L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Quando il signor Hiram B. Otis, ministro degli Stati Uniti, acquistò Canterville Chase, tutti gli dissero che stava commettendo una gran sciocchezza, in quanto il luogo era senza dubbio infestato dagli spiriti. Persino lo stesso Lord Canterville, che in materia d'onore era un uomo assai scrupoloso, si era sentito in dovere di accennare al fatto, quando giunse il momento di discutere le condizioni di acquisto col signor Otis.
"Neppure noi vi abbiamo più abitato volentieri", disse Lord Canterville, "da quando la duchessa vedova del duca di Bolton, mia prozia, ebbe un attacco di nervi dal quale non riuscì più a rimettersi completamente, per colpa di due mani scheletriche che le si posarono sulle spalle mentre si stava vestendo per il pranzo".»
«Un vento gelido spazzava i viali, torcendo le chiome leggere dei platani. Sotto il ciclo gravido di nubi di pioggia, una ventina di persone si assiepavano intorno alle bare. Le lapidi erano già state incise. Le fosse scavate al mattino. Il sacerdote fece un segno di croce su ciascuna bara. Mormorò alla svelta una preghiera, nel silenzio generale. Non era più tempo di prediche. E nell'omelia della sera precedente, ai funerali, aveva già detto tutto quel che c'era da dire.
«Mirta e Roberto» concluse. «Riposate in pace.» Immobile come una statua, Amalia fissava la bara di sua figlia. Non riusciva a piangere. Non sapeva neanche come facesse a reggersi in piedi. Non mangiava e non dormiva da quattro giorni. Non pensava neppure da quattro giorni. E quasi non parlava, se non per pronunciare i pochi monosillabi di circostanza: sì, no, grazie. Accanto a lei, Piero piangeva. Suo marito riusciva a piangere. Un uomo alto dai capelli grigio ferro, chiuso in un cappotto blu scuro, che piangeva come un bambino. Da giorni. Amalia provava invidia e rabbia nei suoi confronti. Perché lei lo aveva capito subito che le cose non sarebbero potute andare diversamente.»
«Chiamatemi Ismaele. Alcuni anni fa - non è importante quanti di preciso -, avendo poco denaro o punto nel mio borsello e nessun interesse particolare che mi tenesse vincolato alla terraferma, pensai di imbarcarmi e fare un viaggio per un po' per vedere la parte acquea del globo terrestre. è un modo che ho per respingere la malinconia e tenere in regola la circolazione.Ogni volta che sento un senso di oppressione crescere intorno alla bocca; ogni volta che un Novembre umido e piovigginoso viene ad albergare nella mia anima; ogni volta che mi ritrovo involontariamente fermo davanti a rivendite di bare e a seguire il corteo di ogni funerale che incontro; e in special modo quando l'ipocondria prende a tal punto il sopravvento sulle mie facoltà, che mi servono tutti i miei principi morali per trattenermi dal correre deliberatamente per le strade e far volare con metodo tutti i cappelli dei passanti, ecco, allora io ritengo che sia giunto il momento di andar per mare prima che posso.»
«Ora il sonno lo abbandonava più spesso, non una o due bensì quattro, cinque volte la settimana. Che cosa faceva in quei momenti? Non passeggiava a lungo dentro gli arabeschi dell'alba. Non aveva un amico tanto intimo da sopportare il momento di una telefonata. Cosa dirgli? Era una questione di silenzi, non di parole.»
«Fine. Pura liberazione dello spirito. Non c'è mai stata fine più dolce. Come ambrosia soave nelle vene. Eterna catarsi del peccato originale. Sospiro atarassico di un mattino primaverile. Sono qui e sono ora. Mi faccio cullare incessantemente dal tepore dell'ignoto dimenticando ciò che non ho mai vissuto. In fondo cos'è la vita? Solo grande buio bianco. Chiudo gli occhi e finalmente vedo. Sono ovunque. Tutto è vivo intorno a me. Corro veloce, lontano dalla paura di rimanere ciò che sono. Discepolo delle stelle, viaggio nella mente di chi non è ancora nato. Mi lascio il futuro alle spalle. Sono pronto. La fine è vicina. E ogni fine è sempre un nuovo inizio.»
«Ancora pochi minuti e si sarebbe realizzato il suo sogno più ambito: stava per entrare nel sospirato mondo della psichiatria scientifica e intellettuale.
Per quella estenuante ricerca aveva rinunciato alle ferie, al tempo libero e fatto l'impossibile: dalla persuasione degli sponsor, cosa più complicata di un intervento a cuore aperto, agli scudi di protezione dagli asfissianti monologhi di Prevost col suo umore costantemente nero; il professore, perennemente sull'orlo di una crisi di nervi, non perdeva occasione per manifestare il proprio pessimismo, il che non era incoraggiante, ma l'esimio doveva pur salvare la faccia da eventuali fallimenti.
Per non parlare delle continue bordate di Luc che le era rimasto attaccato al collo per tutto il tempo come una sanguisuga: col pretesto di badare a quegli aspetti che, altrimenti, le sarebbero sfuggiti, il sollecito collega aveva tentato più volte di soffiarle il ruolo di leader.
Eppure, nonostante questo immane lavoro, nei prossimi dieci minuti di presentazione avrebbe potuto giocarsi il nome, carriera e denaro, e questo l'annichiliva, la terrorizzava come se, al posto del palazzo dei congressi dove stava per presentare il primo importante studio scientifico della sua vita, fosse inchiodata al carretto che la conduceva al patibolo.
A dirla tutta, Yonne era nel pallone.»
«Era alto un metro e cinquantaquattro con le scarpe da passeggio, sembrava un orso con quella faccia rotonda dalla mascella prominente, petto e spalle di proporzioni esorbitanti, vita quasi altrettanto massiccia, ma scavato alle anche, e privo di un didietro adeguato su cui sedersi (anche se non era certo noto per stare seduto), e debole di caviglia, e con due piedi minuscoli da ragazza, un uomo a forma di lampadina. Aveva la carnagione verdastra, i gomiti e l'incavo delle ginocchia segnati dalla psoriasi, le guance rasate senz'ombra di cicatrici, fedele fino allo stremo alle fatiche quotidiane, senza rancore verso il mondo crudele, e grato, perfino...»
«Sapevo cosa stava pensando mia figlia mentre mi guardava preparare la vaglia con i suoi occhi scuri penetranti e un po’ impauriti. Erano come quelli di sua madre, mentre le labbra sottili le aveva prese da me, anche se con il passare degli anni, facendosi più rotonda, aveva finito per somigliare sempre di più a lei. Quando la paragonavo alle foto di Raquel a cinquant’anni, mi rendevo conto che erano proprio due gocce d’acqua. Mia figlia pensava che fossi un vecchio pazzo e senza speranza, ossessionato da un passato che ormai non importava più a nessuno ma del quale non riuscivo a dimenticare neppure un giorno, un dettaglio, una faccia o un nome, anche se si trattava di un nome tedesco lungo e difficile, mentre spesso dovevo sforzarmi per ricordare il titolo di un film visto da poco.»
«Soltanto i giovani hanno momenti del genere. Non dico i più giovani. No. Quando si è molto giovani, a dirla esatta, non vi sono momenti. È il privilegio della prima gioventù vivere d’anticipo sul tempo a venire, in un flusso ininterrotto di belle speranze che non conosce soste o attimi di riflessione.
Ci si chiude alle spalle il cancelletto dell’infanzia, e si entra in un giardino di incanti. Persino la penombra qui brilla di promesse. A ogni svolta il sentiero ha le sue seduzioni. E non perché sia questo un paese inesplorato. Lo sappiamo bene che l’umanità tutta è passata di lì. È piuttosto l’incanto dell’universale esperienza, da cui ci aspettiamo emozioni non ordinarie o personali, qualcosa che sia solo nostro.
Si va avanti ritrovando i solchi lasciati dai nostri predecessori, eccitati, divertiti, facendo tutt’un fascio di buona e cattiva sorte – zuccherini e batoste, si può dire – il pittoresco lascito assegnato a tutti, che tante cose riserba a chi ne avrà i meriti, o forse a chi avrà fortuna. Già. Si va avanti. E anche il tempo va, fino a quando innanzi a noi si profila una linea d’ombra, ad avvertirci che bisogna dire addio anche al paese della gioventù.»
«Sick Boy era coperto di sudore; tremava tutto. Io me ne stavo lì schiaffato davanti alla tele, cercando di non dargli retta, a quel coglione. Mi buttava giù. Provai a concentrarmi sulla cassetta di Jean-Claude Van Damme.
Come in tutti i film del genere, l'inizio era drammatico: era quasi obbligatorio. Poi, nel pezzo che veniva dopo c'era un grande sforzo per creare atmosfera, facendo tra l'altro entrare in scena il cattivo, e per far stare in piedi una trama proprio scacata. Comunque, Jean-Claude sembrava pronto a menare le mani da un momento all'altro.»
«Eccolo, il ragazzino. È pallido e magro, indossa una camicia di lino lisa e sbrindellata. Attizza il fuoco nel retrocucina. Fuori si stendono campi arati, scuri e cosparsi di chiazze di neve, e poi boschi più scuri che celano ancora i pochi lupi rimasti. I suoi sono noti come taglialegna e venditori d'acqua, ma in realtà suo padre era maestro di scuola. Sdraiato, ubriaco, cita versi di poeti i cui nomi sono ormai andati perduti. Il ragazzo si rannicchia accanto al fuoco e lo guarda.»
«Mae Mobley was born on a early Sunday morning August 1960. A church baby we like to call it. taking care of white babies, that's what I do, along with all the cooking and cleaning. i done raised seventeen kids in my lifetime. I know how to get them babies to sleep, stop crying, and go in the toilet bowl before they mamas get out a bed in the morning.
But I ain't never seen a baby yell like Mae Mobley Leefolt.»
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