L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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««Ecco, questo è ciò che posso offrirle. Come vede la casa è grande e per come è messa, è possibile viverci in due per anni senza incontrarsi mai. Le stanze del secondo piano sono a sua disposizione. In pratica, a parte la cucina che, lo ammetto, è proprio scomoda messa là sotto, è come se le affittassi un intero appartamento. Se capita, potrà ospitare per una notte o due anche i suoi parenti e i suoi amici. Il giardino può usarlo quando vuole, naturalmente.» Nunzio tirò il fiato.
«Non ho parenti. E i miei amici… Non capiterà ecco tutto.»
«Come vuole. Allora che ne dice? Sa, non le nascondo che il suo affitto mi farebbe comodo. Non è stata una gran fortuna ereditare questa casa.»
«Perché dice così? È bella, ha personalità, ha fascino. Vorrebbe abitare in uno di quegli orrendi bilocali con i muri di carta velina e la cucina nel salotto?»
Nunzio ci pensò qualche secondo. Un bilocale con le pareti di carta velina in quel momenti gli pareva il massimo della felicità alla quale un uomo potesse aspirare.»
«L'avvocato Utterson era un uomo dall'aspetto rude, non s'illuminava mai di un sorriso; freddo, misurato e imbarazzato nel parlare, riservato nell'esprimere i propri sentimenti; era un uomo magro, lungo, polveroso e triste, eppure in un certo senso amabile. Nelle riunioni di amici, quando il vino era di suo gusto, gli traspariva negli occhi qualcosa di veramente umano; qualcosa che non trovava mai modo di risultare nelle sue parole, e che si manifestava, oltre che in quella silenziosa espressione della faccia dopo una cena, più spesso ancora e più vivamente nelle azioni della sua vita. L'avvocato era severo nei riguardi di se stesso; quando si trovava solo, beveva gin, per mortificare l'inclinazione verso i buoni vini; e, sebbene il teatro lo attirasse, non aveva mai varcato la soglia di un teatro in vent'anni.»
«Eravamo i Mulvaney, vi ricordate di noi?
Forse pensavate che la nostra famiglia fosse più grande. Ho incontrato spesso persone convinte che noi Mulvaney fossimo virtualmente un clan, ma in realtà eravamo solo sei: mio padre, che era Michael John Mulvaney Sr., mia madre Corinne, i miei fratelli Mike Jr. e Patrick e mia sorella Marianne, e io, Judd.
Dall'estate del 1955 alla primavera del 1980, quando mio padre e mia madre furono costretti a vendere la proprietà, i Mulvaney sono stati alla High Point Farm, sulla High Point Road, undici chilometri a nordest della cittadina di Mt. Ephraim nella parte settentrionale dello stato di New York, nella valle di Chautauqua, circa centodieci chilometri a sud del lago Ontario.
High Point Farm era una proprietà molto nota della valle, destinata con il tempo a essere definita un luogo di interesse storico, e "Mulvaney" era un cognome molto conosciuto.
Per parecchio tempo ci avete invidiato, poi ci avete compianto.
Per parecchio tempo ci avete ammirato, poi avete pensato Bene! È quello che si meritano.»
«Nella primavera del suo ventiduesimo anno, Sumire si innamorò per la prima volta nella vita. Fu un amore travolgente come un tornado che avanza inarrestabilmente su una grande pianura. Spazzò via ogni cosa, trascinando in un vortice, lacerando e facendo a pezzi tutto ciò che trovò sulla sua strada, e dietro non lasciò nulla. Poi, senza aver perso nemmeno un grado della sua forza, attraversò il Pacifico, distrusse senza pietà Angkor Wat e incendiò una foresta indiana con le sue sfortunate tigri. In Persia si trasformò in una tempesta del deserto e seppellì sotto la sabbia un’esotica città-fortezza. Fu un amore straordinario, epocale. La persona di cui Sumire si era innamorata aveva diciassette anni più di lei ed era sposata. E come se non bastasse, era una donna. E’ da qui che tutto cominciò, ed è qui che tutto (o quasi) finì.»
«Recuperato dalla cassiera il resto dei suoi cinque franchi, Georges Duroy uscì dal ristorante.
Fanatico del bel portamento, un po' per natura e un po' per vezzo di ex sottuficiale, allargò il petto, arricciò i baffi con gesto marziale e insieme quotidiano, e gettò sugli avventori che indugiavano un'occhiata rapida e circolare, una di quelle occhiate da bel ragazzo che si allargano a cerchio come reti buttate a mare.
Le donne lo avevano seguito con un movimento della testa, tre ragazzette operaie, un'attempata insegnante di musica, spettinata, sciatta, col solito cappelluccio polveroso e l'eterno vestito sbilenco, e due signore borghesi coi loro mariti, clienti di quella gargotta a prezzo fisso.
Fuori, sul marciapiede, rimase per un attimo immobile, interrogandosi sul da farsi. Era il 28 giugno, e in tasca gli restavano esattamente tre franchi e quaranta per arrivare alla fine del mese. Il che significava due cene senza pranzare, o due pranzi senza cenare, come voleva.»
«L'agente Yu Guangming, della polizia di Shanghai, ancora barcollava sotto il peso del colpo. Non se n'era accorto subito, ma adesso che l'impatto cominciava a fare effetto si sentiva stritolato. Dopo mesi e mesi di continue riunioni e infiniti negoziati, aveva perso l'appartamento al Nuovo Villaggio di Tianling. Era un alloggio nuovo, e gliel'avevano assegnato in via ufficiale; il conferimento era stato perfino annunciato alla centrale, tra fragorosi applausi.»
«Ovunque guardi, vedo segni di lotta. La posta è sparsa dappertutto sui pavimento della cucina; gli sgabelli sono ribaltati. II telefono è stato sbalzato dalla base, la scatola delle pile penzola da un ombelico di fili metallici. C'è una sola, debole impronta sulla soglia del soggiorno, puntata verso il corpo senza vita di mio figlio, Jacob.
È adagiato in modo scomposto come una stella marina davanti al caminetto. Ha le terapie e le mani coperte di sangue. Per un momento, non riesco a muovermi, non riesco a respirare.
D'improvviso, lui si mette seduto. «Mamma» dice Jacob, «non provi nemmeno.»
Non è reale, rammento a me stessa, e lo osservo mentre si distende di nuovo nella stessa posizione: sulla schiena, con le gambe raccolte e piegate a sinistra.
«Ehm, c'è stata una rissa» azzardo.
La bocca di Jacob si muove appena. «E...?»
«Ti hanno colpito alla testa.» Mi metto in ginocchio, come lui mi ha detto di fare cento volte, e mi accorgo che il cofanetto di cartone con dentro tre libri, di solito collocato sulla mensola del camino, ora sbuca fuori da sotto il divano. Lo raccolgo con circospezione e vedo sanguesu un angolo. Con il mignolo, tocco il liquido e poi lo assaggio. « Oh, Jacob, non dirmi che hai di nuovo usato tutto lo sciroppo di mais...»
«Mamma! Concentrati!»
Mi lascio cadere sul divano, tenendo il cofanetto di cartone tra le mani. «Sono entrati i ladri, e tu li hai messi in fuga.»»
«PRESS PLAY ON TAPE
Giovedì, 14 agosto 2003
Chiara apre gli occhi e sente di aver finalmente trovato una spiegazione convincente al virus di follia che ha spinto tutte quelle persone ad ammazzarsi negli ultimi giorni. Proprio oggi, una settimana da quando hanno chiuso Ivan dentro una bara.
Alza lo sguardo verso il suo viso riflesso contro il finestrino spray art mentre intreccia attorno alle dita i fili avorio del suo iPod, in loop sulla registrazione audio delle migliori puntate diSuperQuark.
Adesso comincia a chiedersi se i suoi amici siano in pericolo e se questa storia non rischi di sfuggirle di mano. Non temere, sembra suggerirle il ritmo del vagone sulle rotaie. Del resto, la preoccupazione, lei l’ha sempre sostenuto, è un passatempo sterile: gli avvenimenti che definiscono la tua vita, in un modo o nell’altro, finiscono sempre col sorprenderti perché appartengono al buio, come una banda di vandali a un vicolo senza lampioni.»
«Mi chiamano Rep - diminutivo di reptil, cioè rettile - da quando riesco a ricordare. Sono alto un metro e ottantatré e peso ottantuno chili (come i cowboy di Marcial Lafuente Estefanìa), ho gli occhi neri e infossati che paiono due canne di fucile pronte a sparare, la bocca sensuale e una verga di 25 centimetri nei giorni più caldi. Non sono un eiaculatore precoce e non mi puzza il fiato, amo tagliarmi le unghie fino a farle sanguinare, ho tracce di acne in faccia e sul culo, denti forti e un odore personale seducente.»
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