Buonasera a tutti i nostri lettori,
torna oggi Angolotesti, una selezione di testi letterari o poetici nella loro interezza con una breve contestualizzazione perché possiate meglio apprezzarli.
Manca ormai meno di una settimana al Natale, per cui ho scelto un testo a tema, una favola della mia infanzia rimasta invariata nel mio gradimento perché priva di connotazioni religiose ma non certo di spirito natalizio. Il testo in questione è L'abete di Hans Christian Andersen, probabilmente il fiabista moderno europeo più famoso dopo i fratelli Grimm. Scritta nel 1844 e pubblicata nel 1845 sul secondo volume di Fiabe, la fiaba che segue ha per protagonista un abete perennemente scontento del suo stato presente e sempre proiettato verso una felicità futura che si rivelerà effimera e insoddisfacente. Analogamente a quelle persone che aspettano sempre che il presente passi nella speranza di un miglioramento e che scoprono troppo tardi che i momenti migliori della loro vita si trovano ormai alle loro spalle, anche l'abete brucerà la sua esistenza nell'attesa, incapace di godere delle gioie del presente.
Nota: testo reperito su Wikisource, traduzione di Maria Pezzé-Pascolato.
C’era una volta nel bosco un piccolo abete, che avrebbe dovuto essere molto contento della propria sorte: era bello, e in ottima posizione; aveva sole e aria quanta mai ne potesse desiderare, e amici più grandi di lui, pini ed abeti, che gli stavan d’attorno a tenergli compagnia. Ma egli non aveva che una smania sola: crescere. Non gli importava di sole caldo né di aria fresca; né si curava dei contadinelli che gli passavano dinanzi chiacchierando, quando venivano al bosco in cerca di fragole e di more. Spesso, quando ne avevano colto tutto un panierino, o quando avevan fatto una coroncina di fragole, infilate su di una paglia, venivano a sedere accanto al piccolo abete, e dicevano: "Com’è grazioso, così piccolino!" - Ma all’abete quel complimento poco garbava.
L’anno appresso era cresciuto di un nodo intero, e l’anno dopo ancora, di un altro; perché negli abeti dal numero dei nodi si può sempre dire il numero degli anni che sono cresciuti.
"Oh, se fossi alto come quell’albero laggiù!" - sospirava il piccolo abete: "Allora sì, che stenderei i miei bravi rami in lungo e in largo, e dalla mia vetta guarderei per tutto il mondo. Allora gli uccelli potrebbero fare il nido tra le mie fronde, e, quando tira vento, potrei accennare a dondolarmi superbamente anch’io come i grandi."
Non trovava piacere nel calore del sole, negli uccellini, nelle nuvole di porpora che passavano sul suo capo mattina e sera.
Tal volta, nell’inverno, quando la neve era sparsa per tutto bianca e scintillante, una lepre veniva correndo a tutto spiano, e saltava pari pari sopra l’abete. Oh, gli faceva una rabbia... Ma gl’inverni passarono, uno dopo l’altro; e, quando giunse il terzo, il piccolo abete era divenuto così alto, che la lepre fu obbligata in vece a girargli attorno.
"Oh, crescere, crescere, divenir grandi, divenir vecchi! Ecco la sola cosa bella di questo mondo! - pensava il piccolo abete.
Ogni autunno solevano venire i taglialegna a segare gli alberi più alti; e così fecero anche quell’anno. Il piccolo abete, che oramai si era fatto bello alto, rabbrividiva dallo spavento, perché i grandi alberi maestosi piombavano a terra con fracasso; e poi avevan mozzati tutti i rami, così che rimanevano nudi, lunghi e sottili, da non riconoscerli nemmeno più. E poi erano caricati sui barocci, e i cavalli li trascinavano fuori dal bosco. Dove andavano? che destino li aspettava?
A primavera, quando venivano le rondini e la cicogna, l’alberello domandava loro: "Sapete dove li abbiano portati? Non li avete incontrati per via?"
Le rondini nulla ne sapevano; ma la cicogna, fatta pensosa, scrollava il capo e diceva:
"Sì, credo di saperne qualche cosa. Ho incontrato molti bastimenti nuovi, tornando dall’Egitto; e i bastimenti avevano certi alberi alti... M’immagino che fossero quelli. Odoravano di pino. Posso darti la mia parola ch’erano maestosi, molto maestosi."
"Oh, se fossi grande abbastanza da andar per mare! Che roba è questo mare? A che somiglia?"
"Sarebbe troppo lungo a spiegare..." - e la cicogna se ne andava per i fatti suoi.
"Godi la tua gioventù," - dicevano i raggi di sole: "Rallegrati della tua nuova altezza, della vita giovanile che è dentro di te."
E il vento baciava l’alberello, e la rugiada lo bagnava di lacrime; ma il piccolo abete non comprendeva.
All’avvicinarsi del Natale, furono tagliati certi abeti giovani giovani, taluni anche più giovani e più bassi del nostro alberello, il quale era in continua agitazione, dalla gran voglia che aveva di andarsene. Questi piccoli alberi, ed erano per l’appunto i più belli, si caricavano intatti, con tutti i loro rami, sopra i barocci, per portarli fuori del bosco.
"Ma dove vanno tutti?" - domandava l’abete: "Non sono più alti di me; uno, anzi, era molto più piccino. E perché a questi non tagliano i rami? Dove li portano?"
"Noi sì, che lo sappiamo! Noi sì, noi sì!" - pigolarono i passeri. "Laggiù, in città, noi guardiamo dentro dalle finestre. Noi sì, sappiamo dove li portano, noi sì! Oh bisogna vedere come li rivestono, con che lusso, con che splendore! Abbiamo guardato dentro dalle finestre, ed abbiamo veduto come li piantino nel mezzo della stanza calda e li adornino delle cose più belle - mele dorate, noci, dolci, balocchi, e centinaia e centinaia di candeline colorate."
"E poi? e poi?" domandava l’abete, e tremava persino, dalla vetta alle radici, per la grande ansietà: "E poi? che cosa avviene poi?"
"Poi? non abbiamo veduto altro. Ah, ma era una bellezza!"
"Chi sa ch’io non sia destinato un giorno ad una simile gloria?" - gridò l’albero allegramente: "È ancora meglio che viaggiar per mare. Ah, che struggimento! Vorrei che fosse oggi Natale! Oramai sono grande e grosso come quelli che furono menati via l’anno passato. Ah, mi par mill’anni d’essere sul baroccio! Mi par mill’anni d’essere nella stanza calda, tra tutta quella pompa, tra quello splendore! E poi? Già, deve poi venire qualche cosa di più bello ancora: se no, perché mi adornerebbero a quel modo? deve venire poi una grandezza, una gloria anche maggiore; ma quale? Oh, che struggimento, che struggimento! Non so nemmen io che cos’abbia per soffrire così!"
"Gioisci e contentati di noi!" - dicevano l’aria e il sole: "Rallegrati della tua fresca giovinezza nella foresta!"
Ma l’abete non si rallegrava punto: non faceva che crescere e crescere, inverno e estate, sempre più verde, d’un bel verde cupo. La gente diceva: "Che bell’albero!" - e, a Natale, fu tagliato prima di tutti gli altri. L’ascia andò profonda, sino al midollo, e l’albero cadde a terra con un sospiro; provava un dolore, una sensazione di sfinimento, non poteva davvero pensare a felicità: è così triste lasciare il posto dove si è nati e cresciuti... Sapeva che non avrebbe rivisti mai più i vecchi compagni, i piccoli cespugli ed i fiori ch’erano lì attorno - nemmeno gli uccelli, forse... Ah, il distacco fu tutt’altro che lieto!
L’albero non tornò in sè che quando fu scaricato in un cortile insieme con molti altri, e sentì dire:
"Questo sì, ch’è magnifico: non voglio vederne altri. Prendiamo questo."
Vennero due domestici in livrea gallonata, e portarono l’albero in una grande splendida sala. Le pareti erano tutte coperte di quadri, e presso una enorme stufa stavano due vasi della Cina con due leoni dorati sul coperchio: c’erano due poltrone a dondolo, e divani di broccato, e grandi tavole cariche di bei libri con le figure; e balocchi che valevano cento volte cento lire - almeno, così dicevano i bambini. E l’abete fu posto in un grande mastello pieno di sabbia; ma nessuno avrebbe detto che fosse un mastello, perché era stato ricoperto di stoffa verde, e collocato nel mezzo d’un bel tappeto a colori. Ah, come tremava, ora, il nostro abete! Che sarebbe accaduto? I domestici, ed anche le signorine di casa, incominciarono ad ornarlo. Ad un ramo appesero tante piccole reti intagliate nella carta colorata, ed ogni rete era piena di dolci; noci e mele dorate pendevano qua e là, che parevano nate sull’albero; e più di cento candeline, bianche, rosse e verdi, erano attaccate ai rami. Bambole, che sembravan vive - l’abete non ne aveva mai vedute, di simili, prima d’allora, - si dondolavano tra mezzo al fogliame; e su in alto, sulla vetta dell’albero, era inchiodata una stella di similoro. Insomma, una bellezza, come non se ne vedono.
"Questa sera," - dicevan tutti: "Questa sera ha da esser bello, tutto illuminato!"
"Ah!" - pensava l’albero: "Mi par mill’anni che venga sera, e che i lumicini sien tutti accesi! Quando sarà? Son curioso di sapere se gli alberi verranno dal bosco per vedermi! E i passeri? Chi sa se voleranno contro ai vetri delle finestre? Chi sa come crescerò, qui, tutto adorno così, estate e inverno!"
Sì, l’aveva per l’appunto inzeccata! Ma, a forza di allungare la vetta e di struggersi dal desiderio, s’era buscato un fortissimo mal di tronco; ed il mal di tronco è cattivo per gli alberi, come il mal di capo per gli uomini.
Finalmente le candeline furono accese. Che luccichìo! Che bellezza! L’albero tremava tanto, per tutti i rami, che una delle candele appiccò il fuoco ad un ramoscello verde, il quale n’ebbe una buona sbucciatura.
"Per amor di Dio!" - gridarono le signorine, e si precipitarono a spegnere il fuoco.
Ora l’albero non osava più nemmeno tremare. Ah, che spavento! Stava fermo fermo per non dar fuoco a qualcuno de’ suoi bei gingilli... E poi, tutti quei lumi lo stordivano. In quella le porte del salotto furono spalancate, ed una frotta di bimbi irruppe correndo, come se volessero rovesciare l’albero ed ogni cosa: i grandi li seguirono, con più calma. I piccini rimasero muti, a bocca aperta... oh, ma per un minuto soltanto: poi, principiarono a fare un chiasso così indiavolato, che la stanza ne rimbombava; e si misero a ballare rumorosamente intorno all’albero, e tutti i regali furono colti dai rami, uno dopo l’altro.
"Che fanno?" - pensava l’albero: "Ed ora, che cosa accadrà?"
Le candele andavano consumandosi, e quando erano tutte bruciate, sino al ramo, si spegnevano. Dopo che furono spente, fu permesso ai bambini di spogliare l’albero. Ah, ci si avventarono sopra con una furia, che tutti i rami scricchiolarono. Se la vetta non fosse stata assicurata al soffitto per mezzo della stellina di similoro, sarebbe certo caduto a terra.
I bambini ballavano per la stanza con i bei balocchi nuovi. Nessuno guardava più l’albero, all’infuori della vecchia bambinaia, che gli si accostò e spiò tra i rami; ma soltanto per vedere se mai un fico od una mela vi fosse rimasta dimenticata.
"Una novella! una novella!" - gridarono i bambini, e strascinavano verso l’albero un piccolo signore grasso; ed egli vi si sedette sotto: "Così saremo in un bel bosco verde," - disse; "e l’albero avrà la fortuna di sentire la novella. Ma non ve ne posso raccontare che una sola. Volete quella di Ivede-Avede, oppure quella di Zucchettino-Durettino, che cadde giù dallo scalino, ma poi tornò su, e fu rimesso in onore e sposò la Principessa?"
"Ivede-Avede!" - gridarono alcuni. "Zucchettino-Durettino!" - urlarono gli altri; e ci furono strilli e ci furono anche pianti. L’abete solo rimaneva zitto zitto e pensava: "O io? Che non ci abbia ad entrare?" Ma egli aveva avuto la sua parte nei divertimenti della serata, ed aveva dato, oramai, quello che da lui si voleva.
E il signore grasso raccontò di Zucchettino, che era caduto giù dallo scalino, ma poi era salito ai più alti onori ed aveva sposato la Principessa. E i bambini batterono le mani e gridarono: "Un’altra! un’altra! Raccontane un’altra!" perché ora volevano la novella di Ivede-Avede; ma dovettero accontentarsi di quella di Zucchettino. L’abete se ne stava zitto zitto, tutto pensieroso: mai gli uccelli del bosco avevano raccontato una storia simile. "Zucchettino era caduto, e pure era tornato in onore, ed aveva sposato la Principessa! Sì, così accade nel mondo!" - pensava l’abete, e credeva che fosse tutto vero verissimo: quegli che aveva raccontato la storia era un signore così per bene!...
"Dopo tutto, chi può dire mai nulla? Forse che anch’io cadrò, e poi sposerò una Principessa!" Ed in tanto si rallegrava tutto al pensiero d’essere adornato di nuovo, la sera dopo, con tanti lumicini e tanti balocchi, e frutta e lustrini: "Domani non tremerò mica più!" - pensava: "Sarò, in vece, tutto felice del mio splendore. Domani, sentirò di nuovo la storia di Zucchettino-Durettino, e forse, chi sa? imparerò anche quell’altra, di Ivede-Avede..."
E l’albero rimase fermo tutta la notte, a pensare.
La mattina entrarono i domestici e la cameriera.
"Ecco che ora ricomincia il mio splendore!" - pensò l’albero. Ma, in vece, fu portato fuori del salotto, e su per la scala, sin nel solaio, in un angolo buio, dove nemmeno arrivava un raggio di sole.
"Che significa questa faccenda?" - pensò l’albero: "Che vogliono che faccia qui? Ed ora, che cosa accadrà?"
E si appoggiò al muro, e stette lì a pensare, a pensare. E tempo n’ebbe sin troppo, perch* passarono i giorni e le notti, e mai che venisse alcuno; e quando finalmente uno capitò, non fu se non per deporre in un angolo certe grandi casse. Così l’albero rimaneva ora del tutto nascosto: probabilmente, lo avevano dimenticato.
"Fuori è inverno, ora" - pensava l’albero: "la terra è dura e coperta di neve, e non potrebbero piantarmi; sarà per questo che mi tengono qui al riparo sin che non torni la primavera. Quanti riguardi! Che buona gente! Ah, se non fosse questo buio e questa terribile solitudine!... Mai che si veda nemmeno un leprottino! Era bello, però, il bosco, quando c’era la neve alta, e la lepre passava correndo; sì, anche quando mi passava sopra d’un salto... Allora, mi faceva arrabbiare... Che malinconia in questa solitudine!"
"Piip, piip!" - disse a un tratto un topolino, e fece qualche passo avanti; e poi ne venne subito un altro, piccolino piccolino. Fiutarono l’abete, e si ficcarono tra mezzo ai rami.
"Fa tanto freddo..." - dissero i due topolini: "Se non fosse freddo, si starebbe abbastanza comodi quassù; non le pare, vecchio abete?"
"Non son punto vecchio," - disse l’abete: "Ce ne sono molti e molti più vecchi di me."
"Di dove viene?" - domandarono i topolini "E che nuove porta?" (Erano terribilmente curiosi.) "Ci racconti, la prego, del più bel paese del mondo. C’è stato lei? È stato nella dispensa, dove ci sono i formaggi sopra gli scaffali, e i prosciutti pendono dalla travatura, dove si può ballare sui pacchi di candele, dove si va dentro magri e si esce grassi grassi?"
"Non conosco questo paese;" - rispose l’abete: "Ma conosco il bosco, dove il sole splende e gli uccelli cantano."
E allora raccontò del tempo della sua giovinezza.
I topolini, che non avevano mai udito nulla di simile, stavano attenti; poi dissero: "Quante cose ha vedute lei, signor abete, e come dev’essere stato felice!"
"Io?" - esclamò l’abete, e ripensò a tutto quello che aveva raccontato: "Sì, davvero che quelli erano tempi felici!" Ma poi raccontò della sera di Natale, quand’era tutto carico di dolci e di candeline.
"Oh!" - disse il topo più piccino: "Come dev’essere stato felice lei, nonno abete!"
"Ma non sono nonno, non sono vecchio io!" - disse l’abete: "Sono uscito dal bosco appena quest’inverno. Sono nel fiore dell’età; gli è soltanto che sono cresciuto un po’ in fretta."
"Che magnifiche novelle sa raccontare lei!" - disse il topolino.
E la notte dopo, vennero con altri quattro topolini a sentire quello che l’albero sapeva raccontare così bene; e più raccontava, e più chiaro gli si riaffacciava il ricordo di tutto, e pensava: "Quelli erano tempi lieti! Ma possono tornare. Anche Zucchettino-Durettino cadde dallo scalino, ma poi sposò la Principessina." E allora l’abete ripensò ad una graziosa betulla, che cresceva nella foresta; per l’abete, quell’alberella era una vera Principessa.
"Chi è Zucchettino-Durettino?" - domandò il topo più piccolo.
L’abete gliene raccontò tutta la storia. La ricordava parola per parola; e i topolini, dalla gioia, per poco non gli saltarono sino in vetta. La notte dopo, vennero addirittura in frotta; e la domenica comparvero persino due ratti; ma questi dissero che la storia non era bella, e ai topolini ciò rincrebbe, perché ora non piaceva più tanto nemmeno a loro.
"Non ne sa altre, novelle?" - domandarono i ratti.
"Non so che questa;" - rispose l’albero: "La udii nella più bella serata della mia vita: non sapevo, allora, quanto fossi felice."
"È una storia molto meschina. Non ne sa una di prosciutti e di candele di sego? non sa storielle di dispensa?"
"No," - disse l’albero.
"E allora, servi devoti!" - dissero i ratti; e tornarono alle loro famiglie. Anche i topolini alla fine se ne andarono; e l’abete sospirò, e disse:
"Era bello, però, quando mi stavano tutti attorno, quei cari topolini così allegri, ed ascoltavano i miei racconti. Ora, è finita anche questa. Ma mi ricorderò di essere contento quando mi levano di qui".
Quando lo levarono? Mah! Fu una mattina che la gente di casa venne su a frugare per tutto il solaio: le grandi casse furono scostate, e l’albero fu scovato fuori: veramente, lo buttarono a terra con certo mal garbo; ma poi un domestico lo strascinò subito sulla scala, alla luce del giorno.
"Ah! la vita ricomincia!" - pensò l’abete.
Sentì la prima aria fresca, i primi raggi di sole, e si trovò fuori, in un cortile. Tutto ciò era accaduto così rapidamente, che l’albero aveva dimenticato di guardare a se stesso: c’era tanto da guardare intorno a lui!... Il cortile confinava con un giardino; e nel giardino, tutto era in fiore: le rose pendevano fresche e profumate al disopra del piccolo steccato; i gigli erano in piena fioritura, e le rondini gridavano "Videvit! Videvit! Viene mio marito-marit!" Ma non intendevano già con questo di parlare dell’abete.
"Ora sì, che vivrò!" - disse l’abete tutto allegro, e distese un po’ più le braccia... Ma, ahimè! Erano tutte secche e gialle; ed egli si vide buttato là, in un angolo, tra le ortiche e le male erbacce. Sulla vetta aveva ancora la stella di similoro, che scintillava al sole.
Nel cortile giocavano due di quegli allegri fanciulli che avevano ballato intorno all’albero la sera di Natale, e lo avevano tanto ammirato. Il più piccino corse a strappargli la stellina dorata.
"Guarda che cosa c’è attaccato a quel brutto alberaccio!" - disse il bambino; e calpestò le rame, che scricchiolarono sotto alle sue scarpette.
L’albero guardò a tutti i fiori lussureggianti, a tutti gli splendori del giardino, e poi guardò a se stesso, e gli dolse di non essere rimasto nell’angolo buio del solaio: ripensò alla sua fresca giovinezza nel bosco; alla lieta notte di Natale; ai topolini, che avevano ascoltato con tanto piacere la novella di Zucchettino.
"È finita! è finita!" - disse il vecchio albero: "Almeno avessi goduto quando potevo! È finita, finita, finita!"
Venne un domestico, segò l’albero in pezzi, e ne fece una fascina. La fascina mandò una bella fiamma sotto la caldaia che bolliva, e sospirò profondamente; ed ogni sospiro era come un lieve scoppiettìo. I bambini, che giocavano lì attorno, corsero a mettersi dinanzi al fuoco; e guardavano, e facevano: "Puff Puff!" Ma ad ognuno di quegli scoppiettii, che era un profondo sospiro, l’albero pensava ad una bella giornata d’estate nel bosco, o ad una notte d’inverno, quando le stelle scintillavano sopra gli abeti; pensava alla sera di Natale ed alla novella di Zucchettino, l’unica novella che avesse mai sentita, l’unica che avesse mai saputo raccontare... E finalmente, l’abete fu tutto finito di bruciare.
Poco dopo i bambini giocavano nel giardino, ed il più piccolo aveva appuntata sul petto una stella dorata, proprio quella che l’abete aveva portata nella più bella serata della sua vita. Era finita, ora: finita la vita dell’albero, e finita anche la novella: finita, finita, finita, come accade di tutte le novelle.
Hans Christian Andersen nacque nel 1805 a Odense, in Danimarca, da famiglia povera e al margine. Odense era ancora poco più che un villaggio agricolo immerso nelle superstizioni e nelle tradizioni, lontanissimo dalla società moderna che Hans troverà a Copenaghen nel 1819, dove si trasferirà per cercar fortuna a soli quattordici anni, nella segreta speranza di diventare attore. Ritenuto troppo magro per il teatro, Hans si impiegò come operaio e garzone. Dopo una brevissima carriera come soprano, Andersen venne ospitato e istruito dal direttore del Teatro Reale, avendo l'occasione di entrare in contatto con le classi alte e addirittura con il re di Danimarca, il quale, presolo in simpatia, lo mantenne agli studi. In seguito agli anni di difficoltosa formazione, dovuti alla sua dislessia e alla frammentarietà dell'educazione ricevuta nell'infanzia, Andersen riuscì a entrare nel 1828 nella facoltà di Filosofia dell'Università di Copenaghen. Tra il 1854 e il 1879, Andersen pubblicò poesie, racconti, romanzi, opere teatrali, vaudevilles e fiabe per un totale di trentatré volumi di lavori.
I romanzi O.T. e Soltanto violinista ricevettero un buon riscontro presso il pubblico, tanto che nel 1848 venne riconosciuto all'autore un vitalizio che gli consentì di non dover più scrivere per necessità economiche. Dal resoconto del viaggio in Germania, Italia, Malta, Grecia, Turchia, nasce il Bazar di un poeta.
Andersen morì nel 1975 a Copenaghen. Sembra che, prima di morire, avesse chiesto alla padrona di casa di tagliargli un'arteria e di far incidere sulla sua lapide "Non sono morto davvero".
Tra le più famose fiabe di Andersen ricordiamo La principessa sul pisello, Pollicina, La sirenetta, I vestiti nuovi dell'imperatore, Il soldatino di stagno, Il brutto anatroccolo, La regina delle nevi, La piccola fiammiferaia.
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