L'incipit in un libro è tutto. In pochi capoversi l'autore cattura l'attenzione del lettore e lo risucchia nel vortice della storia. Oppure con poche banali parole lo perde per sempre...
Quanti libri, magari meritevoli, giacciono abbandonati dopo poche righe sui comodini di ogni lettore? E quanti altri invece sono stati divorati in poche ore perché già dalle prime righe non siamo più riusciti a staccare gli occhi dalle pagine?
Anche questo mese vogliamo condividere con voi gli incipit dei libri che stiamo leggendo, perché alcuni di voi possano trarre ispirazione per le loro future letture e perché altri possano di nuovo perdersi nel ricordo di personaggi e atmosfere che già una volta li avevano rapiti...
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«Alla Signora Saville, Inghilterra.
Pietroburgo, 11 dicembre 17**
Ti rallegrerai nell'apprendere che nessun disastro ha accompagnato l'inizio di un'impresa alla quale tu guardavi con tanti cattivi presentimenti.
Sono arrivato qui ieri, e la prima preoccupazione è stata di rassicurarti, cara sorella, sul fatto che sto bene e che nutro fiducia crescente verso quanto ho intrapreso. Sono già molto più a nord di Londra, e mentre cammino per le strade di Pietroburgo sento una fredda brezza di settentrione che mi sfiora le guance, mi rinvigorisce i nervi e mi riempie di gioia. Puoi capire questo mio sentimento? Questa brezza, che arriva dalle regioni verso cui sto andando, mi dà un assaggio di quei climi ghiacciati. Incoraggiati da questo vento pieno di promesse, i miei sogni a occhi aperti diventano più vividi e appassionati. Cerco invano di convincermi che il polo è il regno del gelo e della desolazione: alla mia fantasia si presenta sempre come una regione piena di bellezza e di felicità.
Là, Margaret, il sole è sempre visibile; il suo ampio disco sfiora appena l'orizzonte e diffonde emana uno splendore perpetuo.
Là -se mi consenti, sorella mia, di fidarmi dei navigatori che mi hanno preceduto - la neve e il gelo sono banditi, e, veleggiando su un mare calmo, si puà essere trasportati in una terra che sorpassa per bellezza e meraviglia ogni regione del mondo finora scoperta.
I suoi prodotti e il suo aspetto potrebbero essere senza eguali, come certo senza uguali sono i fenomeni dei corpi celesti in quelle solitudini mai raggiunte. Cosa non ci si può aspettare in un paese di luce eterna?»
«Mangiare da solo non mi piace, ed è uno dei motivi per cui sono famoso. C'è qualcosa di patetico e poco attraente in chi mangia per conto suo in pubblico. Meglio starsene a casa, a bere una spremuta dalla lattina davanti alla tv con una manciata di cracker, che essere notati senza compagnia in attesa del proprio misero pasto solitario.»
«Chiuso.
Sei giorni, sette ore, ventidue minuti e dieci secondi.
Undici. Dodici. Tredici...
TOCK TOCK TOCK.
Sollevo la testa dal laptop. Hanno bussato? Mannò, figuriamoci. La musica dello stereo è altissima. Mi morde i timpani soffocando le percezioni, ho sentito male. Sono gli acuti del tweeter che confondono. E i bassi che bussano. Solo questo. È soltanto la mia immaginazione. Sollecitata. E' per questo che non posso rinunciare a tutti questi decibel. Mi stordiscono, e mi piace. Una volta pompare il volume non mi faceva questo effetto, così, tipo...droga. Sì, mi sballa.
TOCK TOCK!»
«Anno di Glad
Siedo in un ufficio, circondato da teste e corpi. La mia postura segue consciamente la forma della sedia. Sono in una stanza fredda nel reparto Amministrazione dell'Università, dei Remington sono appesi alle pareti rivestite di legno, i doppi vetri ci proteggono dal caldo novembrino e ci isolano dai rumori degli Amministrativi che vengono dall'area reception, dove poco fa siamo stati accolti dallo zio Charles, il Sig. deLint e io. Sono qui dentro. All'altro lato di un grande tavolo in legno di pino che splende della luce del mezzogiorno dell'Arizona, tre facce sono materializzate sopra giubbotti sportivi leggeri e Windsor a mezze maniche. Sono tre Decani - Ammissione, Affari accademici e Affari Atletici. Non so attribuire le facce. Credo di sembrare un tipo normale, forse perfino simpatico, anche se mi hanno consigliato di apparire il più normale possibile, e di non provare nemmeno a fare quella che a me parrebbe un'espressione simpatica o un sorriso. Ho deciso di incrociare le gambe come si deve, con attenzione, caviglia sul ginocchio e mani riunite in grembo. Tengo le dita intrecciate e mi sembrano diventare una serie di x vista allo specchio. Il resto delle persone presenti nella sala include: il Direttore di Composizione dell'Università, l'allenatore di tennis, e il prorettore dell'Accademia, il Sig. A. deLint. C.T.è accanto a me; gli altri sono rispettivamente seduto, in piedi, in piedi, alla periferia del mio campo visivo. L'Allenatore di tennis giochicchia con degli spiccioli. C'è qualcosa di vagamente digestivo nell'odore della stanza. La suola ad alta trazione della mia Nike regalatami dalla Nike è parallela al mocassino fremente del fratellastro di mia madre, qui nel suo ruolo di Preside, seduto anche lui davanti ai Decani a quella che spero sia la mia destra. Il Decano sulla sinistra, un uomo magro e giallognolo il cui sorriso fisso ha la precarietà delle cose impresse su materiale non-coperativo, fa parte di un tipo di personalità che di recente ho imparato ad apprezzare; è il tipo che, raccontando per me, a me, la mia versione dei fatti, allontana la necessità di una qualunque risposta da parte mia. Ha davanti a sé una pila di fogli scritti al computer appena passatigli da un Decano spelacchiato al centro, sta praticamente parlando a quelle pagine e sorride. "Lei è Harold Incandenza, diciott'anni, conseguirà la maturità di Scuola superiore all'incirca entro un mese da oggi, attualmente frequenta l'Enfield Tennis Academy di Enfield, nel Massachusetts, il collegio presso cui risiede". Ha degli occhiali da lettura rettangolari, a forma di campo da tennis, con le righe in cima e in fondo. "Lei è, secondo l'Allenatore White e il Decano [incomprensibile], un giocatore di tennis juniores classificato a livello regionale, nazionale e continentale; un potenziale atleta di livello Onancaa, una grande promessa. E' stato contattato dall'Allenatore White attraverso uno scambio di corrispondenza con il qui presente Dott. Tavis a partire dal... febbraio di quest'anno". Una volta letta, la pagina in cima alla pila viene metodicamente messa in fondo al mazzo. "Lei vive alla Enfield Tennis Academy dall'età di sette anni". Sto cercando di capire se posso correre il rischio di grattarmi il lato destro della mascella, dove ho una cisti sebacea. "L'Allenatore White fa presente ai nostri uffici di tenere in alta considerazione i programmi e i risultati conseguiti dall'Enfieldn Tennis Academy, dice che la squadra di tennis dell'Università dell'Arizona ha tratto beneficio dall'aver immatricolato in passato numerosi ex studenti Eta, uno dei quali è un certo signor Aubrey F. deLint, che sembra essere qui con lei, oggi. L'Allenatore White e il suo staff ci hanno convinto--". L'eloquio dell'amministratore giallastro è piuttosto mediocre, ma devo ammettere che si è fatto capire. Il Direttore di Composizione sembra avere più sopracciglia del normale. Il Decano sulla destra guarda la mia faccia in modo un pò strano. Lo zio Charles sta dicendo che, pur sapendo che i Decani potrebbero valutare le sue affermazioni come quelle di un interessato sostenitore dell'Eta, si dichiara disposto a garantire ai Decani qui riuniti che è tutto vero, che l'Accademia annovera attualmente fra i suoi ospiti non meno di un terzo dei trenta migliori juniores del continente, in ogni fascia di età, e che io qui presente, "Hal", sono "proprio là in testa, fra la crema della crema". Il Decano sulla destra e quello al centro fanno un gentile sorriso professionale, le teste di deLinte dell'allenatore s'inclinano mentre il Decano a sinistra si schiarisce la gola: "--che perfino come matricola lei potrebbe apportare un contributo sostanziale al programma tennistico di questa Università. Siamo lieti", dice o forse legge, mettendo a posto un'altra pagina, "che lei abbia scelto di essere qui tra noi, oggi, dandoci così l'opportunità di riunirci tutti insieme e parlare un po' della sua domanda di iscrizione, del potenziale accoglimento, da parte nostra, della sua immatricolazione e della sua borsa di studio". "Mi è stato chiesto di aggiungere che il nostro Hal è la terza testa di serie nel singolo maschile Under 18 del prestigioso torneo juniores WhataBurger Southwest Initational al Randolph Tennis Center --" dice quello che ipotizzo essere Affari Atletici, la testa chinata di traverso a mostrare uno scalpo punteggiato di efelidi. "Là al Randolph Park, vicino al fantastico El Con Marriott", si inserisce C.T., "una sede sportiva che si dice sia il meglio del meglio, che --" "Proprio così, Chuck, e vorrei anche aggiungere che, come dice il nostro Chuck, Hal ha già giustificato il suo numero di testa di serie entrando in semifinale con la vittoria, mi si dice schiacciante, di questa mattina, e domani giocherà di nuovo contro il vincitore di uno dei quarti di finale di stasera, e quindi giocherà domani, credo alle 0830h--" "Cercano di anticipare questo maledetto caldo. Anche se ovviamente è un caldo secco". "--e a quanto pare si è anche già qualificato per gli Indoor Continentali di quest'inverno su a Edmonton, mi dice Kirk--" e si inclina un altro po' per guardare in su e a sinistra verso l'allenatore, i cui denti splendono contro la violenta scottatura del viso. "Il che non è davvero poco". Mi guarda, sorride. "Tutto giusto, Hal?". C.T. ha incrociato e braccia con noncuranza; la carne dei suoi tricipiti è screziata nella luce filtrata dall'aria condizionata. "Tutto giustissimo, Bill". E sorride. Le due metà dei suoi baffi non sono mai perfettamente parallele. "E se mi è consentito vorrei aggiungere che Hal è entusiasta, entusiasta all'idea di essere stato invitato al torneo per il terzo anno consecutivo; di ritrovarsi ancora una volta in una comunità per la quale nutre un autentico affetto; di potersi intrattenere con i vostri studenti e i vostri istruttori; di aver già giustificato il suo numero di testa di serie passando indenne per le difficili sfide di questa settimana; di essere ancora in ballo, per così dire; ma naturalmente, sopra ogni cosa, Hal è entusiasta di avere l'opportunità di incontrare voi, signori, e di potere dare un'occhiata a strutture e servizi. Da quanto ho avuto modo di constatare, qui tutto è davvero di prima categoria". Silenzio. DeLint appoggia la schiena ai pannelli della stanza e ritrova l'equilibrio. Mio zio fa un gran sorriso e raddrizza il cinturino dell'orologio, già dritto di suo. Il 62,5 per cento delle facce della stanza è rivolto verso di me, in cortese e compiaciuta attesa. Il torace mi sussulta come una centrifuga in azione con delle scarpe dentro. Cerco di mettere insieme quello che dovrebbe essere visto come un sorriso. Mi volto da una parte e dall'altra, lentamente lievemente, come a dedicare il sorriso a ognuno di loro. Di nuovo il silenzio. Le sopracciglia del Decano giallastro si fanno circonflesse. Gli altri due Decani guardano il Direttore di Composizione. L'allenatore di tennis è andato a sistemarsi accanto alla grande finestra e si tocca sulla nuca i capelli tagliati a spazzola. Lo zio Charles si carezza l'avambraccio, subito sopra l'orologio. Sul lucore del tavolo di pino si muovono piano le ombre arcuate e affilate delle foglie di una palma, l'ombra dell'unica testa riflessa pare una luna nera. "Chuck, scusa, ma Hal si sente bene?" chiede Affari Atletici. "Mi pare che l'espressione di Hal sia...be', molto tesa. Sta male? Ti senti male, figliolo?"»
«Due notti da solo in una stanza in compagnia di due flaconi da un'oncia di cocaina farmaceutica permisero a Mad Dog McCain di meritarsi pienamente il suo soprannome. Quella cocaina era migliore di quella spacciata per strada. Proveniva dalla valigetta di un dottore che Mad Dog aveva rubato in un'automobile in sosta nell'area di parcheggio di un centro sanitario. All'inizio aveva pensato di venderla dopo averne presa un po' per sé, ma le poche persone di sua conoscenza a Portland che aveva contattato o la volevano avere a credito, oppure avevano parlato della cocaina con sarcasmo, usando espressioni come "paranoia in polvere" o "venti minuti verso la follia". In realtà volevano tutti l'eroina, una droga che li calmava anziché mandarli fuori di testa.»
«I bambini vennero presto per assistere all'impiccagione.
Era ancora buio quando i primi tre o quattro uscirono furtivamente dai casolari, silenziosi come gatti nei loro stivali di feltro.
Uno strato di neve fresca copriva il paese come una nuova mano di colore e le loro orme furono le prime a intaccarne la superficie immacolata. Passarono tra le casupole di legno camminando sul fango ghiacciato delle viuzze e raggiunsero la piazza del mercato dove attendeva la forca. I bambini disprezzavano tutto ciò che gli adulti tenevano in considerazione...»
«Blackeberg. Fa pensare a quei dolci rotondi di pasta di cocco, magari fa venire in mente la droga. Una vita decente. Si pensa alla metropolitana, ai sobborghi. Poi probabilmente non viene in mente nient'altro. Anche lì, come dappertutto, ci abita della gente. È per questo che il quartiere è stato costruito, perché le persone avessero un posto dove abitare. Non è un luogo cresciuto in modo naturale, no. Qui, tutto è stato predi-sposto sin dall'inizio. La gente ci è andata a vivere non appena tutto era pronto. Edifici di cemento, scagliati nel verde. Quando questa storia ha inizio, il quartiere di Blackeberg esisteva già da trent'anni. Si potrebbe pensare allo spirito dei pionieri. Al Mayflower, a una terra sconosciuta. Sì. Immaginare case vuote che aspettano la gente. Ed eccola che arriva! Passando sul ponte di Traneberg con il sole e le visioni davanti agli oc-chi. L'anno è il 1952. Le madri portano i loro piccoli in braccio e spingono le carrozzine o li tengono per mano. I padri non portano zappe e badili, ma elettrodomestici e mobili funzionali. Con tutta probabilità stanno cantando qualcosa. Forse l'Internazionale. Oppure un salmo, a seconda del credo re-ligioso. Il quartiere è grande. È nuovo. È moderno. Ma non è andata così.»
«Mio padre aveva una faccia che avrebbe potuto fermare un orologio. Non intendo che fosse brutto o qualcosa del genere; era solo una frase che nella Cronoguardia si usava per descrivere qualcuno che avesse il potere di ridurre il tempo a un lento sgocciolare.»
«Egle quel giorno si sentiva soddisfatta, sollevata, in pace con la sua coscienza. La grande casa baronale paterna sarebbe stata finalmente restaurata.
Gironzolò sorridendo intorno alla costruzione immersa in uno degli agrumeti più antichi e più belli dell’intera Sicilia. Nel disordine di un ambiente fatto di paesaggi antichi, piante secolari, profumi ancestrali, orridi casermoni, porticcioli e marine di incomparabile bellezza, si era colpiti a tradimento dalla stupenda architettura della villa che emergeva da quella macchia di verde punteggiata di sfere d’oro. Nonostante il traffico e l’edilizia abusiva, in quello che rimaneva della meravigliosa Conca, i terreni coltivati ad agrumi sopravvivevano ancora con i loro colori intensi e l’acre profumo dei loro frutti.
Era stata una decisione difficile quella di riportare in vita il vecchio edificio, ma ormai era fatta: i lavori sarebbero iniziati di lì a poco. Osservò eccitata ciò che le stava intorno e notò che il riflesso del sole creava giochi di luce battendo sui vetri opacizzati della casa, tanto da formare figure con sembianze umane. Egle inseguì con lo sguardo un raggio un po’ più forte degli altri che andò ad infrangersi contro una finestra del piano superiore frantumandosi in miliardi di particelle che, ricomposte, le fecero pensare ad un volto maschile. Fra tanti, il pensiero volò a suo nonno.»
«Un fronte freddo autunnale arrivava rabbioso dalla prateria. Qualcosa di terribile stava per accadere, lo si sentiva nell'aria. Il sole era basso nel cielo, una stella minore, un astro morente. Raffiche su raffiche di entropia. Alberi irrequieti, temperature in diminuzione, l'intera religione settentrionale delle cose era giunta al termine. Neanche un bambino nei giardini. Ombre e luce sulle zoysie ingiallite. Querce rosse e querce di palude e querce bicolori riversavano una pioggia di ghiande sulle case senza ipoteca. Le controfinestre rabbrividivano nelle stanze da letto vuote.»
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