, affascinante affresco, dipinto a tinte forti, della storia di Israele agli albori dell’Indipendenza, un mondo guardato con occhio e animo disincantati, ma, forse un po’ al di là delle intenzioni, ruvidamente affettuoso: “…Il Palmach che ho conosciuto io in guerra… erano bande di combattenti. Non era simpatico. Era uno strumento geniale e spietato che stava -senza neanche saperlo- fondando uno Stato per il Popolo d’Israele”.

Bellissimo è l’alternarsi, nel testo, del differente atteggiamento -nei confronti del dolore (fisico e psicologico) e della morte- per un verso, del giovane poco più che adolescente (Kaniuk all’epoca dei fatti) e, per altro verso, dell’uomo anziano, ancora vigile, ma duramente colpito dalla malattia e forse giunto quasi al termine del cammino terreno (lo scrittore, oggi).

Di grande impatto, verrebbe da dire omerico, le scene epiche, comprese quelle i cui protagonisti sono i nemici, come la morte di Abdel Khader al Husseini, il mitico comandante delle forze arabe nella regione (sì, il cugino del famigerato Gran Muftì), ucciso nella decisiva battaglia di Qastel, sulla strada per Gerusalemme, a inizio aprile 1948; vittoria di notevole importanza strategica per le forze ebraiche. Il leader è accompagnato al riposo eterno dai suoi uomini, che interrompono il combattimento, rinunciando ad un pressoché scontato successo, per condurre il venerato capo all’ultima dimora, riservandogli un “funerale da re”. E poi i tipi umani con i quali condividere l’esperienza, in un rapporto sovente dialettico: Ari Pseudonimo, il migliore amico di Yoram, il quale sosteneva che la guerra era “la cosa più meravigliosa capitatagli in tutta la vita”, ma che morirà in modo assurdo durante una certa battaglia; o Yashka, il partigiano, alto e biondo (magari non ebreo…), la cui uccisione è descritta con parole di lirica intensità; o la misteriosa ragazza, piccola e magra, della banda Lehi, scomparsa, da un giorno all’altro, nel nulla.

La Pietà verso i vinti e il rimorso per le inevitabili atrocità che sporcano ogni guerra. Il pensiero agli sconfitti, in primo luogo i civili, come a Ramle: “Bambini. Anziane distese sui rovi a strillare. Uomini in giacca e cravatta, ma senza scarpe, che supplicavano. Dolore. Nostalgia. Umiliazione. Mi sentii complice di un abuso...” Uno scrittore dà vita a diversi stati d’animo, senza far questione di appartenenza; può permettersi una libertà che non è concessa allo storico, il quale, impegnato ad indagare le cause profonde di quel dramma, sa bene, tra l’altro, quanto la pietas e gli alti sentimenti espressi da Kaniuk siano sempre stati sconosciuti (allora, come ora) alla controparte.

E le pagine intense, rabbiose, aliene da qualsivoglia sentimentalismo, dove ci presenta quegli Ebrei i quali, nella torrida estate mediorientale, ancora indossano indumenti invernali e parlano, anzi urlano, in svariate lingue, mescolate tra loro… yiddish, greco, russo, bulgaro, polacco… Essi entrano come belve fameliche nelle case abbandonate dagli Arabi. Sono assai più forti dei giovani sabra. “Presero. Rimasero”. Quanta storia, quanta sofferenza ci sono dentro quei due verbi. Quanto amore. Amore vissuto poi durante i viaggi sulla Pan York: “…Poi m’innamorai di loro. Capii che erano loro i grandi eroi… Parlai con loro…”.

Giudizio:

+5stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: 1948
  • Titolo originale: Tashach (5708)
  • Autore: Yoram Kaniuk
  • Traduttore: Elena Loewenthal
  • Editore: Casa Editrice Giuntina
  • Data di Pubblicazione: 2012
  • Collana: Israeliana
  • ISBN-13: 978-88-8057-445-3
  • Pagine: 180
  • Formato Prezzo  Brossura - 15,00 Euro

21 giugno 2012

Dal libro al film: Il domani che verrà

Ellie Linton, atletica diciassettenne figlia di un proprietario terriero nelle campagne australiane, decide di organizzare insieme all'amica Corrie un campeggio nelle profondità di una gola comunemente conosciuta come L'Inferno. A bordo della Land Rover del padre, insieme al turbolento amico d'infanzia Homer, a Kevin - fidanzato di Corrie -, alla giudiziosa Robyn, alla bella ed elegante Fi, e all'amico thailandese Lee, da cui Ellie si sente attratta, i ragazzi partono ben attrezzati per trascorrere cinque giorni nella selvaggia natura australiana.
Cinque giorni non sono eterni, e lungo la via del ritorno, mentre già progettano il successivo campeggio, Ellie e gli altri realizzano che a Wirrawee è accaduto qualcosa di strano e preoccupante: tutti gli abitanti sembrano essere letteralmente scomparsi, le case in ordine ma abbandonate. Linee telefoniche scollegate, connessione a internet non funzionante, persino la radio tace. Ben presto le dinamiche divengono chiare: durante la loro assenza, uno sterminato esercito navale e aereo ha invaso Wirrawee, strategicamente ben posizionata, e ne ha sequestrato la totalità degli abitanti. Le alternative, per i ragazzi, sono due: tornare all'Inferno e nascondersi, o combattere per riprendersi le loro vite e il loro futuro.

Tomorrow, When the War Began è la trasposizione cinematografica del primo romanzo dell'eptalogia scritta dallo scrittore australiano John Marsden, pubblicato in Italia nel 2011 da Fazi Editore. Scritto e diretto da Stuart Beattie (sceneggiatore di Pirati dei Caraibi, Collateral, Australia), il film, uscito nelle sale nel 2010, segue abbastanza fedelmente le vicende del romanzo, senza terminarne in modo arbitrario la storia; purtroppo, nonostante fosse stata resa nota la volontà di produrre almeno altri due seguiti (tratti dal secondo e terzo volume della saga ancora inediti in Italia, The Dead of the Night e The Third Day. The Frost), e forse una serie televisiva che coprisse le vicende dei successivi quattro volumi, sembra che il progetto sia al momento arenato (forse perché ha incassato circa dieci milioni in meno di quanto sia costato?).

Si tratta di un film dichiaratamente rivolto a un target adolescenziale, una storia di formazione che segna il passaggio all'età adulta attraverso una situazione estremamente ingestibile e pericolosa: i protagonisti dovranno prendere decisioni autonome e dolorose, responsabilizzarsi, sopravvivere in un contesto in cui gli adulti non sono più protezione ma minaccia. E' forse uno dei pochi casi in cui la trasposizione cinematografica si fa mezzo più adatto di quello cartaceo per veicolare i temi della storia: la serie di Marsden, almeno per quanto riguarda il primo volume, non eccelle in approfondimento psicologico, né riesce a creare un senso di tensione e angoscia, elementi restituiti in modo migliore dal film, il quale equilibra perfettamente i momenti di azione e di riflessione senza perdersi nelle turbe adolescenziali dei protagonisti

Il cast principale è interamente composto da attori giovani, pochi dei quali con esperienza. La protagonista Ellie è ben interpretata da Caitlin Stasey, meglio conosciuta nell'ambito delle serie tv (The Sleepover Club), mentre Rachel Hurd-Wood (Peter Pan, Profumo. Storia di un assassino, Dorian Gray) interpreta l'amica Corrie McKenzie. Tra gli altri personaggi principali, Kevin è interpretato da Lincoln Lewis (conosciuto per la serie tv Home and Away), Fi da Phoebe Tonkin (The Secret Circle), Homer da Deniz Akdeniz, Lee da Chris Pang, Robyn da Ashleigh Cummings, Chris - l'ultima aggiunta al gruppo di guerriglieri in erba - da Andy Ryan.

Non si tratta certamente di un film particolarmente impegnativo né memorabile: veloce e giovanile, con buoni effetti, questa produzione australiana si lascia in ogni caso guardare con piacere per tutti i suoi 104 minuti di durata. Tuttavia non lo consiglierei: al contrario della serie cartacea, in corso di pubblicazione qui in Italia, dubito fortemente che la versione cinematografica avrà un finale.




Il trailer italiano del film

L'edizione italiana del romanzo

19 giugno 2012

Figlie di Diana - Stefania Tuveri

Due giovani sorelle sono alle prese con una domanda che cambierà le loro vite: la Magia esiste? La risposta arriverà dalla saggezza della nonna che si occupa di loro e il misterioso e complesso mondo della stregoneria si rivelerà in tutto il suo misticismo, tra incantesimi, Tarocchi e rune. Ma praticare l’antica arte magica comporta delle grandi responsabilità e il Male è in agguato. La sfida che attende Selene e Caterina sconvolgerà le loro vite, ma ci sarà sempre spazio per amore e amicizia.

Recensione

Figlie di Diana è il romanzo d'esordio di Stefania Tuvieri e in comune con la sua autrice ha una caratteristica fondamentale: è giovane. E' giovane nel senso che è fresco, scorrevole, a tratti vivace, ma al tempo stesso ingenuo e immaturo.

Una delle qualità più apprezzabili di questo romanzo è il fatto che l'autrice ha saputo evitare la trama-tipo di ogni Young Adult che si rispetti da Twilight a questa parte: una protagonista "sfigatina" ed emarginata ma in possesso di qualità nascoste che invariabilmente attirano l'attenzione del bello e impossibile della scuola, destinato a diventare l'amore della sua vita. Al contrario, Selene, la protagonista di Figlie di Diana, è un'adolescente normale, ben integrata a scuola e in famiglia, dove condivide una relazione speciale con la sorella maggiore Caterina. Questo però non è sufficiente a rendere la trama di Figlie di Diana originale in tutto e per tutto; al contrario, non poche parti del romanzo ricordano il telefilm Streghe.

Selene infatti scopre di possedere poteri telepatici proprio mentre la sorella realizza di avere qualità empatiche superiori alla norma; da lì a scoprire di essere due Streghe il passo è breve, è sufficiente un giro su internet e una chiacchierata con l'immancabile nonnina. Se accetteranno di acquisire la Consapevolezza della loro natura, il loro compito sarà quello di proteggere gli esseri umani da mostri di vario tipo con il solo aiuto dei loro poteri e dell'altrettanto immancabile librone di magia.

La somiglianza con Streghe non si limita, per quel che mi riguarda, al solo intreccio, ma caratterizza l'intera concezione della magia e degli eventi sovrannaturali. Per quanto simpatico fosse il telefilm, non sono mai riuscita a scrollarmi di dosso la sensazione che tutto fosse gestito in maniera un po' semplicistica; allo stesso modo gli eventi in Figlie di Diana si sviluppano in modo lineare, poco elaborato, con un approccio quasi scolastico. La facilità con cui le sorelle accettano l'idea di avere poteri magici, la naturalezza con cui gli amici di Selene passano dalla diffidenza alla cieca fiducia nelle sue capacità magiche dopo un'improbabile lettura dei tarocchi, e soprattutto la scelta di risolvere ogni nodo della trama tramite la semplice lettura del "sussidiario" di magia, sono tutti elementi che pregiudicano la maturità dell'opera, lasciando nel lettore un senso di incompletezza.

In ogni caso,il romanzo è piacevolmente ben scritto anche se la narrazione non è priva di imperfezioni, probabilmente imputabili all'inesperienza, prima fra tutte il continuo passaggio di prospettiva fra le due protagoniste, i cui punti di vista nel racconto si alternano a volte nello spazio di poche righe, generando una fastidiosa sensazione di discontinuità. L'autrice inoltre ha la tendenza ad intervenire nel racconto un po' troppo attivamente, fornendo riflessioni personali sulla maturità di Caterina e Selene nel gestire il ruolo di responsabilità che la magia comporta, quasi a voler influenzare positivamente il lettore nei confronti delle ragazze invece di lasciare che egli tragga da solo le proprie conclusioni.

Molta attenzione, infine, è dedicata alla psicologia delle protagoniste, mentre i personaggi secondari rimangono un po' piatti e stereotipati. La Tuvieri è sicuramente più a suo agio nei confronti di Selene, alle prese con i piccoli grandi drammi adolescenziali, rispetto a Caterina, il cui rapporto con il fidanzato Alessandro nasce e si evolve tra banalità e superficialità. Forse minore spazio poteva essere dedicato alle liti (un po' infantili) che dividono la compagnia di Selene, destinandolo invece a quelle parti del racconto relative alla catena di efferati omicidi in cui le due ragazze finiscono per trovarsi coinvolte in modo improvviso e un po' pretestuoso. Quest'aspetto della trama risulta infatti poco amalgamata con il resto e risolta in modo un po' sbrigativo, soprattutto se si considera la relativa facilità con cui le protagoniste riescono a identificare e rintracciare l'autore dei delitti.

Giudizio:

+2stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Figlie di Diana
  • Autore: Stefania Tuveri
  • Editore: Lettere Animate Editore
  • Data di Pubblicazione: 2011
  • ISBN-13: 9788897801146
  • Pagine: 140
  • Formato - Prezzo: Brossura - 9,90 Euro

16 giugno 2012

Sangue giudeo - Luca Filippi

Roma, 1500. Mentre il Valentino torna da trionfatore nella capitale accolto con tutti gli onori dal padre, papa Alessandro VI Borgia, nella comunità ebraica si susseguono diversi omicidi per avvelenamento.
Tiberio di Castro, medico speziale alla corte vaticana, sarà chiamato a indagare sul mistero. Ma la sua fama di uomo retto attirerà le attenzioni anche di un’ospite particolare. Caterina Sforza è infatti imprigionata a Castel Sant’Angelo, portata a Roma come bottino di guerra dal Valentino, e con le sue arti magiche e ammalianti chiederà al giovane speziale di aiutarla nel suo progetto di fuga.
Le indagini di Tiberio, introdotto ai misteri del veleno da Caterina, andranno a lambire gli alti vertici della Chiesa, ma qualcuno, nei palazzi del potere, segue con attenzione ogni suo passo, pronto a sacrificarsi per l’oscuro demone che lo governa.
Dopo
L’arcano della Papessa, Tiberio di Castro torna a indagare sui misteri della Roma rinascimentale. Sangue giudeo è un romanzo che alla precisa documentazione storica aggiunge la fascinazione dell’esoterico, il tutto narrato con indiscutibile passione e competenza.

Recensione

Un complotto antisemita terrorizza Roma agli inizi del XVI secolo, quando il ritrovamento di una serie di cadaveri di esponenti della comunità giudaica rischia di provocare una fuga collettiva dalla città eterna, mettendo così in pericolo gli introiti fiscali, garantiti da commerci e prestiti ad usura, su cui la curia pontificia e in particolare il rampollo dei Borgia, Cesare, conta per finanziare militarmente le proprie ambizioni di conquista nell'Italia centro-settentrionale.
Questo lo scenario in cui Tiberio di Castro, sorta di CSI agli ordini di un ostile Cesare Borgia, già protagonista di altri due gialli di Luca Filippi, indaga su una catena di omicidi e incontra la contessa di Imola Caterina Sforza Riario, prigioniera del Valentino, catturata dopo la caduta della roccaforte emiliana e confinata nel palazzo del Belvedere.
Lo scenario storico è ben ricostruito: la situazione italiana molto complessa vede lo scontro tra la sanguigna famiglia Borgia, con alla testa il papa mondano Alessandro VI, e gli alleati Veneziani e Francesi, contro le Sigorie dei Medici e degli Sforza per l'egemonia nella penisola e la creazione di uno Stato regionale nelle Romagne da affidare alle ambizioni politiche del Valentino.
Per gestire le continue campagne di guerra necessarie all'attuazione di questa strategia politica e consentire gli sfarzi della curia spagnola servono i proventi delle tasse e in particolare il continuo flusso di denaro che scaturisce dalla numerosa comunità ebraica confluita a Roma dopo la cacciata dalla Spagna unificata.
Per fronteggiare la catena di delitti Cesare si rivolge a Tiberio di Castro, suo nemico nelle precedenti puntate della serie, di cui però apprezza le capacità investigative. L'uso di un potente veleno, oltre al fatto che le vittime presentano tutte una sorta di marchio, XP, il cristogramma, cioè le iniziali di 'Cristo' in greco, a indicare la matrice fanatica dei delitti, offre al medico patologo ante litteram il destro per ottenere dal duca Valentino il permesso di consultare la contessa Caterina Sforza, riconosciuta esperta in campo di venefici e alchimia e dotata di una vasta educazione umanistica.

Il personaggio di Caterina - al cui ritratto dal sorriso enigmatico, quasi a suggerirne un improbabile ruolo di modella per la celeberrima Gioconda, lavora Leonardo da Vinci nel finale - è forse il pezzo più pregevole di questo giallo, che presenta una buona ricostruzione storica e uno stile corretto e coerente. Filippi delinea un carattere intrigante, poliedrico e sensuale, dalle fortissime passioni, strettamente legato alla propria storia e alle radici famigliari, insomma tutte le caratteristiche della madonna rinascimentale e della femmina mediterranea insieme, affascinante e pericolosa ma irresistibile.

La storia prosegue con un'escalation di efferate violenze nei crimini ai danni degli ebrei romani, concentrate nella zona del Ghetto e di Trastevere, e parallelamente l'autore inserisce anche un filone politico, il tentativo di fuga organizzato da Lodovico il Moro, il Duca di Milano spodestato dai Francesi e protetto dall'Imperatore, in favore della nipote Caterina, come parte di un controffensiva ai piani dei Borgia.

La fusione delle trame, quella 'poliziesca' e quella politica, risulta credibile e interessante, soprattutto per gli sviluppi macabri degli omicidi che danno vita alla figura oscura dell'assassino, un prototipo di serial killer, e si realizza nel protagonista, Tiberio di Castro, che è il punto d'incontro dei filoni, però rimane qualche difficoltà, dovuta soprattutto alla debolezza con cui viene caratterizzato. Per esempio il retroscena legato alla sua inimicizia con il Valentino è accennato ma per chi non abbia letto gli altri romanzi rimane alquanto nebuloso; ancora, la rapidità con cui, una volta esaurita la parte politica della vicenda, se ne risolve anche quella criminale appare piuttosto artificiosa.

Il risultato di questo rapporto tra le due anime di 'Sangue Giudeo' è un equilibrio precario tra i due aspetti del racconto, che sembra quasi doversi comprimere e subire bruschi rallentamenti o accelerazioni nel ritmo o nella definizione dei personaggi secondari, per esempio il gendarme che accompagna Tiberio di Castro nelle indagini, o il gruppo dei canonici teutonici, e anche il colpevole stesso, il cui profilo sembra frettolosamente calcato sullo stereotipo del fanatico religioso.
Anche la spiegazione finale, che dovrebbe essere il culmine della suspense in un buon giallo, risente dell'essere affrettata e non del tutto plausibile, in un contesto in cui invece lo stile scorrevole e l'ambientazione storica avrebbero anche permesso uno sviluppo più coinvolgente e meno sbrigativo dell'intreccio noir.

Giudizio:

+3stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Sangue giudeo
  • Autore: Luca Filippi
  • Editore: Leone Editore
  • Data di Pubblicazione: 2012
  • ISBN-13: 9788863930535
  • Pagine: 248
  • Formato - Prezzo: Brossura - 15,00 Euro

10 giugno 2012

1Q84. Libro 1 e 2. Aprile-settembre - Haruki Murakami

1984, Tokyo. Aomame è bloccata in un taxi nel traffico. L'autista le suggerisce, come unica soluzione per non mancare all'appuntamento che l'aspetta, di uscire dalla tangenziale utilizzando una scala di emergenza, nascosta e poco frequentata. Ma, sibillino, aggiunge di fare attenzione: "Non si lasci ingannare dalle apparenze. La realtà è sempre una sola". Negli stessi giorni Tengo, un giovane aspirante scrittore dotato di buona tecnica ma povero d'ispirazione, riceve uno strano incarico: un editor senza scrupoli gli chiede di riscrivere il romanzo di un'enigmatica diciassettenne così da candidarlo a un premio letterario. Ma "La crisalide d'aria" è un romanzo fantastico tanto ricco di immaginazione quanto sottilmente inquietante: la descrizione della realtà parallela alla nostra e di piccole creature che si nascondono nel corpo umano come parassiti turbano profondamente Tengo. L'incontro con l'autrice non farà che aumentare la sua vertigine: chi è veramente Fukada Eriko? Intanto Aomame (che pure non è certo una ragazza qualsiasi: nella borsetta ha un affilatissimo rompighiaccio con cui deve uccidere un uomo) osserva perplessa il mondo che la circonda: sembra quello di sempre, eppure piccoli, sinistri particolari divergono da quello a cui era abituata. Finché un giorno non vede comparire in cielo una seconda luna e sospetta di essere l'unica persona in grado di attraversare la sottile barriera che divide il 1984 dal 1Q84. Ma capisce anche un'altra cosa: che quella barriera sta per infrangersi.

Recensione

Aomame e Tengo: due voci che non potrebbero essere più diverse, entrambi accomunati dal vivere a Tokyo in uno strano 1984.
Aomame è un'insegnante di ginnastica solitaria e discreta, che talvolta svolge mansioni da sicario per conto di una ricca signora, eliminando uomini che hanno usato violenza fisica o sessuale sulle donne. E' Aomame a mettere in moto la macchina narrativa con un semplice eppure insolito gesto: scendere da un taxi sulla tangenziale intasata per utilizzare una scala di emergenza. Gesto che la conduce nel 1Q84.
Tengo è un giovane professore di doposcuola, appassionato di matematica e scrittore in erba. Quando l'amico editor Komatsu gli propone di riscrivere "La crisalide d'aria", sgrammaticato romanzo che tuttavia sembra sprigionare una forza immaginativa vividissima, l'uomo viene travolto da una catena inarrestabile di eventi: Fukaeri, la bellissima e sibillina scrittrice diciassettenne, è nata e cresciuta in una comunità chiusa successivamente trasformatasi in setta religiosa, e sostiene che la storia fantastica narrata nel suo libro sia realmente accaduta. I Little people esistono veramente.
Tengo e Aomame, che apparentemente non hanno nulla in comune, sono destinati a ritrovarsi impigliati nella stessa maglia che, inesorabilmente, converge verso i misteriosi Little people.

Il Murakami che ricordo io, quello di Kafka sulla spiaggia, ma soprattutto di Norwegian Wood, è un bravo autore. Non lo inserirei tra gli scrittori con il lessico e la sintassi più forbiti e curati, ma senza dubbio lo annovererei tra quelli che sanno usarli in modo più efficace.
La mia personale sensibilità mi porta a liquidare con una sensazione di inadeguatezza i romanzi in cui la sua vena surrealista si fa più marcata – specialmente quelli in cui tale visionarietà prende piede all'improvviso in una storia apparentemente realistica per poi scomparire e riapparire a piacimento -, ma anche in quei casi riesco ad apprezzare il suo spessore. E' questo il motivo per cui mi risulta difficile credere che l'acclamatissimo 1Q84, romanzo in tre parti (il presente volume racchiude solo le prime due, mentre l'ultima è ancora inedita in Italia), sia uscito dalla penna dello stesso autore di Norwegian Wood.

Il lessico risulta enormemente impoverito, la sintassi ridotta ancora più all'osso, tanto che predominano decisamente i periodi composti da soggetto-predicato-complemento oggetto-punto e a capo. Non è nemmeno il difetto peggiore del romanzo: questo tomo di settecentoventi pagine è infarcito di continue ripetizioni; le caratteristiche fisiche dei personaggi vengono ribadite più e più volte, come se l'autore avesse dimenticato di averle già segnalate, e lo stesso avviene con passaggi della storia che vengono presentati al lettore come nuovi, mentre sono già stati menzionati due o tre volte; i dialoghi sono terribilmente banali e piatti, volti – di nuovo – a ripetere quanto già detto o a sciorinare scontatezze da Baci Perugina.

Se non bastassero i difetti sopra menzionati a rendere il libro quasi illeggibile, aggiungo in modo estremamente soggettivo che Murakami presenta una galleria di personaggi insopportabilmente irritanti, sempre pronti ad aprire bocca per sottolineare l'ovvio o per sputare sentenze in virtù del loro essere alternativi.

L'unico punto a favore di questo romanzo altrimenti scadente è una trama affascinante nella sua corale complessità, nel suo accennare a qualcosa che non si riesce a cogliere completamente. Purtroppo, in definitiva, il richiamo a 1984 di Orwell – almeno in queste prime due parti della storia – appare quasi uno specchietto per le allodole, riducendosi a semplici citazioni. C'è del fascino in Murakami, questo mi è impossibile non ammetterlo: prova ne è che l'autore giapponese continua ad avere un largo stuolo di ammiratori adoranti che, per loro stessa ammissione, non riescono a comprendere perché questo libro sia piaciuto loro così tanto. Probabilmente riesce a parlare a una parte di ogni lettore che in me è assente o ben nascosta, dal momento che l'unico suo libro che ho apprezzato appieno (Norwegian Wood, appunto) è anche quello più atipico uscito dalla sua penna.

Giudizio:

+2stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: 1Q84
  • Titolo originale: 1Q84
  • Autore: Haruki Murakami
  • Traduttore: Giorgio Amitrano
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 2011
  • Collana: Supercoralli
  • ISBN-13: 9788806203795
  • Pagine: 722
  • Formato - Prezzo: Rilegato, sovraccoperta - 22,00 Euro

9 giugno 2012

Accabadora - Michela Murgia

Perché Maria sia finita a vivere in casa di Bonaria Urrai, è un mistero che a Soreni si fa fatica a comprendere. La vecchia e la bambina camminano per le strade del paese seguite da uno strascico di commenti malevoli, eppure è così semplice: Tzia Bonaria ha preso Maria con sé, la farà crescere e ne farà la sua erede, chiedendole in cambio la presenza e la cura per quando sarà lei ad averne bisogno. Quarta figlia femmina di madre vedova, Maria è abituata a pensarsi, lei per prima, come "l'ultima".
Per questo non finiscono di sorprenderla il rispetto e le attenzioni della vecchia sarta del paese, che le ha offerto una casa e un futuro, ma soprattutto la lascia vivere e non sembra desiderare niente al posto suo. "Tutt'a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill'e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia".
Eppure c'è qualcosa in questa vecchia vestita di nero e nei suoi silenzi lunghi, c'è un'aura misteriosa che l'accompagna, insieme a quell'ombra di spavento che accende negli occhi di chi la incontra. Ci sono uscite notturne che Maria intercetta ma non capisce, e una sapienza quasi millenaria riguardo alle cose della vita e della morte.
Quello che tutti sanno e che Maria non immagina, è che Tzia Bonaria Urrai cuce gli abiti e conforta gli animi, conosce i sortilegi e le fatture, ma quando è necessario è pronta a entrare nelle case per portare una morte pietosa. Il suo è il gesto amorevole e finale dell'accabadora, l'ultima madre.

Recensione

Le colpe, come le persone, iniziano ad esistere se qualcuno se ne accorge.

Per quanto sia scritto in italiano, con uno stile molto pulito, semplice e ricco insieme, levigato come le vasche di marmo di certi piccoli paesi di montagna di una volta, che questo romanzo breve - o racconto lungo, se si preferisce - di Michela Murgia necessiti di una qualche forma di traduzione risulta evidente dal titolo.

Accabadora o femmina accabadora, dallo spagnolo acabar, finire, significa letteralmente terminatrice ed è una figura, in parte mitologica, dell'antropologia sarda: sarebbe - dal momento che ne mancano attestazioni storicamente attendibili - una figura femminile deputata a porre termine alla vita e alla sofferenza di malati terminali, infermi allettati e moribondi senza speranza, o almeno, secondo un'interpretazione più contenuta, a celebrare i riti per accompagnare l'agonia dei morenti.

La traduzione, tuttavia, risulta necessaria perché il racconto di Accabadora immerge le sue radici nel cuore dell'anima folklorica sarda: oltre al mito delle terminatrici - alle quali, per gli amanti del genere, è anche dedicato un albo omonimo della serie a fumetti horror Dampyr, edito da Bonelli - Michela Murgia fonde insieme anche il costume dei fill'e anima, un istituto simile all'adozione/vendita dei figli da parte di famiglie in stato di necessità, le tradizioni rituali sulle nozze con la preparazione di una corona di pane per la sposa, le superstizioni legate allo spostamento e alle protezioni sui muri di confine tra proprietà fondiarie per mezzo di pratiche al confine con la magia.

Non ci sono molti appigli per collocare cronologicamente la storia, sappiamo che è vicina alla nostra modernità, potrebbe forse risalire agli anni dopo la seconda guerra mondiale, ma la forza con cui si fa sentire l'eredità delle tradizioni sarde la situa in un orizzonte indeterminato, ancora molto vicino a una percezione ancestrale della vita.

La trama presenta una visione matriarcale dell'esistenza, in cui sono le donne, vere protagoniste e depositarie delle scelte e delle responsabilità, a svolgere un ruolo attivo: donna è tzia Bonaria Urrai, sola per fedeltà a un amore mai più ritornato dalla guerra, che adotta Maria Listru sottraendola a una vita senza affetti e in povertà; donna è la madre vera, vedova e rimasta sola con quattro figlie da mantenere, che cede l'ultimogenita, Maria appunto, senza troppi scrupoli e altrettanto affetto; donna è Maria stessa, la protagonista, che dà inizio con la consapevolezza delle colpe a una catena di piccoli eventi con grandi conseguenze, dall'adozione a una fuga, fino a un ritorno che non poteva mancare; donna è infine la bambina torinese, di cui Maria era divenuta governante e la cui fuga apre la strada a una confessione pesante da parte del fratello più grande di lei.

Gli uomini hanno ruoli periferici o comunque non sono reattivi: sono pavidi nei confronti dei sentimenti, come Andrìa Bastìu, o finiscono immobili in un letto come suo fratello Nicola, per aver voluto sfidare la legge degli uomini e quelle delle tradizioni, oppure sono bloccati dalla condizione di vittime ancestrali, come l'adolescente torinese di buona famiglia, poco più giovane di Maria, che si ritrova a esserne tutrice.

Le donne sono la parte attiva della storia: agiscono e sono fattivamente madri, nel senso pieno del termine, realizzano le condizioni dell'esistenza, materiali e spirituali, fino al significato più completo del termine, quello dell'ultima madre, l'accabadora del titolo, che, dando una morte richiesta e desiderata, permette, assumendosene la colpa, alla vita di andare avanti e di rigenerarsi.

Michela Murgia affronta in questo romanzo, che ha tutto il sapore autentico della tradizione sarda, compreso il suo essere apparentemente collocato in una sorta di periferia del tempo e dello spazio, una serie di temi che, a dispetto della patina di piccolo mondo antico, sono di una modernità sconcertante, eppure sfilano davanti agli occhi del lettore con la naturalezza di ciò che esiste da sempre.

L'eutanasia e la difficoltà della vecchiaia si fondono con il tema della maternità, vista nelle due sfaccettature, quella genetica di Anna Teresa Listru o affettiva di tzia Bonaria, un personaggio che di bonario ha ben poco ma è capace di far sentire affetto a una bambina che considerava scontato essere considerata l'ultimo pensiero oltre che l'ultimogenita. Alla scoperta del ruolo quasi di strega, che tzia Bonaria esercita nella piccola comunità di Soreni, appartata dal mondo e ancora sensibile al tepore famigliare di usanze millenarie, Maria reagisce con la fuga, ha paura dell'oscurità del luogo affettivo da cui proviene e soprattutto del ruolo che potrebbe trovarsi spinta a ricoprire come una sorta di eredità.

In più la rottura della fiducia con la madre putativa si interseca anche il legame con la famiglia Bastìu e i due fratelli Andrìa e Nicola, il primo dei quali ha con Maria, di cui è coetaneo, un rapporto quasi simbiotico. In seguito a una vicenda di terra e magia, di confini tra campi spostati con sacrifici rituali e superstizioni ancora vive nella cultura contadina, si creano le condizioni per cui Maria, preda di un comprensibile spavento, rifiuta un'acqua senza pensare che le sarebbe potuto toccare poi di doverla bere, come usa dire tzia Bonaria.

La rappresentazione delle cerimonie della buona morte come una forma di rito catartico e liberatorio e l'uso di un linguaggio semplice e pulito, piano e pregnante insieme, che non cede mai alla tentazione del pietismo compassionevole portano la storia di Maria verso la conclusione e anche la sezione del soggiorno torinese, il cui vincolo narrativo con la struttura principale risulta non privo di deboleze, passa senza creare problemi alla lettura.

Il ritorno - eterno nel suo significato intimo - di Maria a Soreni, pur nella dimensione del dolore, è il simbolo della composizione delle divergenze e delle differenze sulla bilancia degli affetti e del rispetto filiale e anche la catena delle colpe e della catarsi si risolve. L'arrivo nella terra madre si sublima nella presa di coscienza dell'identità tra morte e nascita e chiude il cerchio del ciclo vitale cancellando un allontanamento, che nell'anima non c'era mai stato.

Giudizio:

+4stelle+

Dettagli del libro

  • Titolo: Accabadora
  • Autore: Michela Murgia
  • Editore: Einaudi
  • Data di Pubblicazione: 2010
  • Collana: Numeri Primi
  • ISBN-13: 9788866213116
  • Pagine: 164
  • Formato - Prezzo: Brossura - Euro 18,00

7 giugno 2012

Intervista a Romina Casagrande, autrice di "Dreamland Forest" e "Amailija"

L'autrice

Romina Casagrande. Nata a Merano nel 1977 è laureata in Lettere con indirizzo Classico. Insegna presso la scuola media “Giovanni Segarini” di Merano. Ha collaborato con il museo del Turismo- Touriseum di Merano e con il Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Bolzano-Museion, sotto la direzione dell’artista Heinz Mader. Appassionata di storia, tradizioni e folklore, divide il suo tempo tra scrittura, pittura in una casa piena di animali. Nel 2011 pubblica con Anguana il suo primo romanzo:Amailija, seguito a breve da Dreamland forest. Entrambi sono stati recensiti sulle pagine della Stamberga.



I libri

Amailija. Anno 1342. Il patriarca di Aquileia lancia un terribile anatema su tutte le terre di Margareth, ultima Signora del Tirolo. Calamità e sciagure sconvolgono il paese e sollevano l’odio del popolo contro di lei, chiamata da tutti strega. Ma cosa si nasconde davvero dietro la maledizione della principessa triste, di cui nessuno conosce il volto? E soprattutto cosa la lega, quasi sette secoli più tardi, al destino di Alice, guida giovane e inesperta nel suo antico castello? Anno 2010. Merano. Un apparente colpo di fortuna porta Alice a diventare una guida estiva per Castel Grafenstein, dove l’attende una presenza misteriosa, che visiterà i suoi sogni e cercherà di cambiare il suo destino. Tra passato e presente, scomuniche papali, cupe superstizioni e talismani Alice dovrà fare una scelta. La propria vita o un amore eterno ma impossibile?


Dreamland forest. A.D. 978, Raetia. Una foresta che racchiude misteri occulti. Forze contrapposte in movimento, battaglie per l’imposizione del cristianesimo, un popolo ancora legato al Paganesimo. L’amore che abbatte ogni barriera. Tra storia, leggenda, amore, magia, un nuovo fantasy di Romina Casagrande.






L'intervista



Ciao Romina,
grazie per aver accettato quest'intervista. Noi della Stamberga abbiamo avuto il piacere di leggere e recensire entrambi i tuoi romanzi,Amailija e Dreamland Forest.

Grazie di cuore a voi per esservi interessati ai miei romanzi e per averli recensiti con tanta cura. Vederli citati sul vostro blog è stata una bellissima sorpresa.


1. Prima di parlare di loro vorrei prima parlare un po' di te. Com'è nata la tua passione per la scrittura? Quando hai capito che scrivere era qualcosa di più di un hobby e che avresti voluto vedere i tuoi scritti pubblicati?

Mi è sempre piaciuto molto inventare storie, prendendo spunto da situazioni reali, film, canzoni, personaggi storici, immaginandone la vita, o creare finali alternativi. Mettere nero su bianco una storia vuol dire darle una forma più complessa, seguendo un intreccio coerente, ponendo attenzione ai dettagli e a decine di variabili che rendono una storia autentica e che solo nel momento in cui ci si appresta a scrivere risultano in tutta la loro complessità. Per questo credo che scrivere sia sempre qualcosa di più che un hobby. Naturalmente dipende dal significato che diamo al termine. Ma sono convinta che servano tecnica e costanza. Ci si deve applicare molto, attraverso un esercizio che a volte diventa fatica. Devi scavare dentro di te, nelle vite dei tuoi personaggi, con umiltà. La scrittura ti assorbe completamente. E l’ho vissuta come qualcosa di molto serio fin dall’inizio. Non speravo che i miei romanzi fossero pubblicati perché non sapevo se sarebbero piaciuti ad altri. Ma avevo qualcosa da dire e mi è sembrato importante tentare.


2. E’ stato più difficile scrivere il tuo romanzo d’esordio oppure il tuo secondo libro? Cos’è cambiato nella stesura dei due? Che aspettative avevi quando hai scritto Amailija, quali con Dreamland forest?

Ho cominciato a scrivere Dreamland Forest subito dopo Amailija, quando quest’ultimo aveva già trovato un editore. Il fatto che a qualcuno interessassero le mie storie mi ha sicuramente dato slancio e un ulteriore stimolo per continuare. La stesura di Dreamland è stata molto più serena, anche se è avvenuta in un periodo personale ugualmente movimentato. Ho potuto far tesoro degli insegnamenti della prima editor di Amailija. Credo che rivedere la propria scrittura con persone del settore, appassionate e competenti valga quanto un buon corso di scrittura. Quindi ho cercato di correggere alcuni difetti e di migliorare per raccontare la mia storia nel modo più efficace. Ma è un percorso che continua e credo non finirà mai.


3. Entrambi i tuoi romanzi sono ambientati nella tua terra d'origine,il Trentino Alto-Adige, per quanto in periodi storici completamente diversi. Sei molto legata alla tua terra? Cosa più ami e cosa invece vorresti cambiare di essa? La storia e le tradizioni della tua terra in che modo influenzano la tua vita e il tuo modo di essere?

La mia è una terra piuttosto complicata e che ha alle spalle una storia di divisione e conflitto di cui ancora fatica a liberarsi completamente, nonostante le cose ora siano sicuramente migliorate rispetto al passato. È una regione in cui convivono tre lingue, tre culture, e io stessa provengo da una famiglia in parte tedesca e in parte italiana. Devo dire che non ho mai incontrato grosse difficoltà e ho sempre vissuto come un arricchimento il fatto di appartenere a due mondi per alcuni versi agli antipodi. E ho trovato nelle tradizioni, nelle leggende e nella storia dell’Alto Adige un materiale molto vivo, sul quale si innesta bene la mia creatività.


4. Sia Amailija che Dreamland forest sono romanzi fantasy inseriti in un contesto storico reale e accuratamente studiato e descritto. E' stato difficile combinare realtà e fantasia in questo modo? Perché questa scelta invece che adottare un’ambientazione totalmente immaginaria? In che modo hai tracciato una linea di demarcazione tra gli eventi storici reali e quelli fantastici?

Entrambi prendono piede dalle leggende della mia regione: Amailija dalle superstizioni e dai travisamenti storici riguardo a un personaggio realmente esistito; Dreamland, invece, dalle leggende che alimentano il mistero che le lega un luogo particolare. In tutti e due i casi, ho trovato affascinante il modo in cui storia e invenzione-costruzione fantastica si compenetrano e si intrecciano per trovare spiegazioni, dare razionalità a un qualcosa di misterioso e inquietante, sfuggevole al punto da mettere in difficoltà gli uomini che si confrontarono con queste realtà. Ho voluto riprodurre nei miei romanzi la stessa ambiguità, ma da subito ho pensato che il contesto, in particolare quello storico di Dreamland, dovesse essere il più possibile attendibile. Un po’perché, da amante e studiosa di storia, avrei avuto la coscienza troppo sporca nello stravolgere dati e situazioni a favore di una trama, un po’ per dare maggiore profondità alla storia e permettere al lettore di conoscere un mondo che è realmente esistito. La fantasia prende sempre le mosse dal dato reale, non può prescindere da esso, nemmeno la costruzione più bizzarra. A me piace rendere più labile il confine, riflettere su alcune tematiche sfruttando tutti i mezzi di cui posso disporre.


5. Le tue opere ruotano attorno a figure femminili molto diverse fra loro, dalla spregiudicata e passionale Margareth di Amailija all'ingenua Iworin di Dreamland Forest, per quanto tutte accomunate da una grande forza di carattere. Le tue protagoniste rispecchiano il tuo modo di vedere le donne? Ti senti particolarmente legata ad una di loro? Cosa più ami delle tue protagoniste?

Margareth, nonostante sia modellata sulla figura di una contessa tirolese vissuta nel Trecento, è un personaggio attuale e per alcuni aspetti sorprendentemente moderno, proprio come l’originale. Iworin rappresenta il centro di una riflessione che mi ha coinvolta profondamente nel momento in cui ho elaborato la storia. Sono entrambe donne che dubitano, non sono eroine tutte d’un pezzo. Ma hanno la forza di essere ciò che vogliono a dispetto delle costrizioni e delle inibizioni sociali, come Margareth, o di sovrastrutture poco comprensibili o condivisibili quali una finta religione, nel caso di Iworin. Le ho amate molto entrambe, ma alla fine mi capita di affezionarmi allo stesso modo ai miei personaggi secondari. Ad alcuni di loro, infatti sono dedicati i due seguiti di Dreamland Forest.


6. Dreamland forest è un fantasy particolare in cui il sovrannaturale si manifesta come un conflitto fra angeli e demoni. Da dove è nata l'idea? Attraverso il dualismo angeli/demoni hai voluto esprimere un messaggio particolare?

Angeli e demoni sono i due lati contrapposti dell’animo umano, pulsioni in eterna competizione per la sopravvivenza. Il dramma è quando vorresti essere angelo, vorresti con tutta la tua anima aiutare la persona che ami o comportarti da eroe, ma finisci per scegliere la strada sbagliata. Siamo umani, quindi assolutamente fallaci. È la nostra maledizione e il nostro fascino. La perfezione è noiosa. Almeno in letteratura. E poi, anch’io sono una gran pasticciona, e combino spesso dei bei guai. In questo senso mi sento vicina a Erik, il mercenario che movimenta la trama con le sue debolezze assolutamente umane.


7. Ho molto apprezzato come hai gestito l'aspetto religioso della vicenda, soprattutto nel modo in cui paganesimo e cristianesimo si confrontano e si intrecciano fra loro. Si tratta di tematiche delicate, ti sei sentita in qualche modo limitata nella scrittura del romanzo? Ci sono delle aree considerate "tabù"?

Sono molto contenta che abbiate notato questo aspetto perché era mia intenzione renderlo uno dei punti cardine di Dreamland. Il romanzo vuole presentare varie prospettive, ma la scelta finale sta a ciascuno di noi. Non esistono ricette per la felicità e soprattutto non credo nelle sovrastrutture e nei dogmi che servono solo a ingabbiare e disciplinare. Siamo liberi. Liberi di sbagliare, di correggerci, di cambiare direzione e di scegliere. L’importante è che a guidarci siano sentimenti autentici, la lealtà verso noi stessi e i mondi ai quali ci sentiamo di appartenere. Il fantasy mi ha permesso di evitare qualsiasi limitazione e procedere piuttosto liberamente. A volte avrei calcato di più la mano…ma non era questo l’obiettivo quindi ho preferito dosare in modo più equilibrato. Ho cercato la riflessione e il dialogo. Nessun dogma, nessuna verità preconfezionata e pronta all’uso.


8. In qualche modo sia Dreamland forest che Amailija si occupano di reincarnazione, esoterismo oltre che di religione. Qual'è il tuo rapporto con il sacro ed il sovrannaturale? E che ruolo giocano essi nella società moderna, a tuo parere?

Sono aspetti che mi affascinano e mi attraggono fin da quando ero bambina. Credo che l’ondata di libri e film di successo che ne parlano metta in evidenza un aspetto della società attuale che andrebbe meglio considerato: viviamo in un’epoca di grandi incertezze, di riflessioni dopo ingenui ottimismi quali la cieca fiducia nella superiorità e nelle assolute capacità della scienza. Sono passati i secoli, ma non siamo ancora in grado di spiegare molti fenomeni, molti aspetti della nostra realtà che continua a sfuggirci tra le dita. Abbiamo ancora bisogno di certezze e rassicurazioni.


9. Un'altra tematica centrale delle tue opere è sicuramente l'amore ed il modo in cui esso influenza le scelte delle persone, non solo l'amore "romantico" ma anche l'amore tra madre e figlia, tra sorelle o quello che lega due amici. Si tratta di diverse facce dello stesso sentimento o a tuo parere uno di essi è superiore agli altri? L'amore è davvero una forza primaria nel guidare le azioni delle persone o questa è un'affermazione valida solo nelle pagine di un romanzo?

Lo credo e lo affermo con assoluta convinzione. Non esiste forza più potente e dirompente. Nel bene come nel male. L’attrazione verso l’oggetto del nostro amore – e può anche essere un ideale o un’arte - può portarci a compiere gesti di cui non ci crederemmo capaci. Quando poi le relazioni si complicano ed entrano in gioco più fattori, il senso di responsabilità, l’amore filiale, la paura di deludere, si crea un composto esplosivo.


10. Spostiamo lo sguardo sulla realtà letteraria attuale. E’ ormai qualche anno che si dibatte sull’avvento dei lettori digitali. Ancora in questo giorni al Salone del Libro di Torino ci si interrogava sulla possibilità che l'avvento dell'ebook segnasse la fine del libro cartaceo. Qual è la tua opinione? In che modo i libri in formato elettronico cambiano il modo di concepire la letteratura a tuo parere?

Aiuto… Quello dell’ebook è un argomento di discussioni infervorate con alcuni miei amici. Personalmente non ho ancora un lettore elettronico perché preferisco il formato “tradizionale”, l’odore della carta. Il libro come entità anche fisica mi dà sicurezza e mi mancherebbe troppo se venisse completamente soppiantato dagli ebook. Ci sono sicuramente ambiti in cui il formato elettronico può rappresentare un vantaggio e una risorsa. Ma credo che, per lo meno in Italia, occorrerà del tempo. E non nascondo di esserne felice.


11. Cosa cambia per uno scrittore ora che c'è la possibilità di pubblicare libri in formato elettronico? Si aprono nuove prospettive? Cambia il modo di scrivere oppure la differenza di formato (cartaceo o elettronico) non influenza in alcun modo il contenuto?

Sicuramente dà una maggiore libertà e offre buone prospettive a chi decide di autopubblicarsi o farsi conoscere attraverso altri canali. Potrebbe essere un modo per aggirare il potere e il monopolio delle poche, grandi case editrici che detengono attualmente il potere in Italia e guidano il mercato. Per quanto riguarda i contenuti, non credo esisteranno mai altre limitazioni che l’autentica motivazione dell’autore.


12. In conclusione la domanda di rito: che progetti hai per il futuro? E’ già pronto un nuovo romanzo?

I progetti sono quei sogni e quelle idee che ci permettono di svegliarci pieni di entusiasmo la mattina. Per fortuna in questo periodo ne ho molti per la testa. Il seguito di Dreamland, di cui è quasi terminato l’editing, e altre due storie – una ambientata nell’Ottocento, intorno alla vita piuttosto travagliata di un artista precursore della bohème, e una seconda, tutta proiettata verso il futuro. Il presente… meglio viverlo.


Grazie di nuovo per il tempo che ci hai dedicato ed in bocca al lupo per la tua carriera di scrittrice!

Grazie di cuore a voi per la piacevole chiacchierata e… crepi il lupo!

 

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