Nonostante le continue smentite dell'autore, il libro ha sicuramente alcuni tratti autobiografici: sicuramente anche Richler era uomo dalla personalità dirompente e vagabonda, anche lui aveva trascorso la gioventù a Parigi in cerca di fortuna e ispirazione, anche lui aveva collaborato con cinema e televisione come sceneggiatore. L'amore per il Canada, il complesso rapporto con la comunità ebraica, i dolorosi momenti legati al conflitto culturale tra anglofoni e francofoni in Quebec, sono tutti elementi che Richler riversa nella tumultuosa vita del suo Barney.
E' evidente che un personaggio dalla personalità così dirompente ha subito attirato l'attenzione di registi e produttori cinematografici, tanto che di un adattamento del libro per il cinema si iniziò a parlare quando ancora Mordecai Richler era in vita. L'autore, che già aveva riadattato per il grande schermo il suo primo romanzo di successo L'apprendistato di Duddy Kraavitz, inizia a lavorare a una versione del suo capolavoro da mettere su pellicola, ma la morte -avvenuta nel 2001- gli impedisce di portare a termine il lavoro. A questo punto il progetto passa di mano in mano per diversi anni, anche a causa della difficoltà di trasformare questo vortice di livore e sarcasmo che è l'autobiografia di Barney Panofsky in un'opera cinematografica almeno vagamente comprensibile. Alla fine è il regista canadese Richard J. Lewis a riuscire nell'impresa, con risultati discreti ma sinceramente non esaltanti. Innanzi tutto Lewis decide di rinunciare alla voce fuori campo, scelta sicuramente coraggiosa ma in questo caso non molto indovinata, perché smarrisce l'aspetto corrosivo e strabordante della personalità di Barney, fornendoci una versione edulcorata del personaggio di Richler che diventa una sorta di eroe malinconico troppo uguale a molti altri. L'umorismo yiddish, l'dentità ebraica, il gusto di "mandare tutto in vacca", nel film risultano annacquati, come se l'intento principale del regista fosse quello accalappiare un pubblico il più ampio possibile confezionando la più classica delle commedie americane.
Anche la scelta di Paul Giamatti come protagonista desta qualche perplessità, probabilmente anche a causa del fatto che le edizioni italiane del libro hanno sempre avuto in copertina un primo piano di Richler, portando gran parte dei lettori a immaginarsi il loro Barney proprio così, con quei capelli scarmigliati e l'aria polemica. L'interpretazione di Giamatti è molto buona (sebbene a volte pecchi di eccessi di istrionismo) ma, di nuovo, più maliconica che mordace, soprattutto quando l'attore spalanca gli occhioni fissando lo spettatore con quello sguardo da cane bastonato. Più azzeccata, da questo punto di vista, l'interpretazione del grande Dustin Hoffman nei panni di Izzy, il padre di Barney, decisamente più in sintonia con l'umorismo irriverente (e alcolico) e il disprezzo di ogni ipocrisia espresso nel libro. Ovviamente l'interpretazione di Giamatti gli ha fatto guadagnare un Golden Globe come miglio attore in una commedia (ma neppure una nomination all'Oscar) mentre quella di Hoffman non ha ricevuto riconoscimenti.
Altra scelta incomprensibile operata dal regista è stata quella di spostare la prima parte della storia da Parigi a Roma: per quale motivo la Roma da cartolina dell'immaginario americano, con le luci soffuse e il mandolino di sottofondo, dovesse essere più adatta della capitale francese per rappresentare l'ambiente bohemien di artisti e scrittori in cerca di fortuna in cui ha vissuto il giovane Barney proprio sfugge alla mia comprensione. Allo stesso modo si perde un po' la natura di artista pazza della prima moglie Clara, interpretata da Rachelle Lefevre, mentre viene accentuato il suo essere un po' stronza. Più fedeli all'originale l'impagabile Seconda Signora Panofsky, di cui la simpatica Minnie Driver tratteggia un ottimo ritratto, e la dolce Miriam, interpretata dall'inglese Rosamunde Pike che ben impersona il lato paziente e sensibile della terza moglie di Barney con qualche eccesso che la rende un po' stucchevole.
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