Recensione
Sono passati esattamente cinquant'anni dall'uscita, nel 1961, di Ferito a morte, che valse all'autore, allora trentanovenne e al suo secondo romanzo, il premio Strega quello stesso anno. L'edizione della collana "Oscar classici moderni" è accompagnata da un'appendice critica veramente impressionante (prefazione anonima con bibliografia, postfazione di Geno Pamploni e antologia di giudizi). Difficile, quindi, misurarsi con questo libro, già canonizzato tra i classici. Può aiutarci forse solo il pretesto del cinquantenario dalla pubblicazione. E partirei proprio da questo punto per fare un piccolo e utile raffronto con la contemporaneità. Se potessimo soppesare questo libro con gli ultimi due premi Strega, Nesi e Scarpa, il piatto penderebbe senza dubbio alcuno verso La Capria. Se poi consideriamo che Ferito a morte è ambientato a Napoli, tanto quanto Gomorra di Saviano, possiamo, volendo, misurare con mano il burrone nel quale sono precipitate le "belle lettere" (e non solo quelle) nel nostro paese. In tutta l'opera di La Capria (che confesso di conoscere poco) probabilmente Ferito a morte rappresenta un episodio unico: un libro ispirato, una felice parentesi artistico-creativa (specialmente la prima parte), una vetta che l'autore non è mai più riuscito a raggiungere. Forse un capolavoro nato per caso, dopo un breve apprendistato (l'autore era al suo secondo romanzo). Difficile pensare a Ferito a morte come un libro premeditato e costruito "a tavolino". Lo stile, l'andamento, la scelta di lasciare andare la penna liberamente tra ricordi sfuocati, ma vividi, nella memoria di Massimo De Luca, protagonista del romanzo e alter-ego dell'autore, fanno pensare piuttosto a una stesura di getto, rabdomantica, incontrollata, della quale l'autore, alla fine, sia rimasto egli stesso sorpreso.
La scelta di non seguire una linea cronologica precisa spiazza e confonde il lettore, che deve cercare di ricomporre i vari frammenti. Ma se anche il lettore si lascia trascinare dalla corrente del flusso di coscienza, il problema della coerenza cronologica può essere superato. I "fatti" descritti dall'autore, infatti, non contano assolutamente niente: una banale delusione d'amore, bravate di un gruppo di ragazzi al mare, chiacchiere al circolo, un pranzo familiare. Tutto trascorre davanti agli occhi del lettore-spettatore, che forse si aspetterebbe qualcosa di definitivo, un segno lasciato dal tempo. Invece il senso di questo romanzo è racchiuso proprio in questo trascorrere inutile e leggermente tedioso delle giornate. Il protagonista trova le forze per lasciare questa dorata gabbia, ma non può fare a meno di avvertire il richiamo del suo nido, al quale deve fare ritorno di tanto in tanto. Il rimpianto per ciò che non è stato, quella che l'autore definisce già nelle prime pagine "La Grande Occasione Mancata" (le maiuscole sono dell'autore!), è il fantasma che si presenta agli occhi del suo alter-ego Massimo tutte le volte che, tornato a Napoli, si troverà in qualche modo a fare i conti col suo passato.
Da un punto di vista artistico, le vette raggiunte nella prima parte, con le descrizioni delle scene di pesca, sono vertiginose. Nelle scene ambientate nel circolo e poi nella descrizione del pranzo domenicale, l'autore descrive con straordinaria maestria alcuni ambienti sociali del capoluogo partenopeo.
In perfetto equilibrio tra realismo e sperimentalismo, Ferito a morte, a distanza di cinquant'anni, rappresenta forse uno dei migliori romanzi italiani del dopoguerra (sicuramente svetta tra quelli pubblicati negli ultimi cinquant'anni). E dovrebbe essere letto con attenzione da parte di tutti coloro che vorrebbero (o hanno intenzione di farlo) scrivere e pubblicare.
0 Commenti a “Ferito a morte - Raffaele La Capria”
Posta un commento