L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Voglio essere cremata, le mie ceneri mischiate alla polvere da sparo di un fuoco d’artificio e sparate in cielo sulle note
di My way di Sid Vicious, così che amici e colleghi, ormai imbottiti d’alcol come gli stoppini di una molotov, esclamino
estasiati: “Alexandra Zahradnik ha fatto il botto”.
Sollevò la visiera del casco e guardò a destra e sinistra, niente, tutto bloccato persino per le dimensioni ridotte dell’insetto di ferro, plastica e ruggine cinese che lei chiamava pomposamente “il mio scooter”. Le auto avevano formato un serpentone scorreggiante gas, mentre il marciapiede era stato invaso dal gregge di turisti risputati dal Castello.
Soffiando dalle narici ricontrollò l’ora: splendido, era in ritardo, Gazi ne sarebbe stato entusiasta. E non era una questione meramente formale, mandar giù la sua roba da fredda era come spararsi nelle budella.
Mentre ingannava l’attesa esaminando le facciate liberty dei palazzi della Nerudova si chiese quale perversione potesse spingere uno di quel quartiere a servirsi del “Re del kebab”. Scosse la testa valutando la possibilità di invadere il marciapiede e falciare una comitiva di americani grassocci, così forse avrebbe scacciato il senso d’apprensione che da un’ora le ballava nello stomaco. Niente di meglio di una strage di yankees per curare i brutti presentimenti.
A distarla dalle fantasie di sterminio arrivò una folata di vento con due gocce di pioggia gelata. Roteò gli occhi, il cielo appariva gonfio e minaccioso, di un nero che virava al rosso minerale.
Manca solo che nevichi.»
«Capitolo Primo
Che cosa ci tocca vedere!
29-30 giugno
Nelle prime ore di venerdì 29 giugno 1860 Samuel e Mary Kent dormivano al primo piano di Road Hill House, una villa georgiana disposta su tre livelli che dominava il paesino di Road, a otto chilometri da Trowbridge. I coniugi giacevano nel loro letto a baldacchino di mogano, fabbricato in
Spagna, in una camera tappezzata di damasco scarlatto. L’uomo aveva cinquantanove anni la donna quaranta, ed era incinta di otto mesi. La figlia maggiore Mary Amelia, di cinque anni, dormiva nella stessa camera. A pochi metri, dietro la porta della stanza dei bimbi, si trovavano gli altri due figli e la bambinaia: Saville (tre anni) ed Eveline (venti mesi) dormivano in culle di vimini, mentre alla signorina Elizabeth Gough (ventiduenne) era riservato un letto decorato alla francese.
Al secondo piano dormivano due altri servitori fissi, Sarah Cox (ventidue anni), la domestica, e Sarah Kerslake (ventitre), la cuoca, che dividevano lo stesso letto in un’unica stanza; lì stavano anche i quattro figli che Samuel aveva avuto da un precedente matrimonio: Mary Ann (ventinove anni), Elizabeth (ventotto), Constance (sedici) e William (quattordici). Le prime due dormivano insieme, gli altri invece avevano ciascuno la propria stanza.»
«Era tardi, quando rincasai.
"Ciao, Aliza, sono io... Allora... richiamami".
Il messaggio sulla segreteria mi fece sobbalzare. Nella voce di Dorit avevo riconosciuto il tono riservato alle cattive notizie.
"Domani vado a un funerale" annunciai a mio marito.
"Perché, chi è morto?" mi chiese.
"Non lo so" risposi.
"Tu e le tue amiche" disse sorridendo con affettuosa ironia.
Il giorno successivo, aprendo il giornale, trovai la risposta nella pagina dei necrologi: Fayghe Friman, la zia di Dorit, l'indimenticabile maestra dell'asilo, ci aveva lasciati.»
«Una bacchetta di rame brunito, tenuta ferma da un morsetto da laboratorio, spuntava dall’angolo della scrivania a zampa di leone, rivestita del migliore marocchino. Alta una cinquantina di centimetri, la bacchetta terminava con un giunto cardanico che consentiva piena libertà di movimento a una seconda estensione, per descrivere una sfera quasi completa. Una terza bacchetta, accoppiata alle altre due da un secondo giunto, finiva con una sagomatura foggiata in maniera da adattarsi a all’impugnatura di uno scrittore: quattro solchi per le dita e un incavo per il pollice. Dalla sagoma spuntava il pennino di una penna stilografica.
Lampeggiando e sibilando, le lampade a gas dello studio, confortevole, isolato e decorato di quadri, baluginavano su tutto il marchingegno, a cui conferivano una guizzante luminescenza color burro. Dietro i ricchi tendaggi che adornavano le larghe finestre dello studio, era percepibile una traccia della nebbia londinese, carica di colera, spesse volute turbinanti e vorticanti come complotti bizantini.
Il triste, solitario scalpitare della pariglia di cavalli che trainava l’ultimissimo omnibus della linea di Wimbledon, Merton e Tooting penetrò soffocato nello studio, rinforzando il piacevole senso di isolamento dal mondo.»
«È una messinscena, pensò il professor Belisario, mentre i paesani si affollavano all’imbocco del vialetto della scuola elementare.
Arrivavano di corsa da ogni angolo di Santerio, pallidi, con il respiro corto. Scorgevano il corpo del prete in mezzo all’erba e si nascondevano il volto dietro le mani. Belisario sentiva il rumore di tacchi sull’asfalto aumentare con il trascorrere dei minuti, sommarsi all’incessante frinire di cicale.
I rappresentanti dello Stato, invece, erano giunti da Lizzano e da Potenza: figure in tuta bianca con la scritta ‘Polizia scientifica’ a caratteri scuri sulla schiena, che brulicavano all’interno di un’area transennata. In quel pezzo di giardino don Pietro Miraglia era già al di fuori di Santerio, competenza di un’autorità che non riguardava più la gente comune.L’idea della messinscena era nata nell’istante in cui Belisario aveva intravisto il cadavere fra le ortiche del giardino della scuola, nella vampa precoce delle nove. Sembrava una nuova forma di misticismo, degna di quell’eccentrico parroco. Una specie di penitenza. O una rimostranza, perché in quel posto c’erano troppe ortiche per un giardino bazzicato da scolaretti; Belisario ne avvertiva l’odore a dieci metri di distanza e gli veniva da pensare ai preparati alle erbe di sua cognata Elena.»
«In principio
Era una bella giornata.
Tutte le giornate erano state belle. Questa era la settima, e la pioggia non era ancora stata creata. Ma le nubi ammassate a est dell’Eden erano un chiaro presagio del primo temporale, che sarebbe stato uno di quelli potenti.
L’angelo della Porta d’Oriente si coprì la testa con le ali per ripararsi dalle prime gocce.
«Scusa» disse educato. «Cosa stavi dicendo?»
«Dicevo, questo è stato proprio un bel fiasco» rispose il serpente.
«Oh. Sì» disse l’angelo, che si chiamava Azraphel.
«A essere sinceri, secondo me è stata una reazione un po’ esagerata» disse il serpente. «Cioè, non avevano precedenti o cose del genere. E comunque non capisco cosa ci sia di sbagliato nel conoscere la differenza tra il bene e il male.»
«Dev’essere per forza sbagliato» ribatté Azraphel, con il tono un po’ turbato di chi è altrettanto incapace di capire, e se ne preoccupa, «in caso contrario non avrebbero coinvolto proprio te.»
«A me hanno detto solo: “Sali e combina qualche casino”» fece il serpente, che si chiamava Crawly, benché intendesse cambiare nome. Crawly, aveva deciso, non gli si addiceva più.
«Sì, ma tu sei un demone. Non sono sicuro che tu sia in grado di fare del bene» disse Azraphel. «È la tua... come dire... natura. Niente di personale, sia chiaro.»
«Però devi ammettere che ha l’aria di una farsa» affermò Crawly. «Voglio dire, indicare l’Albero e scriverci sopra NON toccare a caratteri cubitali: non è molto scaltro, no? insomma, perché non piazzarlo sulla cima di una montagna altissima o in un posto fuori mano? Viene da chiedersi quale sia il Suo vero piano.»
«Guarda, è meglio non fare troppe ipotesi» disse Azraphel. «Quello che ripeto sempre è che non si può giudicare l’ineffabile con il senno di poi. C’è ciò che è Giusto, e ciò che è Sbagliato. Se fai qualcosa di Sbagliato quando ti si chiede di fare ciò che è Giusto, meriti una punizione. Voglio dire.»»
«La maga fece scivolare il mazzo sull’erba, srotolando piano il fazzoletto di velluto, nero, come voleva la tradizione, per impedire che altre energie inquinassero il potere delle lame.
“Il gioco della croce greca, mia signora, è quello che fa al caso vostro.”
La ragazza seduta di fronte a lei sorrise. I suoi occhi verdi brillavano di eccitazione, mentre una brezza tiepida le carezzava i capelli.
“Cinque lame, l’ultima sarà indicata dalle precedenti quattro, attraverso la somma dei loro numeri. Vediamo se ci diranno ciò che volete sapere… Vediamo come potrete liberarvi.”
La ragazza la guardò divertita. La maga, ancora una volta, aveva letto nei suoi pensieri.
“La prima lama, la Temperanza. È una guardiana. Qualcuno tiene a voi, mia signora. Qualcuno che visita i vostri sogni e protegge i vostri passi. Ovunque andrete, lui sarà con voi. Non avete ancora indovinato il suo nome?"»
«E allora oggi è sabato 18 marzo e sono seduto nel bar strapieno di gente dell'aeroporto di Fort Lauderdale, e dal momento in cui sono sceso dalla nave da crociera al momento in cui salirò sull'aereo per Chicago devono passare quattro ore che sto cercando di far passare facendo il punto su quella specie di puzzle ipnotico-sensoriale di tutte le cose che ho visto, sentito e fatto per il reportage che mi hanno commissionato. Ho visto spiagge di zucchero e un'acqua di un blu limpidissimo. Ho visto abiti eleganti, interamente rossi e svasati. Ho sentito il profumo che ha l'olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato "Mister" in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l'Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso in aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d'America che ero abituata a vedere. Ho partecipato (molto brevemente) a un trenino a ritmo di conga»
«...c'era una volta in un paese lontano, al di là dei mari e dei monti, un re ricco e potente di nome Babatunde. re Babatunde era un sovrano dispotico, viziato e senza cuore. passava la giornata tra floridi banchetti e feste interminabili, accumulava ricchezze e non si curava dei suoi sudditi..." ma tu lo sai che tuo papà è più ricco del re?»
«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. perché senza che avesse fatto nulla di male, una bella mattina lo arrestarono. La cuoca della signora Grubach, la sua affittacamere, che ogni mattina verso le otto gli portava la colazione, quel giorno non comparve. Cosa che non era successa mai. K. aspettò per un poco guardando dal letto la vecchia che gli abitava di fronte e che lo stava osservando con insolita curiosità: poi meravigliato e nello stesso tempo pieno di fame, si decise a suonare»
ciao, grazie a voi ho letto Apocalypse Kebab, un bellissimo libro !!! vi ringrazio ancora!!!