Recensione
Insegnare italiano (sì, italiano) nelle scuole superiori.
Venerare Dante come padre della patria linguistica salvo poi citarlo per l’unica sua colpa: quella di non aver mai nominato Pesaro nella “Commedia” (Paolo e Francesca da Gradara sì; persino Fano, ma non il capoluogo Pesaro!).
Dotarsi di una lingua estesa, di un stile a un tempo popolare (addirittura rionale, si direbbe) e colto: quasi un sogno olivettiano anche nell’idioma di un’Italia che si faceva mercato e industria, bancarella e mondo.
Presi così, singolarmente, questi elementi potrebbero sembrare parti della biografia dell’autore. Se invece li mettiamo insieme, attorno alla fortuna di un libro ben riuscito, ecco che acquistano tutto il loro senso, prendono dimensione e volume. Suonano.
Se poi si volesse prendere in considerazione l’ultimo dei sentieri che questo libro ci apre di fronte, ovvero l’omaggio antico di un figlio (l’autore stesso, in questo caso) a suo padre, ecco che troveremmo non soltanto il più classico dei romanzi di formazione ma anche il grande omaggio alla memoria di chi, sempre, ci precede. Ovvero: vivere un lascito. Perché così ci avverte Teobaldi, alla fine: “il modello narrativo a cui mi sono rifatto è quello di mio padre: Washington (Vasinto) Teobaldi, falegname”.
E, insomma, il titolo riassume tutto ciò in maniera perfetta: il padre e i nomi, le parole. La memoria e il linguaggio che la dice.
Questa impresa la compie il protagonista assoluto del romanzo, Eugenio Benedetti che comincia bambino nell’incipit e nella sua casa di piazzale Collenuccio (Pesaro) per poi diventare, appunto, il padre dei nomi ossia copywriter nell’epoca in cui l’Italia diventa adulta. Perché gli anni ‘50 e ‘60, per uno che faceva quel mestiere, sono stati una prateria sterminata, un campo da arare e concimare. Un foglio intonso, da scrivere.
Ed Eugenio lo fa. Come una missione, come quella passione che la vita sembra avergli cucito addosso, tal quale un vestito del dopoguerra: una bella tela ruvida e tanta fantasia, il clamoroso trionfo dell’arte del cucito. Così Eugenio Benedetti, sontuosamente avvolto dalla ricchezza umana e dalla solidità della sua infanzia di provincia, si avvia alla volta di Milano, città da conquistare nel lavoro come nella vita: lassù si sposerà, farà famiglia e fortuna.
Insomma, tanto per accennare all’organizzazione interna, c’è un prima e un dopo, due tempi ben scanditi nel libro: se nella prima parte si dispiega appunto il romanzo di formazione, nella seconda assistiamo al decollo dell’utopia tutta novecentesca di un mondo a misura del lavoro dove ogni singola parola indica non solo una merce ma il merito dell’impresa che ci sta dietro. In un autentico caleidoscopio linguistico, vediamo passarci sotto gli occhi il campionario completo (comprensivo di tutte le contraddizioni) dell’Italia che si sottrae alla povertà terribile del dopoguerra e ricostruisce l’intero tessuto industriale che la porterà al boom.
Teobaldi allora immagina il suo protagonista come una specie di deus ex machina, colui che muove tutti i fili, quello dal quale passano (come in un delirio assolutissimo di onnipotenza) i nomi e i destini di tutti i nuovi prodotti del tempo. Così, se la mitologia in gioventù era stata per Eugenio Benedetti quella terragna della provincia agricola, in età adulta egli si trasforma nell’incarnazione dei suoi stessi sogni, nel profeta delle magnifiche sorti e progressive. La volontà di riuscire lo guida ed egli riesce, fa.
In anni in cui (“Il padre dei nomi” è del 2002) veniva dispiegandosi in maniera ormai definitiva un vero e proprio contromito di questo Paese, quello dell’uomo fattosi da sé, dell’unto del Signore, qualcuno potrebbe leggere nella storia raccontata in questo libro una metafora un po’ differente, decisamente più amara e contraddittoria.
In realtà, seppur nel maestoso incedere dell’industrializzazione italiana, ad un certo punto della storia comincia a far capolino un poco di nebbia: quella vera della pianura e quella metaforica della confusione mentale, del dubbio che coglie il protagonista. “Dove sono? dove vado?” e allora via!, una corsa in macchina giù, verso le sue origini provinciali e contadine, per accompagnare un morto, assistere un malato, consolare un vivo.
Così alla fine quel che resta, nella terza parte che senza alcun equivoco si chiama “Buon fine”, è lo spirito stesso che forse davvero guidò l’Italia di quegli anni così lontani: l’ottimismo dello sviluppo. Prima che gli avvoltoi arrivassero a depredare ogni cosa con il loro rapace egoismo, forse c’è davvero stato un destino nazionale che poteva apparire per tutti.
Sappiamo oggi, anche ricordando le parole profetiche di Pasolini (che stranamente qui non compare mai), come è andata a finire.
Giudizio:
+4stelle+Dettagli del libro
- Titolo: Il padre dei nomi
- Autore: Paolo Teobaldi
- Editore: Edizioni e/o
- Data di Pubblicazione: 2002
- Collana: Dal mondo
- ISBN-13: 978-88-7641-484-8
- Pagine: 315
- Formato - Prezzo: Brossura - Euro 17,00
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