L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Bologna ha le sue strade bastarde.
Quelle anguste e traditrici del centro storico, impregnate di olezzi centenari – muri decrepiti, muffa, restauro fresco, perfino un retrodore di bosco -, costellate di sensi unici, di buche, di numeri civici offuscati dall’usura.
Bologna, selciato in fiamme, che al tramonto rosseggia come la città di Dite dantesca incendiata dal foco eterno. L’afa delle otto di sera mi si schianta in viso, non basta l’effetto ventilatore dei trenta all’ora dello scooter di terza mano acquistato in due rate.
Imbocco un divieto di accesso, via de’ Giudei, l’indirizzo è questo: una delle due strade principali dell’antico ghetto ebraico. L’altra è via dell’Inferno. Una carreggiata delineata da palazzo a palazzo con scorrimento consentito in una sola direzione, così stretta che se passa una macchina non c’è posto nemmeno per un pedone. Parcheggio nella rientranza dell’androne corrispondente al numero indicato sul foglio, il 2/a. Agguanto un cartone di pizza e suono il campanello.»
«"Ma perché mai devo riportare proprio tre ciocche dei capelli della Regina delle Fate?" domandò il giovane principe alla vecchina. "Perché non due, o quattro?" La vecchina si sporse verso di lui, e senza mai smettere di filare rispose: "Non ci sono altri numeri possibili, ragazzo mio, perché tre è il numero del tempo. Non parliamo forse di passato, presente e futuro? Tre è anche il numero della famiglia: non parliamo forse di madre, padre e figlio? Tre è infine è il numero delle fate: non le cerchiamo forse tra querce, frassini e biancospini?": Il giovane annuì, perché la saggia vecchina aveva detto la verità: "E così devo avere tre ciocche per tessere la mia magica treccia." ("La treccia delle fate" di Eliza Makepeace )
Intorno a lei era tutto buio, ma la piccola fece come le avevano ordinato. La signora le aveva detto di aspettare lì, in quel posto sicuro, silenziosa come un topolino nella sua dispensa. Era un gioco, lo sapeva, un po' come nascondino. La signora sarebbe tornata...»
«Farid non ha mai visto il mare, non c'è mai entrato dentro.
Lo ha immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià. Azzurro come il muro azzurro della città morta.
Ha cercato le conchiglie fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati. Abita in una delle ultime oasi del Sahara.»
«Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia, si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole.»
«Sanda e Tin Ko formano una strana coppia: moglie e marito inseparabili, lavorano e si muovono all'unisono. Lei, bassina, col viso tondo, gli occhi che si muovono continuamente, sembra quasi la sua mamma. E non perché sia o appaia più vecchia, ma perché Tin Ko nonostante i suoi 42 anni sembra un adolescente. Alto e magrissimo come una lunga canna di bambù che ondeggia al vento, il viso senza un filo di barba, a prima vista si potrebbe scambiare per una ragazzina»
«Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca Collina dei Colombi. Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo. Il servo non guardava al di là del poderetto anche perché i terreni da una parte e dall'altra erano un tempo appartenuti alle sue padrone: perché ricordare il passato? Rimpianto inutile. Meglio pensare all'avvenire e sperare nell'aiuto di Dio.»
«Avevo trentasette anni, ed ero seduto a bordo di un Boeing 747. Il gigantesco velivolo aveva cominciato la discesa attraverso densi strati di nubi piovose, e dopo poco sarebbe atterrato all'aeroporto di Amburgo. La fredda pioggia di novembre tingeva di scuro la terra trasformando tutta la scena, con i meccanici negli impermeabili, le bandiere issate sugli anonimi edifici dell'aeroporto e l'insegna pubblicitaria della Bmw, in un tetro paesaggio di scuola fiamminga. È proprio vero: sono di nuovo in Germania, pensai.»
«Anno 97 dalla fondazione di Roma, idi di settembre
Era notte nella foresta e la caccia stava per cominciare. Branwen di Caledonia ne era certo. Una pallida falce di luna spuntava oltre le chiome delle querce animate da sussurri incessanti. Le fronde si agitavano al vento tormentando Branwen con un bisbiglio crudele e maligno che lo distraeva.
Doveva concentrarsi o avrebbe perso il segugio. Il cane, un veltro britanno tremante per l'eccitazione, era scattato in avanti penetrando rapido nel sottobosco.
Branwen non lo vedeva ma riusciva a seguirlo con facilità. A guidarlo erano l'arrancare frenetico dell'animale e il battito del suo cuore. Lo sentiva pulsare con chiarezza come fosse nel suo petto, un martello che gli percuoteva l'interno del costato cercando di aprirsi un varco fuori dalla gabbia che lo tratteneva.»
Veramente bella la Vetrina degli Incipit - Idea azzeccata !