1 novembre 2011

La vetrina degli incipit - Ottobre 2011

L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine? Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...






***

«Sedette su una panchina, vicino alla statua, e rimase senza far niente, abbandonato ai suoi pensieri. «Come una barca alla deriva su un gran lago apparentemente tranquillo ma agitato da profonde correnti», pensò Bruno, quando, dopo la morte di Alessandra, Martino glii raccontò, in modo confuso e frammentario, alcuni episodi legati a quella relazione.»
Sopra eroi e tombe, di Ernesto Sabato - Lorem Ipsum

«Nessun organismo vivente può mantenersi a lungo sano di mente in condizioni di assoluta realtà: perfino le allodole e le cavallette sognano, a detta di alcuni. Hill House, che sana non era, si ergeva sola contro le sue colline, chiusa intorno al buio; si ergeva così da ottant'anni e avrebbe potuto continuare per altri ottanta. Dentro, i muri salivano dritti, i mattoni si univano con precisione, i pavimenti erano solidi, e le porte diligentemente chiuse; il silenzio si stendeva uniforme contro il legno e la pietra di Hill House, e qualunque cosa si muovesse lì dentro, si muoveva sola.»
L'incubo di Hill House, di Shirley Jackson - Morwen

«Era un letto d'ospedale, questo almeno sembrava certo, anche se la certezza andava e veniva. Era stretto e duro e lungo i lati, a impedire la fuga, c'erano luccicanti sponde metalliche, dritte come sentinelle. Le lenzuola erano semplici e molto bianche. Sterilizzate. La stanza era buia, ma la luce del sole cercava di infiltrarsi dai bordi delle tende che oscuravano la finestra.
Chiuse di nuovo gli occhi; perfino quell'azione era dolorosa. Poi li riaprì e per un lungo, silenzioso minuto riuscì a tenere le palpebre separate e a mettere a fuoco il suo piccolo mondo nebbioso. Era supino, immobilizzato dalle lenzuola ben rincalzate. A sinistra notò un tubicino che scendeva fino alla mano, per poi scomparire da qualche parte dietro di lui. Sentì una voce distante, fuori nel corridoio. Poi fece l'errore di cercare di muoversi, solo un piccolo aggiustamento della testa, ma non funzionò. Lampi roventi di dolore si scaricarono nel cranio e nel collo. Gemette a voce alta.
«Rick. Sei sveglio?»»
Il professionista, di John Grisham - Daniele

«Cominciò con un numero sbagliato, tre squilli di telefono nel cuore della notte e la voce all'apparecchio che chiedeva di qualcuno che non era lui. Molto tempo dopo, quando fu in grado di pensare a ciò che gli era accaduto, avrebbe concluso che nulla era reale tranne il caso. Ma questo fu molto tempo dopo. All'inizio, non c'erano che il fatto e le sue conseguenze. La questione non è se si sarebbero potuti sviluppare altrimenti o se invece tutto fosse già stabilito a partire dalla prima parola detta dallo sconosciuto. La questione è la storia in sé: che abbia significato o meno, non spetta alla storia spiegarlo.»
Trilogia di New York, di Paul Auster - Tancredi

«Davanti al sipario

Il Regista che siede sul palcoscenico davanti al sipario a contemplare la Fiera, si sente pervadere dal sentimento di profonda malinconia che gli ispira quel luogo brulicante di folla. Non si fa che mangiare e bere, amoreggiare e piantarsi, ridere e piangere; non si fa che fumare, imbrogliare il prossimo, altercare, ballare e strimpellare. Ci sono smargiassi che si aprono un varco a spintoni, bellimbusti che fanno l'occhio dolce alle donne, ladruncoli pronti a svuotar le tasche, poliziotti all'erta, imbonitori (altri imbonitori, che il diavolo se li porti!) che strepitano davanti ai loro baracconi, zotici col naso all'aria a guardare i ballerini in vesti multicolori, i poveri acrobati dal viso impiastricciato di belletto, mentre individui dalle dita agili e leggere armeggiano con le loro tasche posteriori. Sì, questa è la "Fiera delle Vanità": non è certo un luogo morale, e nemmeno allegro, ad onta di tanto chiasso. Guardate la faccia degli attori e dei pagliacci quando fanno ritorno tra le quinte: Tom il Tonto che si lava le guance spalmate di trucco prima di sedere a cena dietro il fondale di tela insieme con la moglie e col piccolo Jack Budino. Tra qualche istante si alzerà il sipario, e lui sarà lì a saltare e a sgambettare strillando: «Buongiorno a tutti!»<
Camminando in mezzo a una siffatta compagine umana, una persona incline alla riflessione non si sentirà oppressa, ritengo, dalla propria o dall'altrui ilarità. Una scenetta amena o gentile può saltuariamente commuoverla o divertirla: un grazioso bimbetto che sosti davanti a un banco di pan pepato; una bella ragazza che arrossisce mentre il suo innamorato le parla e le compra un regaluccio. Tov il Tonto, poveraccio che se ne sta laggiù dietro il carro a rosicchiare le sue ossa insieme con la famiglia che sbarca il lunario con le capriole. Ma l'impressione generale tende alla malinconia più che all'allegrezza. Tornati a casa, vi ponete a sedere indugiando a uno stato d'animo pacato, contemplativo, non esente da spirito di carità, e vi dedicate ai vostri libri o ai vostri affari.
Non vedo, al di fuori di questa, altra morale applicabile alla presente storia della Fiera della vanità. C'è chi giudica le fiere affatto immorali, e le evita, come le evitano i suoi domestici e i suoi familiari. Molto probabilmente costoro hanno ragione. Ma le persone che la pensano altrimenti, e sono indolenti benevole o portate al sarcasmo, possono forse compiacersi di trascorrervi una mezz'ora e dare un'occhiata agli spettacoli. Ce ne sono per tutti i gusti; accanite contese, nobili e solenni cavalcate, scene di vita aristocratica, altre di vita decisamente meschina; un certo sentimentalismo e qua e là qualche sprazzo di comicità. Il tutto fruisce di uno scenario acconcio illuminato a giorno dalle candele fornite dallo stesso Autore.
Che altro può aggiungere il Regista? Dare atto della lusinghiera accoglienza che hanno salutato lo spettacolo in tutte le principali città dell'Inghilterra in cui è stato presentato, e dove è stato valutato positivamente dai rappresentanti della pubblica Stampa e del pari dalle persone ragguardevoli per censo e per ceto. È fiero di constatare che le sue marionette hanno incontrato i gusti della miglior società dell'Impero. La vezzosa, piccola marionetta di nome Becky è stata giudicata straordinariamente flessibile nelle giunture e agilissima sotto i fili. A sua volta la bambola Amelia, sebbene abbia avuto una cerchia più esigua di estimatori, è stata scolpita e vestita dall'artista con la massima cura. Dobbin, sebbene goffo nella figura, balla peraltro in modo molto spontaneo e naturale. Qualcuno ha mostrato di apprezzare la Danza dei Bambini. Si prega infine di osservare attentamente il personaggio fastosamente abbigliato del Perfido Nobiluomo, per il quale non si è badato a spese, e che Belzebù si porterà via al termine di questa singolare rappresentazione.
Ciò detto, e non senza un profondo inchino ai suoi sovvenzionatori, il Regista s'inchina e il sipario si alza.

Londra, 28 giugno 1848
»
La fiera delle vanità, di William Makepeace Thackeray - Sakura

«A farli incontrare è un'inezia. un racconto senza titolo, senza firma e a quanto pare incompiuto, che nella fretta dell'arresto le guardie hanno tralasciato di registrare sulla distinta del materiale probatorio. un anno prima, quando il carcere della Lubkjanka ferveva come un alveare, quando di notte tutta Mosca sembrava trattenere il fiato e ogni mattina portava sulla scrivania di Pavel nuovi manoscritti confiscati, difficilmente si sarebbe perso tempo con una scoperta del genere, e men che meno con l'incontro faccia a faccia di cui l'archivista ha il terrore.»
Storia di un archivista, di Travis Holland - Polyfilo

«Ora che ho trovato il modo di volare, in che direzione devo percorrere la notte? Le mie ali non sono bianche e non hanno piume; sono fatte di seta verde che vibra al vento e si piega seguendo i miei movimenti: prima un cerchio, po una linea retta e infine una forma inventata da me. Non mi preoccupa l'oscurità alle mie spalle; e nemmeno il cielo stellato che ho di fronte.»
Matched, di Ally Condie - Valetta

«Il dottor Simeon Pincher sapeva tutto dell’Irlanda. Simeon Pincher era un uomo alto, magro, quasi calvo, tra i venti e i trent’anni, dal colorito giallastro e dai severi occhi neri fatti per il pulpito. Era un erudito: laureato, membro dell’Emmanuel College all’università di Cambridge. Ma, quando gli era stato offerto un incarico presso il Trinity College di Dublino, un istituto di recente fondazione, era accorso con una solerzia tale da lasciare a bocca aperta i suoi nuovi superiori. “Verrò immediatamente” aveva scritto in risposta “per dedicarmi all’opera di Dio.” Dichiarazione che non aveva bisogno di commenti. La sua decisione non era stata dettata soltanto dal fermo zelo di un missionario. Prima ancora del suo arrivo in Irlanda, il dottor Pincher si era attentamente informato sul conto degli abitanti dell’isola. Sapeva, per esempio, che gli irlandesi puri, come erano adesso definiti in Inghilterra gli indigeni dell’Irlanda, erano peggio degli animali e che di loro non ci si poteva fidare: erano cattolici, no? Però, la convinzione che gli irlandesi puri fossero inferiori non fu l’unica che il dottor Pincher portò con sé in Irlanda. Egli riteneva infatti che, dall’inizio dei tempi, Dio li avesse di proposito destinati – assieme ad altri, naturalmente – a bruciare nell’eterno fuoco dell’inferno.»
I ribelli d'Irlanda, di Edward Ruthefurd - Pythia

1 Commenti:

  • 1 novembre 2011 alle ore 15:47

    Mi permetto di segnalare l'incipit di Pulp, di Charles Bukowski :) splendido!

    E.

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