6 giugno 2011

Intervista a Fabio Elia, autore di "Warszawa"

L'autore

Fabio Elia vive a Torino. Consegue la laurea triennale in Scienza della comunicazione e inizia la specialistica in culture moderne comparate a Varsavia, dove per nove mesi fa tutto fuorché studiare: viaggia in Russia e in Ucraina, insegna italiano a persone di ogni età, e vede il precario destino di eccentrico scrittore rovesciato in quello di mediocre studente.
Warszawa, suo debutto letterario, vince il Giovane Holden 2010 nella sezione "Romanzo inedito".




Il libro

Varsavia. Felix contro Felix. Reciproche nemesi in un inseguimento nonsense per tutta Varsavia che non è solo lo sfondo di ciò che accade, ma acquista un ruolo, a pieno titolo, di personaggio del romanzo. Il tutto in una tragicomica avventura che incollerà ogni lettore ad ogni singola parola, dall'inizio alla fine.




L'intervista



Com'è stato concepito il tuo romanzo d'esordio Warszawa?

Nell'aula-studio del dormitorio in cui vivevo a Varsavia, dove stavo trascorrendo un periodo di studio Erasmus. Per due settimane mi sono chiuso lì dentro e ho buttato giù il romanzo. Non so per quale motivo, ignoravo cosa stessi scrivendo.


Dopo quanti mesi del tuo soggiorno a Varsavia lo hai concepito?

L’ho scritto in marzo 2010, quindi dopo 5 mesi circa.


La primavera polacca... bei ricordi... quando esce il primo sole a Varsavia è una festa... Sei d’accordo?

Assolutamente, anche perché ci si può godere una manciata di soli durante l’intero anno. E l’inverno che ho vissuto io è stato gelido da record, fino a -25 gradi.


Hai avuto modo di rivedere la prima stesura oppure la versione pubblicata era quasi uguale a quella buttata giù a Varsavia?

Rivista più volte, insieme al mio editore.


Per curiosità: dove si trovava il tuo dormitorio? Chiedo perché ne ho girati parecchi...

Era il dormitorio Radomska, vicino a Plac Narutowicza. Diciamo abbastanza comodo per raggiungere il centro. Ospitava 200 studenti quell’anno, di cui 130 Erasmus circa. Quest’anno gli Erasmus sono scesi a 30, poiché dopo l’esperienza vissuta con noi hanno deciso di cambiare politica. Per inciso, hanno espulso me e un altro a giugno, per via di "ripetute lamentele da parte di un gran numero di studenti".


Che combinavi?

Bah, un po' di baldoria notturna forse...


Suonavi la chitarra elettrica col distorsore a palla?

Niente chitarra, solo un'ugola possente, e oggetti che volavano di tanto in tanto. Ma era proprio l’atmosfera complessiva a essere su di giri.


Quindi hai un bel ricordo di quell'esperienza, da quello che capisco...

Senza dubbio, soprattutto per le persone incontrate: grandiose.


Prima di Warszawa avevi scritto qualcosa?

Di pubblicato nulla, ma robaccia ne scrivo da sempre, su blog e pezzi di carta.


“Robaccia” di che genere?

Più che altro racconti brevi, specialmente legati ad esperienze personalmente vissute. Esperienze forti di amici storti di brutto. E poi un romanzo ambientato a Fenestrelle, il paese di montagna che ospita il Forte più grande d'Europa, nella provincia di Torino. A Fenestrelle, dove sono andato in villeggiatura per 23 anni, ho vissuto le cose più meravigliose. L’ho inviato a poche case editrici per esordienti che chiedevano il famoso "contributo", e per conseguenza, visto che non è pensabile scendere a un simile compromesso, il romanzo non è mai stato pubblicato. Ma è stato scritto con le viscere.


Quindi questo romanzo ambientato a Fenestrelle è nato prima di Warszawa?

Sì, è nato 4 anni prima di Warszawa e, cosa strana, l'ho terminato proprio nella stessa auletta in cui ho scritto Warszawa. Nel dormitorio Radomska, in gennaio 2010. Lì ho scritto gli ultimi capitoli, mentre fuori nevicava di brutto, di notte, in compagnia di un mio amico tedesco che studiava libri su Napoleone tutte le notti, sbranando noci. We're strange people, mi disse una volta. Tra l’altro è stato lui a ispirarmi uno dei due protagonisti di Warszawa.


Uno dei due Felix?

Già, il polacco; è descritto fisicamente esattamente come questo tedesco: biondo, con un tronco di capelli sparato in aria, alto, incapace di correre normalmente, affetto da eccellenti problemi di dizione, particolarmente macchinoso nell'esprimersi in qualsiasi lingua, ecc.


Invece della tua Torino che mi dici? Che rapporto hai con Torino?

Per 23 anni ho vissuto in provincia coi miei, in un paesino striminzito. Periodo durante il quale non ho amato Torino, francamente. Da novembre 2010 invece, da quando cioè vivo con la mia ragazza in un appartamento nel pieno centro della prima capitale d'Italia, giornalmente penso: Dio santo, quant'è bella!


Allora parlami un po' di più del tuo "paesino striminzito"...

Neanche 10.000 abitanti, covo di tamarri e di sfigati, perfetto per i bambini che amano giocare a pallone e divertirsi all’aria aperta. Voglio dire, sembra una stronzata ma i bambini di Torino hanno 4 metri quadri d’asfalto su cui rincorrersi, mentre io e i miei amici avevamo un prato gigante, un albero secolare nel mezzo e un gran cortile tutto intorno. Come una città nostra. Soltanto nostra. Credo sia il diritto di ogni bambino.


Dove si trova? Come si chiama?

Si chiama Mappano. È una frazione, la “concubina” di mille comuni.


Quanti chilometri da Torino?

Pochi, 3-4. Comodissimo per raggiungere Torino.


Però, da quanto racconti, non era una periferia torinese, ma un paesotto, giusto?

Esatto. La periferia torinese è orribile. Preferisco di gran lunga la puzza di letame, le mucche dietro casa e la festa patronale con portentose serate di liscio.


Ma quando studiavi all'università stavi già a Torino oppure facevi il pendolare?

Pendolare è una parola grossa, in macchina in mezz’ora ero all’università e, oltre a questo, non avevo l’obbligo di frequenza, per cui ci andavo raramente. Ma sì, vivevo a Mappano e “studiavo” a Torino.


Quindi da Mappano a Varsavia, passando saltuariamente a Torino. Questo è più o meno il tuo percorso, giusto?

Direi di sì, idealmente camminando in ogni momento sotto il cielo di Fenestrelle.


Esiste secondo te una differenza tra un autore di una grande metropoli e uno di una piccola cittadina? Tra un narratore "di provincia" e un narratore "di una metropoli"?

Non credo esista alcuna distinzione "meccanica". Dipende da ciò di cui uno vuole scrivere. Forse un autore di provincia avrà un modo di scrivere meno arieggiato e caotico, sarà più metodico ecc. Ma del resto sono solo supposizioni, e in realtà credo che no, non ci siano differenze sostanziali. Le tematiche, certo, ma lo stile no.


Da quello che capisco quindi non ti senti molto legato alle tue origini.

Mi sento legato al cortile di casa mia, dove ho spaccato i culi giocando a calcio. E mi sento legato a Fenestrelle, alle sue montagne: è come se fossi sempre vissuto lì.


Tornando a Varsavia, cosa ti ha colpito di più della capitale della Polonia?

Potrei dirti il grande incrocio di culture, lo splendore della città vecchia, la forza dimostrata nel sopravvivere all’assedio nazista e a ricostruirsi daccapo, ecc. Ma la verità, l'unica grande verità, è che ci si lega alle persone.


Sì, ma allora perché intitolare il tuo romanzo Warszawa? Immagino tu abbia anche in qualche modo avvertito una certa atmosfera di quella città...

L'orgoglio tutto polacco per le cose belle (poche, a voler essere obiettivi) che la sua capitale può sfoggiare; l'inverno micidiale e la città vecchia, così diversa da tutto il resto, così finta, eppure tanto emozionante; e la commistione di Occidente che avanza e angoli di Est che a stento sopravvivono. Grandi centri commerciali e catene come Starbucks e poi la libreria dove nessuno parla inglese e la mensa sudicia dove gli uccellini entrano e ti si posano sul piatto.


Nel tuo romanzo fai una lunga tirata su Guerra e pace. Ma non ho ben capito se ti piace Tolstoj o meno...

Lo venero. Il capitolo su Tolstoj è una semplice provocazione. Perché molti "lettori" (se tali si possono chiamare) non sono a priori capaci di concedere a Fabio Elia lo stesso diritto dato alle parole scritte da Lev Tolstoj. A proposito, questa estate vado in Russia con la mia ragazza, e andremo a Jasnaja Poljana, dove Guerra e pace germogliò.


Dicevano che veneri ugualmente anche Dostoevskij, se non sbaglio…

Non sbagli. Tolstoj o Dostoevskij di George Steiner, in quel libro c'è tutto quel che dalla critica uno si può aspettare.


In sostanza gli autori russi sono tra i tuoi preferiti, giusto?

Sopra tutti. Pasternak, Nabokov, Bulgakov.


Credi che le tue letture russe abbiano influenzato in qualche modo anche le tue opere? O la tua scrittura?

Questo sì, è innegabile. La voglia di scoprire cosa c'è dietro il muro dell'apparenza, di studiare il diverso piuttosto che l'ordinario (questo secondo la scia di Dostoevskij). E c'è sempre di mezzo un diavolo un po' strambo, suggeritomi da Bulgakov. Tolstoj invece credo influenzi molto meno. Per contenuti, e per stile: stilisticamente, voglio dire, chi mai ci arriverebbe anche solo a esserne un mediocre epigone? Di Dostoevskij uno può aspirare a emulare la temperatura drammatica, la vertiginosità degli eventi; di Tolstoj nulla.


Ma guarda che anche stare dietro a Dostoevskij mica è tanto facile...

Mi spiego meglio: essendo scarsi a scrivere, ci si può illudere molto più facilmente di somigliare a Dostoevskij che non a Tolstoj. Trattasi sempre solo comunque di illusioni, chiaro. Illusioni che però rendono felici, a tratti.


Varsavia e i russi però non hanno mai avuto un buon rapporto, mi pare...

Assolutamente no. Ogni singolo polacco cui ho detto che andavo a Mosca ha storto il naso esclamando un "i russi ci odiano" o qualcosa del genere.


Hai avuto qualche contatto anche con la letteratura polacca? Hai avuto modo di leggere qualche autore polacco?

Ho letto Ferdydurke, di Gombrowicz: illuminante. Ricorda un po' il rapporto di Bulgakov con gli intellettuali, ed è originalissima la trama, e lo stile, Dio! Ma soprattutto la rabbia con cui è scritto il libro, unita alla consapevolezza che, nonostante la splendida metafora ideata, quel mondo di intellettuali farlocchi non morirà mai.


Tornando alla Polonia, in generale che impressione ti ha dato?

Di rinascita, senz'altro; con un po' troppa fregola di emulare l’Occidente, talvolta. Una nazione perennemente avversata. Ero lì quando l’aereo presidenziale è caduto, lo scorso aprile. Per le strade in quei giorni c'era una folla assurda; per una settimana è stato proclamato il lutto nazionale, e tutti erano così affranti, rigidi, schivi. Piangevano, si sorbivano interminabili ore di coda per far visita al presidente scomparso. Non posso immaginare una cosa simile in Italia. Non accadrebbe mai. Forse amano compiangersi un po' troppo, i polacchi.


Tornando al tuo romanzo, pensi che gli autori debbano raccontare un luogo preciso? Pensi di essere riuscito (almeno in parte) a raccontare la capitale della Polonia?

In parte sì. Ma credo valga soprattutto per lettori polacchi, o per chi quantomeno a Varsavia c'è stato. Per chi non c'è mai stato, non è che la capitale polacca sia riuscito a descriverla troppo bene. L'assurdo forse si comprende soltanto avendo consapevolezza della realtà.


Che posto ha la scrittura nella tua vita?

Il posto dei sogni: irrinunciabile, ma conflittuale. A volte non vogliamo accettare il fatto che i sogni non siano guidati dalla nostra volontà, da quella cosciente. E così per la scrittura, a volte rileggiamo cose che non ci pare abbiamo mai voluto scrivere. Detto ciò, la cosa straordinaria della scrittura è che domani potrà telefonarti qualcuno rimasto sconvolto dalla lettura del tuo romanzetto; ed è che domani ricorderò i momenti bellissimi in cui ho riletto ciò che ho scritto oggi, pensando davvero di aver dato vita a qualcosa di speciale. Il momento della prima rilettura è il più emozionante e al tempo stesso il più distorto. La scrittura è non sapere mai se ti appartiene veramente oppure no. C'è chi non lo sa fino al giorno in cui muore: chi vive perennemente nel dubbio, e nel sogno.


Vista questa passione per la scrittura, perché la scelta di laurearti in scienze delle comunicazione? Si tratta di una scelta dettata dalla necessità? oppure è coerente con questa tua passione?

La risposta a questa domanda potrebbe sconvolgerti, ma... credo d'aver scelto quel corso di laurea perché mi si era detto fosse facile, perché non potevo secondo i miei non fare l’università, e perché il mondo della creazione pubblicitaria mi attirava (neanche uso il verbo affascinare; soltanto, mi attirava). C'è posto a questo mondo per gli ignavi?


Sei soddisfatto della scelta?

Assolutamente no. Non serve a nulla, in pratica. Davvero, è caos. Organizzata malissimo, senza uno scheletro solido, solo cultura generale, che sappiamo benissimo poterci fare da soli. Io magari non faccio testo, dal momento che non era ciò che volevo davvero fare. Ma conosco altri, appassionati di giornalismo o di altre materie inerenti al corso, che sono rimasti altrettanto scottati, e per l'inesistente sbocco lavorativo, e per l'infimo livello di insegnamento. Scienze della comunicazione NON insegna, fondamentalmente. Dà libri da leggere, sottolineare e ripetere. Questo è quanto.


Ultima domanda: (da non prendere troppo sul serio!). Per campare cosa farai, oltre a scrivere?

(Da non prendere troppo sul serio!) credo di essere (sono!) uno dei migliori callcenteristi del panorama nazionale. Per ora ci lavoro part-time, ma un domani chissà, potrei giungere a lavorare 12 ore al giorno in un call-center intontendo clienti molesti. A parte questo, sono sfiduciato. Non so davvero come potrei mai convincere un qualsiasi datore di "gratificante" lavoro ad assumermi, visto il mio risibile Curriculum. A questo punto, spero sopraggiungerà la fede.


Ti invito ufficialmente a non scoraggiarti! Hai scritto un bel romanzo e lo hai pubblicato al primo colpo. Mi sembra già un ottimo inizio. Hai mai pensato di andare a vivere a Varsavia?

Naaa, amo la mia ragazza e sto bene qui, per ora. Un giorno, magari, andremo a vivere a Budapest, che è la nostra città. O altrove. Facendo i dovuti scongiuri. Ma il capitolo Varsavia è ufficialmente chiuso. Ce ne sono un sacco, nella vita di un uomo. E c'è pure l'epilogo! È stata una bella conversazione: ti ringrazio.

2 Commenti a “Intervista a Fabio Elia, autore di "Warszawa"”

  • 9 giugno 2011 alle ore 15:27
    Affamato di libri says:

    Gran bel libro...

  • 10 ottobre 2012 alle ore 16:07
    Anonimo says:

    In nessuna recensione di Warszawa ho riscontrato la dovuta limpidezza di visione.
    Tutti a soffermarsi sull’assurdità del testo, sullo stile eccentrico e spossante, sui ghirigori fini a se stessi, sulla confusione insomma e sulla trascurataggine del testo, scritto a parer di molti senza la minima coscienza di un’architettura e tantomeno di un contenuto.
    A me sembra però che leggere e giudicare Warszawa di Fabio Elia senza comprendere la metafora cui soggiace, sia come sputare su un piatto di spaghetti perché si credeva fossero cubici.
    La metafora è tutta qui: Felix il turco non è inseguito da Felix il polacco che metaforicamente, poiché il vero cacciatore è un destino che non si conosce, ovvero il destino personale che ciascuno di noi ha in serbo per sé e che ciononostante non potrà mai aver la certezza di conoscere; un destino, il proprio, che spesso pare ce l’abbia con noi, pare strangolarci man mano sempre di più, con il preciso fine di levarci la vita, un giorno.
    Ecco, e che cosa fa Felix il turco scrivendo il libro (che è poi il libro stesso di Fabio Elia)? Sostituisce il viso pallido e la cresta bionda di Felix il polacco al suo proprio destino, e lo mette alla caccia di se stesso: chiaramente, rendendo l’inseguimento cento volte più avvincente e intenso di quanto avvenga nella realtà. Non è forse vero che il nostro destino c’indirizza su percorsi i quali, se ci pensiamo, mai abbiamo desiderato né scelto d’intraprendere? Ed è lungo questo cammino inconsapevole, che il nostro destino ci uccide usurandoci inesorabilmente.
    Felix il turco con la sua trovata ha fatto trenta, e allora fa trentuno: decide non solo d’immergersi in una fuga mozzafiato, ma di pervenirne all’apice: la morte, ovvero l'emozione più grande, l'unica in grado di offrire una rivincita veramente sublime nei confronti del subdolo ingrato destino.
    Ma l’intenzione che gli muove la mano è troppo eccitata da gestire. Così egli finisce per scrivere un libro in cui raggiunge sì il suo scopo, ma lo fa a scapito del popolo polacco, ridicolizzandone i difetti, gonfiandone a dismisura le manie e facendone il verso alle tradizioni.
    Quello del turco è un gesto arbitrario, dettato da un desiderio personale e da nient’altro. Proprio come il movente di Raskol’nikov di Delitto e castigo: l’eroe di Dostoevskij agisce arbitrariamente per provare a scavalcare le regole degli uomini ordinari, quello di Elia (ben più umilmente) lo fa per vivere (e accontentarsene) un brandello di vita veramente originale.
    Alla fine del romanzo russo, Raskol’nikov si pente del suo gesto perché non riesce a sopportare ciò che ha fatto; pentimento il cui simbolo avrebbe dovuto essere, secondo il consiglio di Sonja, l’inginocchiarsi in Piazza Sadovaja, nel bel mezzo del mercato dove tutti l’avrebbero udito gridare “Io ho ucciso!”. Cosa che però non avviene. Non avviene questa sorta di “pubblicazione del pentimento”. Esso resta un sentimento intimo dell’eroe, con il quale dovrà convivere in carcere.
    E allo stesso modo non avviene il pentimento di Felix, il turco che ha scritto “Warszawa”. L’epilogo del suo libro, in cui si pente della leggerezza e dell’ignoranza con cui nel suo testo ha trattato il popolo polacco, non è abbastanza convincente per il suo editore, che gli cassa l’idea e gli propone un ultimatum: o cancella quella lagna finale, assolutamente slegata dal contesto e incoerente con lo stile del resto del libro, o il libro non verrà pubblicato. Felix non scende a compromessi, e decide di non pubblicare. Non avviene dunque la “pubblicazione del suo pentimento”. Il turco non espia la propria colpa pubblicamente, bensì intimamente e in silenzio, rinunciando a quella che poteva essere l’effimera gloria letteraria, per lasciarsi carezzare dalla brezza della vita reale, magari meno clamorosa ma certo più autentica.
    Se leggerete Warszawa correndo su questi binari, state pur certi che il treno della vostra lettura non deraglierà, e non vi ritroverete spaesati tra macerie di parole infilate casualmente una dopo l’altra.

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