L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«All’inizio, è indispensabile porre ogni attenta cura nello stabilire i più esatti equilibri. Ciò è ben noto a ogni sorella Bene Gesserit. Così, nell’intraprendere lo studio della vita di Muad’Dib, conviene per prima cosa collocarlo esattamente nel suo tempo: egli nacque nel cinquantasettesimo anno dell’Imperatore Padiscià Shaddam IV. Cura ancora maggiore va usata nel collocare Muad’ Dib nel suo giusto luogo: il pianeta Arrakis. Non ci si deve lasciar ingannare dal fatto che egli sia nato su Caladan e vi abbia trascorso i primi quindici anni. Arrakis, il pianeta noto come Dune, è il suo giusto luogo, per sempre.
Dal Manuale di Muad’Dib, della Principessa Irulan
br> Nella settimana prima della partenza per Arrakis, quando era giunto a livelli quasi insopportabili il tramenio, una donna vecchia e vizza si presentò alla madre del ragazzo, Paul.
Era una notte calda e soffocante a castel Caladan, e l’antico mucchio di pietre che era la dimora degli Atreides da ventisei generazioni dava quel senso di frescura umidiccia che preannunciava un cambiamento del tempo.
La vecchia fu fatta entrare da una porta laterale e condotta giù per lo stretto corridoio fino alla camera di Paul, dove poté spiarlo per un attimo mentre giaceva sul letto.
Una lampada schermata era sospesa vicino al pavimento. Alla sua mezza luce il ragazzo, ora sveglio, scorse il profilo di una donna corpulenta in piedi sulla soglia, accanto a sua madre. L’ombra della vecchia era quella di una strega: capelli simili a un’intricata tela di ragno le incappucciavano il viso; solo gli occhi brillavano, come gioielli.»
«Un macchia di colore intrappolata nell’intrico di linee grigie che disegnano la piazza.
Un sacchetto di carta lucida abbandonato su una panchina.
16 dicembre
Vera svoltò l’angolo e si rifugiò nell’ombra di piazza Venino, allontanandosi dalle decorazioni natalizie e dai colori delle vetrine addobbate a festa. Chissà se tutte quelle luci mettevano davvero allegria a qualcuno. Forse ai bambini. Almeno a quelli che avevano una casa, una famiglia e la sicurezza di un pasto caldo.
Vera tremava di freddo nel leggero giubbotto di plastica rosa e sentiva la solitudine come un grumo duro di sgomento in fondo allo stomaco. Pensò che non ce l’avrebbe mai fatta.
La piazza era buia e deserta, ma l’insegna di un bar con le vetrine appannate indicava che anche quel posto, come tutti gli altri a Milano – strade, piazze, vicoli, androni, giardini, cortili, grandi viali della periferia – era abitato.
Dell’edificio del commissariato solo le finestre più basse erano fiocamente illuminate.»
«Settembre 1943 - a Fiume
Il 15 settembre, all'alba, cominciò la battaglia. La gran parte dei fiumani era corsa nei rifugi, Martino, no, però. Stava alla finestra di casa che affacciava su Via Carducci, fumava. Dal terzo piano poteva vedere bene che cosa stava succedendo. Non aveva paura: se qualcosa gli doveva accadere, sarebbe accaduta comunque. Udiva le esplosioni, vedeva i bagliori, il fumo: sul silurificio, sui cantieri navali, sui ponti. Gli aerei che bombardavano Sussak, le cannonate dall'alto di Cosala verso il fiume Eneo...Come se stesse guardando un film, Martino osservò quanto accadeva alla sua città, aspettando di vedere chi, tra i tedeschi o gli jugoslavi, sarebbe entrato.»
«Stanotte, mentre io e Simon ci stavamo baciando nudi nel nostro nuovo lettone, mi ha chiamata Hanna.
Il mio nome è Juliet.
Mi sono seduta dritta come un fuso e ho tirato su il piumino fin sotto il mento. Una volpe ha guaito nel giardino. Simon si è grattato l’orecchio.
«Simon», ho detto. «Mi hai appena chiamato Hanna?».
Hanna è la nostra ex coinquilina, un’amica dell’università; svedese ed estremamente attraente. Abbiamo condiviso una villetta a Greenwich per un anno. Eravamo in questo appartamento, la nostra prima casa insieme, dalle 19:00. Esattamente cinque ore e quattordici minuti.
«No», si è affrettato a rispondere. «Certo che no».
«Sì, invece», ho detto. «Ti ho sentito pronunciare il suo nome».
«No», ha detto. «Non l’ho fatto».
«Simon», ho detto. «Mi hai chiamata Hanna. Ammettilo».
Ha sospirato e cominciato ad accarezzarmi la coscia, facendo scivolare la mano verso l’alto.»
«Herr Boch finì l'ultima lezione dell'anno scolastico proprio mentre io completavo la sua ennesima caricatura nei margini del mio quaderno. Aveva capelli grigi a cespuglio e lunghe basette che gli incorniciavano una faccia tutta mandibola. Mi divertivo molto a disegnare quei tratti esagerati e in più mi aiutava a sopportare anche le sue noiosissime lezioni. Potevo disegnarlo una volta come il Kaiser e quella dopo come Napoleone. Quel giorno, però, l'avevo semplicemente ritratto come un enorme tricheco, l'animale a cui più somigliava. Era uno dei più miti fra i nostri insegnanti ed era noto tanto per la passione con cui raccontava le gesta dei cavalieri teutonici quanto per gli abbondanti strati di forfora che gli si accumulavano sulla giacca. Di conseguenza a volte mi sentivo in colpa per i miei crudeli disegni, anhe se non così un colpa da smettere. Ero ai tocchi finali quando la campanella suonò e fece finire l'ora, il trimestre e l'anno.»
«LA BRECCIA
La dragonessa Saphira ruggì e i soldati davanti a lei tremarono sgomenti.
«Seguitemi!» gridò Eragon. Levò Brisingr sopra la testa perché tutti la vedessero. La spada azzurra, stagliata contro il banco di nuvole nere che si addensavano a ovest, scintillò di un bagliore iridescente. «Per i Varden!»
Una freccia gli sibilò accanto; lui non se ne curò.
I guerrieri, radunati ai piedi del cumulo di macerie su cui si trovavano Eragon e Saphira, risposero all’unisono ringhiando feroci: «Per i Varden!» Brandirono le armi e partirono alla carica, inerpicandosi sui blocchi di pietra crollati.
Eragon si voltò. Nell’ampia corte sull’altro lato delle rovine si ammassavano circa duecento soldati imperiali. Alle loro spalle si ergeva un’imponente fortezza scura, con le pareti inframmezzate da feritoie e torri squadrate; negli appartamenti in cima alla più alta splendeva una lanterna. Eragon sapeva che da qualche parte, all’interno del maschio, si trovava Lord Bradburn, il governatore di Belatona, la città che i Varden assediavano ormai da ore.»
«L'uomo morto osservava il suo funerale dall'alto, fluttuando sopra la bara chiusa. Pensava ai nomi che la vita gli aveva assegnato: Gianni per pochi; papà per i due figli: Diecipercento o soltanto Dieci per tutti gli altri. Come la stragrande maggioranza dei vivi presenti in chiesa non era interessato alla predica, tanto più che ormai era sicuro di saperne più del prete sui misteri del dopo morte. Aveva perso la vita, di lui non rimaneva altro che un cadavere con la faccia spappolata, ma la sua terrena arroganza rimaneva intatta.»
«La notte tra il 28 e il 29 maggio 1453, "quando l'ombra dai capelli arruffati della tenebra, simile al volto di una schiava greca, ancora oscurava il giorno", come scrisse il grande storico turco Tursun Beg, gli islamici guerrieri della fede "traversarono il fossato e appoggiarono scudi e scale alte come il cielo alle mura delle torri".
La battaglia durò fino al mattino, fino a che "i soldati del giorno non ebbero irrorato di sangue le lande dell'aurora per contendere la torre celeste nel castello dello zodiaco al negro emiro della notte che l'aveva occupata".
Costantinopoli era caduta nelle mani del sultano turco Mehmet II il Conquistatore.»
«Aveva piovuto tutto il giorno. Di solito me ne infischio, se piove o no, ma quella volta avevo promesso di montare le tende e di portare il bambino in spiaggia. Mi ero anche riproposto di applicare quei cavolo di stencil alle pareti loro riservate nella parte della cantina che il nostro mediatore aveva definito tavernetta, e inoltre volevo capire in che modo impegnare quella soffitta che secondo il mediatore, sempre lui, andava considerata un disimpegno, passibile di trasformarsi in stanza degli ospiti, studio o laboratorio.
Ma subito dopo colazione mi ero lasciato distogliere dai miei propositi.
Tutta colpa di un arretrato di "Selezione". È una rivista che di solito non leggo. Mica per altro, non ne ho bisogno, dato che tutte le mattine sul 751 e tutte le sere sul 603 sento analizzare ogni suo articolo nei minimi dettagli. A Verdant Green - duecento case tirate su in quattro stili differenti - ne vanno tutti pazzi. In pratica non parlano d'altro.
Eppure devo confessare che quel benedetto periodico, quando mi capita in mano, finisce per catturare anche me. Quella volta in particolare mi ero appassionato, nell'ordine, ai pericoli cui sono esposte le nostre scuole pubbliche, alle meraviglie del parto naturale e alle gesta di una comunità dell'Oregon che aveva sgominato un traffico di marijuana. Quindi ero passato a una certa figura che un certo famoso scrittore di cui ora mi sfugge il nome considerava il personaggio più indimenticabile da lui incontrato.
Un momento, un momento.
Indimenticabile? Be', era ovvio che l'autore non sapeva di cosa stesse parlando. Temo che il significato stesso di quella parola gli sfuggisse: a lui, come a chiunque non avesse conosciuto mia zia Mame.»
che bel post, complimenti!
anch'io sono concorde nel ritenere che con l'incipit,l'autore si gioca tutto.
Vaty